Operazione Domani Robert A. Heinlein Friday è una splendida figliola, moderna e disponibile, ma possiede due caratteristiche peculiari: è un corriere segreto ed è anche una PA, ossia una Persona Artificiale, uguale in tutto e per tutto a un comune essere umano salvo per il fatto di essere stata creata in laboratorio. Il suo capo, Boss, l'ha reclutata e addestrata quando per lei la vita non era certo facile ma ora Friday è un agente in grado di sopportare all'occasione stupri multipli e torture. Ma la sua vita non manca di lati piacevoli e distensivi, almeno fino al giorno che sarà ricordato dai libri di storia come il Giovedì Rosso. Chi si nasconde dietro l'ondata di delitti politici e di sabotaggio che dilagano sulla terra e nello spazio, minacciando il tranquillo caos che da secoli regna sull'Umanità? Robert A. Heinlein Operazione Domani Traduttore: Vittorio Curtoni Originale: Friday, 1982 Rivista letteraria «URANIA», 1991 1 Quando scesi dalla capsula Piantadifagiolo Kenia, lo avevo alle calcagna. Mi seguì oltre la porta degli uffici Dogana, Sanità e Immigrazione. Mentre la porta si contraeva alle sue spalle, lo uccisi. La Piantadifagiolo non mi è mai piaciuta. Mi disgustava già prima del disastro del Ganciaereo di Quito. Un cavo che si alza in cielo senza niente che lo sostenga puzza troppo di magia. Ma l’unico altro mezzo per raggiungere Elle-Cinque richiede troppo tempo e costa troppo; i miei ordini e la mia nota-spese non me lo permettevano. Così ero già nervosa prima di lasciare lo shuttle da Elle-Cinque a Stazione Stazionaria e salire sulla capsula della Piantadifagiolo… Però, accidenti, il nervosismo non è un buon motivo per uccidere qualcuno. Volevo solo metterlo fuori combattimento per qualche ora. Il subconscio ha la sua logica. Lo afferrai al volo prima che piombasse a terra e lo trascinai verso una fila di armadietti di sicurezza a prova di bomba, in tutta fretta per non macchiare il pavimento; premetti il suo pollice contro la serratura lo infilai dentro, gli presi il borsello; trovai la tessera del Diners Club, la inserii nella fessura per il pagamento, recuperai i documenti e contanti; e gettai dentro il borsello assieme al cadavere, mentre la saracinesca si abbassava e chiudeva. Poi mi girai. Un Occhio Pubblico fluttuava sopra e dietro di me. Inutile restare col cuore in gola. Nove volte su dieci, un Occhio svolazza a caso, senza qualcuno che lo segua su un monitor; e le sue dodici ore di registrazione possono essere o non essere controllate da un umano prima di venire cancellate. La decima volta… Un agente di pace può seguire tutto sul monitor; oppure può stare lì a grattarsi la pancia e a pensare a quello che ha fatto la notte prima. Così lo ignorai e proseguii verso l’uscita del corridoio. Quell’Occhio scocciante avrebbe dovuto seguirmi, visto che nell’area ero l’unica massa a irradiare una temperatura di trentasette gradi. Invece, prima di puntarsi di nuovo su di me, esitò per lo meno tre secondi; restò a controllare l’armadietto. Stavo cercando di stimare quale, fra le tre possibili tattiche, fosse la più sicura, quando la parte ribelle del mio cervello prese il sopravvento e le mie mani ne eseguirono una quarta. La penna che avevo in tasca diventò un raggio laser e «uccise» l’Occhio Pubblico; lo assassinò mentre io tenevo il raggio sulla massima potenza finché l’Occhio precipitò a terra, accecato e con l’antigravità fuori uso. E la memoria cancellata, speravo. Usai un’altra volta la carta di credito del tizio che mi aveva seguita. Lavorai sulla serratura dell’armadietto con la mia penna, per non disturbare l’impronta del suo pollice. Ci volle un bel calcione dello stivale per infilare l’Occhio in quello spazio sovraffollato. Poi mi spicciai: era tempo di diventare qualcun altro. Come quasi tutti i porti d’ingresso, il Piantadifagiolo Kenia offre ai viaggiatori amenità varie su un lato e sull’altro della barriera. Anziché sottopormi alle ispezioni, trovai le toilette e pagai in contanti per una stanza da bagno con spogliatoio. Ventisette minuti più tardi non solo mi ero lavata ma avevo anche acquistato capelli diversi, abiti diversi, un’altra faccia: quello che richiede tre ore per l’applicazione scompare in quindici minuti con sapone e acqua calda. Non ero ansiosa di mostrare il mio vero viso, ma dovevo liberarmi della persona che avevo usato in quella missione. Le parti che non erano scese nel lavandino finirono nel tritarifiuti: tuta, stivali, borsa, impronte digitali, lenti a contatto, passaporto. Il passaporto che avevo adesso riportava il mio vero nome (be’, uno dei miei nomi), una stereografia del mio viso nudo, ed era contrassegnato da una stampigliatura molto autentica di Elle-Cinque. Prima di distruggere gli effetti personali che avevo rubato al cadavere, li guardai, e mi bloccai. Le sue carte di credito e i documenti indicavano quattro identità. Dov’erano gli altri tre passaporti? Probabilmente nascosti da qualche parte su quella carne morta. Non lo avevo perquisito a dovere (non ne avevo avuto il tempo!), mi ero limitata ad arraffare quello che teneva nel borsello. Tornare a guardare? Se mi fossi messa ad andare avanti e indietro e ad aprire in continuazione un armadietto con un cadavere ancora caldo, prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. Prendendogli le carte di credito e il passaporto avevo sperato di rimandare l’identificazione del corpo, e quindi di avere più tempo per sparire, però… Un momento. Mmm, sì, passaporto e tessera del Diners Club erano tutti e due intestati ad «Adolf Belsen». L’American Express concedeva credito ad «Albert Beaumont», e la Banca di Hong Kong provvedeva alle necessità di «Arthur Bookman», mentre la MasterCard pensava ad «Archibald Buchanan». «Ricostruii» il delitto: Beaumont-Bookman-Buchanan aveva appena aperto col pollice la serratura dell’armadietto quando Belsen lo aveva colpito alle spalle, infilato dentro, usato la tessera del Diners Club per pagare; dopo di che, era scappato. Sì, una teoria eccellente… E adesso bisognava intorbidire un po’ di più le acque. Carte d’identità e carte di credito finirono automaticamente nel mio portafoglio; il passaporto di «Belsen» lo nascosi sulla mia persona. Non avrei potuto superare una perquisizione cutanea, però esistono modi per evitare queste perquisizioni; modi che comprendono (ma non si limitano a) bustarelle, ascendente personale, corruzione, indicazioni errate, e imbrogli belli e buoni. Quando uscii dalla toilette, i passeggeri della capsula successiva erano scesi e si stavano mettendo in fila davanti a Dogana, Sanità e Immigrazione. Mi unii alla coda. L’agente della Dsi commentò che la mia sacca era molto leggera e mi chiese come andava il mercato nero degli eccitanti. Gli risposi con la mia espressione più stupida, quella che c’è sulla foto del passaporto. All’incirca in quel momento lui trovò il giusto gruzzolo infilato nel mio passaporto e lasciò cadere l’argomento. Gli chiesi il miglior hotel e il miglior ristorante. Lui disse che non era tenuto a raccomandare nessuno, ma che aveva un’ottima opinione del Nairobi Hilton. In quanto al cibo, se potevo permettermelo, il Fat Man, di fronte all’Hilton, era il posto dove si mangiava meglio in tutta l’Africa. Sperava che mi sarei goduta la permanenza in Kenia. Lo ringraziai. Pochi minuti dopo avevo lasciato la montagna ed ero scesa in città, e c’era poco da stare allegri. Stazione Kenia è a più di cinque chilometri d’altitudine; l’aria è sempre rarefatta e fresca. Nairobi è a un’altitudine maggiore di Denver, quasi la stessa di Ciudad de México; però si tratta solo di una frazione dell’altitudine di Monte Kenia, e siamo a due passi dall’equatore. L’aria era densa e troppo calda da respirare; i miei abiti si inzupparono quasi immediatamente di sudore; i miei piedi cominciarono a gonfiarsi, e poi soffrivano già per la gravità piena. Non mi piacciono gli incarichi al di fuori della Terra, ma il rientro è sempre la parte peggiore. Chiamai in causa l’addestramento al controllo mentale per non avvertire i disagi. Buffonate. Se il mio istruttore di controllo mentale avesse trascorso un po’ meno tempo accoccolato nella posizione del loto e un po’ di più in Kenia, le sue istruzioni mi sarebbero state più utili. Lasciai perdere e mi concentrai sul problema: come uscire in fretta da quella sauna. L’atrio dell’Hilton era gradevolmente fresco. Ancora meglio, aveva un bureau viaggi completamente automatizzato. Entrai, trovai una cabina vuota, sedetti al terminale. L’inserviente si materializzò all’istante. — Posso esservi utile? Le dissi che pensavo di potermela cavare. La tastiera pareva familiare (era un comunissimo Kensington 400). Quella insistette: — Sarei lieta di fare io per voi. Non ho clienti che aspettano. — Doveva avere sui sedici anni: viso dolce, voce gradevole, modi che mi convinsero che rendersi utile le piaceva sul serio. L’ultima cosa che volessi era l’aiuto di qualcuno mentre maneggiavo carte di credito che non erano mie. Così le passai una mancia di dimensioni medie e le spiegai che preferivo fare da sola; ma promisi che avrei urlato, se mi fossi trovata in difficoltà. Lei protestò che non c’era bisogno di mance, ma non insistette per restituire i soldi, e se ne andò. «Adolf Belsen» prese la sotterranea per Il Cairo, poi il semibalistico per Hong Kong, dove aveva prenotato una stanza al Peninsula; il tutto grazie ai buoni uffici del Diners Club. «Albert Beaumont» era in vacanza. Prese il Safari Jet per Timbuctu, dove l’American Express l’aveva sistemato per due settimane al lussuoso Shangri-La, sulla riva del mare del Sahara. La Banca di Hong Kong pagò ad «Arthur Bookman» il viaggio fino a Buenos Aires. «Archibald Buchanan» visitò la sua città natale, Edimburgo, pagando con la MasterCard. Dato che poteva fare l’intero viaggio in sotterranea, con una coincidenza al Cairo e un cambio automatico a Copenhagen, avrebbe dovuto raggiungere la patria dei suoi avi in un paio d’ore. Poi usai il computer per fare diverse indagini; ma niente prenotazioni, niente acquisti, e solo memoria temporanea. Soddisfatta, lasciai la cabina e chiesi all’inserviente con le fossette se l’ingresso della metropolitana che vedevo nell’atrio mi avrebbe portata o meno al Fat Man. Lei mi spiegò quale percorso seguire. Così scesi al metrò e presi il treno per Mombasa, pagando di nuovo in contanti. Mombasa è a soli trenta minuti, quattrocentocinquanta chilometri, da Nairobi, però è a livello del mare, il che fa sembrare paradisiaco il clima di Nairobi; me ne andai il più in fretta possibile. Così ventisette ore più tardi ero nella provincia dell’Illinois dell’Impero di Chicago. Parecchio tempo dirà qualcuno, per un arco a cerchio massimo di soli 13 mila chilometri. Però io non seguii il cerchio massimo e non superai una sola barriera doganale o un punto di controllo dell’immigrazione. E non usai carte di credito, nemmeno quelle rubate. E riuscii persino a dormire per sette ore di fila nello Stato Libero dell’Alaska; praticamente non avevo chiuso occhio da quando avevo lasciato la città spaziale di Elle-Cinque, due giorni prima. Come feci? Segreto professionale. Forse a me quel particolare percorso non servirà più, ma in futuro potrebbe averne bisogno un mio collega. D’altra parte, come dice il mio boss, con tutti quanti i governi che non fanno altro che diventare più rigidi appena possono, coi loro computer e i loro Occhi Pubblici e altri novantanove tipi di sorveglianza elettronica, ogni persona libera ha il dovere di combattere alla minima occasione possibile: tenere in funzione le ferrovie segrete, tenere le tendine chiuse, dare informazioni sbagliate ai computer. I computer hanno una mentalità letterale e stupida; le documentazioni elettroniche sono documentazioni solo per modo di dire… Per cui è bene essere pronti a sfruttare le occasioni per fregare il sistema. Se non puoi sfuggire alle tasse, paga un po’ troppo per confondere i loro computer. Imbroglia le cifre. E così via… La chiave per viaggiare per metà del pianeta senza lasciare tracce è: pagare in contanti. Mai carte di credito, mai qualcosa che entri in un computer. E una bustarella non è mai una bustarella; in questi trasferimenti di denaro, il beneficiario deve sempre salvare la faccia. Ovunque, per quanto strapagati, i dipendenti pubblici sono convinti di essere orribilmente sottopagati; ma nel petto di ogni dipendente pubblico batte il cuore di un ladro, altrimenti non mangerebbero al piatto pubblico. Queste due realtà sono tutto ciò che vi occorre, però state attenti! Siccome il dipendente pubblico non ha rispetto di sé, vuole ed esige dimostrazioni di pubblico rispetto. Io soddisfo sempre questa loro esigenza, e il viaggio si era svolto senza incidenti. (Non contai il fatto che il Nairobi Hilton, colpito da un’esplosione, era finito arrosto pochi minuti dopo che io ero salita sul metrò per Mombasa; credere che l’incidente avesse a che fare con me mi sarebbe parso estremamente paranoico). Mi sbarazzai di quattro carte di credito e di un passaporto non appena sentii la notizia, ma avevo già deciso di prendere quella precauzione. Se il nemico voleva eliminarmi (possibile ma improbabile), distruggere una proprietà che valeva milioni di corone e uccidere o ferire centinaia o migliaia di persone solo per arrivare a me sarebbe stato come dare la caccia a una mosca con un’accetta. Indegno di veri professionisti. Be’, dipende. Comunque ero di nuovo nell’Impero, e avevo portato a termine un’altra missione con pochi errori secondari. Mentre prendevo l’uscita per i Prati Lincoln, meditai che mi ero guadagnata abbastanza buoni-punto per costringere il boss a concedermi qualche settimana di Riposo&Relax in Nuova Zelanda. La mia famiglia, un gruppo-S di sette persone, viveva a Christchurch; non li vedevo da sei mesi. Che bello! Nel frattempo potevo godermi l’aria fresca, pulita, e la bellezza rustica dell’Illinois; non era un’Isola del Sud, ma era il miglior surrogato disponibile. Si dice che un tempo questi prati fossero coperti da squallide fabbriche, ed è difficile crederlo. Dalla stazione, l’unico edificio visibile era il gruppo di stalle dell’Avis, dall’altra parte della strada. Davanti allo steccato di fronte alla stazione c’erano due calessi da noleggio dell’Avis, oltre ai soliti carri e carretti delle fattorie. Stavo per prendere uno dei calessi dell’Avis quando riconobbi la vettura che arrivava in quel momento: una magnifica pariglia di bai aggiogata a un landò Lockheed. — Zio Jim! Qua! Sono io! Il cocchiere si portò la frusta alla tesa del cappello, poi fermò la pariglia. Il landò era davanti agli scalini dove io aspettavo. Zio Jim saltò a terra e si tolse il cappello. — È bello riavervi a casa, signorina Friday. Gli regalai un abbraccio veloce che lui sopportò pazientemente. Zio Jim Prufit aveva idee ferree sul decoro e sulle buone maniere. Si raccontava che fosse stato accusato di simpatie papiste; qualcuno addirittura diceva che lo avevano colto in flagrante a celebrare la messa. Altri dicevano che erano solo balle, che si era infiltrato per l’agenzia e si era addossato la colpa per proteggere altri. In quanto a me, non ne so molto di politica, però immagino che un prete abbia modi piuttosto formali, si tratti di un vero sacerdote o di uno del nostro mestiere. Potrei sbagliarmi; non credo di avere mai visto un prete. Mentre lui mi aiutava a salire, facendomi sentire una vera signora, gli chiesi: — Come mai eri da queste parti? — Mi ha mandato a prendervi il Padrone, signorina. — Davvero? Ma non l’ho informato dell’ora del mio arrivo. — Cercai di scoprire chi, nel mio percorso di ritorno, poteva fare parte della rete dati di Boss. — A volte penso che il boss abbia una sfera di cristallo. — Sembra proprio, vero? — Jim fece partire Gog e Magog, e ci avviammo alla fattoria. Mi appoggiai all’indietro e mi rilassai, ascoltando il cloppete cloppete allegro, familiare degli zoccoli dei cavalli sul terreno. Riaprii gli occhi quando Jim svoltò al nostro cancello, ed ero perfettamente sveglia quando passammo sotto la porte cochère. Saltai giù senza aspettare di ridiventare una «signora» e mi girai per ringraziare Jim. Mi balzarono addosso dai due lati. Il caro vecchio zio Jim non mi mise in guardia. Restò lì a guardare mentre mi mettevano fuori combattimento. 2 Mia stupidissima colpa! All’addestramento di base mi avevano insegnato che nessun posto è mai totalmente sicuro, e che i posti dove si torna abitualmente sono i più pericolosi, i più adatti a trappole, agguati, imboscate. Ma, a quanto sembrava, avevo imparato la lezione solo a pappagallo; da vecchia professionista, l’avevo ignorata. E ci ero cascata. Questa regola è analoga al fatto che la persona che ha più probabilità di ucciderti è un membro della tua famiglia; e anche questa amara statistica viene ignorata; deve essere ignorata. Vivere nel timore della propria famiglia? Meglio morire! La mia maggiore stupidità fu ignorare un avvertimento clamoroso, chiaro, specifico, non semplicemente un principio generale. Come aveva fatto il caro vecchio «zio» Jim a presentarsi all’appuntamento con la mia capsula, nel giorno giusto e quasi al minuto spaccato? Con una sfera di cristallo! Il boss è più in gamba di tutti noialtri, ma non usa la magia. Forse mi sbaglio, ma sono sicurissima. Se Boss possedesse poteri sovrannaturali, non avrebbe bisogno di noialtri. Non avevo segnalato i miei movimenti a Boss; non gli avevo nemmeno comunicato che avevo lasciato Elle-Cinque. È dottrina: lui non ci incoraggia a informarlo ogni volta che ci muoviamo, perché sa che una fuga di notizie può essere fatale. Nemmeno io sapevo che avrei preso quella particolare capsula finché non la presi. Avevo ordinato là colazione alla caffetteria del Seward’s Hotel, mi ero alzata senza mangiarla, lasciando un po’ di soldi sul banco; tre minuti dopo ero sigillata in una capsula espresso. Quindi, come? Ovviamente, sbarazzarmi del tizio che mi seguiva a Stazione Piantadifagiolo Kenia non aveva eliminato tutti gli altri pedinatori. O c’erano già rinforzi sul posto, oppure si erano accorti subito della scomparsa del signor «Belsen» («Beaumont», «Bookman», «Buchanan») e lo avevano sostituito. Forse mi erano sempre stati alle calcagna, o forse quello che era successo a «Belsen» li aveva resi molto più attenti a non pestarmi i piedi. Oppure il mio sonnellino della notte prima aveva dato loro il tempo di raggiungermi. Quale fosse la realtà era del tutto irrilevante. Poco dopo che io ero salita sulla capsula in Alaska, qualcuno aveva telefonato un messaggio del genere: «Lucciola a Libellula. Moscerino è partito da qui con capsula espresso Corridoio Internazionale nove minuti fa. Il controllo traffico di Anchorage dice che la capsula è programmata per attraccare e aprirsi ai Prati Lincoln, vostra ora locale undici zero tre». O altre balle simili. Un nemico mi aveva vista prendere la capsula e aveva preavvertito con una telefonata; se no, il vecchio dolce Jim non avrebbe potuto venirmi a ricevere in tempo. Logico. L’intuizione retrospettiva è fantastica. Ti fa capire in che modo ti sei fracassato il cranio… dopo che te lo sei fracassato. Comunque, feci loro pagare la festicciola. Se fossi stata furba, mi sarei arresa subito dopo essermi accorta che erano irrimediabilmente troppi per me. Ma non sono furba; l’ho già dimostrato. Ancora meglio, sarei scappata a gambe levate quando Jim mi aveva detto di essere stato mandato dal boss, invece di salire in carrozza e farmi un sonnellino, Cristo santissimo. Ricordo di averne ucciso uno solo. Forse due. Ma perché insistevano a voler usare le maniere dure? Potevano aspettare che entrassi e poi gassarmi, o utilizzare un dardo soporifero, oppure una bella corda. Dovevano prendermi viva, quello era chiaro. Non lo sapevano che un agente col mio addestramento, se viene attaccato, entra automaticamente in overdrive? Forse io non sono l’unica stupida. Ma perché perdere tempo a violentarmi? L’intera operazione aveva sfumature dilettantesche. Al giorno d’oggi nessun gruppo professionale usa lo stupro o le botte prima dell’interrogatorio; non ci si guadagna niente; ogni professionista è addestrato a sopportare l’una o l’altra cosa; o tutte e due. Per lo stupro, lei (o lui; mi dicono che per i maschi sia peggio) può distaccare la mente e aspettare che finisca, oppure (addestramento avanzato) può emulare l’antico adagio cinese. Oppure, in sostituzione del metodo A o B, o magari in combinazione col B se le capacità istrioniche dell’agente sono all’altezza, la vittima può usare lo stupro come un’occasione per guadagnare un po’ di vantaggio su chi l’ha catturata. Non è che io sia una grande attrice, però ci provo; e se anche la cosa non mi ha mai permesso di ribaltare la situazione con gente male intenzionata, mi ha salvato la pelle almeno una volta. Questa volta il metodo C non modificò la situazione, però provocò un pizzico di sani dissensi. Quattro signori (così stimai in base al tatto e agli odori del corpo) mi presero in una delle camere da letto del primo piano. Forse era la mia stanza, ma non potevo esserne certa: ero rimasta svenuta per un bel po’ e adesso ero vestita (unicamente) di nastro adesivo sugli occhi. Mi presero su un materasso disteso sul pavimento; un giochino di gruppo con modeste variazioni di sadismo… che io ignorai, occupata com’ero col metodo C. Mentalmente li chiamai «Capoccia» (sembrava il boss), «Rocks» (quello era il nome che gli davano gli altri; probabilmente aveva i sassi in testa), «Corto» (nei due sensi) e «l’altro», visto che costui non possedeva caratteristiche particolari. Me li lavorai tutti quanti, recitando, è ovvio: prima riluttante, costretta, forzata; poi poco per volta, la passione ti travolge e non puoi farci niente. È una routine che fa effetto su qualunque uomo; se la bevono tutti; ma lavorai con impegno particolare su Capoccia, perché speravo di poter raggiungere il rango di cucciolo preferito del boss, o qualcosa del genere. Capoccia non era troppo male; i metodi B e C si combinarono in modo armonioso. Però lavorai ancora più sodo su Rocks, perché con lui bisognava combinare il C con l’A: il suo fiato faceva schifo. E anche per altri versi non era un modello di pulizia; mi occorse un grosso sforzo per ignorare la cosa e imbastire risposte che gratificassero il suo ego di macho. Tornato allo stato flaccido, Rocks disse: — Mac, stiamo perdendo tempo. Questa vacca si diverte. — Allora togliti e dai un’altra possibilità al ragazzo. È pronto. — Non ancora. Le allungo due sberle così ci prende sul serio. — Mi mollò un rovescio potente sul lato sinistro della faccia. Io uggiolai. — Piantala! — La voce di Capoccia. — E chi lo dice? Mac, stai diventando troppo tenero di cuore. — Lo dico io. — Era una voce nuova, molto forte, amplificata. Senza dubbio usciva dall’impianto audio del soffitto. — Rocky, Mac è il caposquadra, lo sai. Mac, mandami Rocky. Voglio scambiare una parola con lui. — Maggiore, cercavo solo di dare una mano! — L’hai sentito, Rocks — disse calmo Capoccia. — Tira su i pantaloni e muoviti. Di colpo, il peso dell’uomo non era più su di me, e il suo fiato puzzolente non era più sulla mia faccia. La felicità è relativa. La voce dal soffitto parlò di nuovo: — Mac, è vero che la signorina Friday si gode la piccola cerimonia che abbiamo organizzato per lei? — È possibile, Maggiore — rispose lentamente Capoccia. — Almeno sembra. — Tu cose ne dici, Friday? È il tuo modo di andare su di giri? Non risposi alla domanda. Cominciai invece a discutere di lui e della sua famiglia nei dettagli, con un’attenzione particolare per sua madre e per sua sorella. Se gli avessi detto la verità (che Capoccia sarebbe stato piuttosto gradevole in circostanze diverse, che Corto e l’altro uomo non avevano nessunissima importanza, ma che Rocks era uno schifoso porcaccione che avrei terminato alla prima occasione) avrei mandato all’aria il metodo C. — Altrettanto a te, dolcezza — ribatté allegramente la voce. — Odio deluderti, ma sono nato in provetta. Non ho neanche una moglie, tanto meno una madre o una sorella. Mac, mettile le manette e gettale addosso una coperta. Ma niente iniezioni. Più tardi le parlerò. Dilettante. Il mio boss non avrebbe mai avvertito un prigioniero di aspettarsi un interrogatorio. — Ehi, figlio di una provetta! — Sì, tesoro? Lo accusai di un vizio che non richiede madre o sorella ma che è anatomicamente possibile, a quanto mi dicono, per certi maschi. La voce rispose: — Tutte le sere, dolcezza. È molto rilassante. Primo punto per il Maggiore. Decisi che, col dovuto addestramento, avrebbe potuto essere un professionista. Però era un maledetto dilettante, e non lo rispettavo. Aveva perso uno, forse due dei suoi scagnozzi; mi aveva costretta a subire, senza che fosse necessario, percosse, contusioni, e molteplici affronti personali (alcuni dei quali da togliere il respiro, non fossi stata una donna allenata); e aveva sprecato due ore o più. Ci fosse stato il mio boss, il/la prigioniero/a avrebbe sputato l’anima immediatamente e passato quelle due ore a confidare il cento per cento dei suoi ricordi a un registratore. Capoccia si prese addirittura la briga di accudirmi. Mi portò in bagno e aspettò tranquillamente mentre io facevo pipì, senza che la cosa degenerasse in scene antipatiche; e anche quello era da dilettanti, visto che una delle tecniche più utili di tipo cumulativo nell’interrogare un dilettante (non un professionista) è costringerlo/costringerla ad alterare le sue abitudini alla toilette. Se lei è sempre stata salvaguardata dagli aspetti più duri dell’esistenza o se lui soffre di eccessivo amor proprio, come accade a molti maschi, la tecnica è efficace almeno quanto il dolore, e diventa ancora più potente se associata al dolore o ad altre umiliazioni. Secondo me Mac non lo sapeva. Mi sembrava fondamentalmente un tipo decente, nonostante la sua propensione per… no, a parte la sua propensione per un pizzico di stupro; propensione comune alla maggioranza dei maschi, stando ai Kinsey. Qualcuno aveva rimesso il materasso sul letto. Mac mi ci guidò, mi disse di sdraiarmi sulla schiena a braccia distese. Poi mi incatenò alle gambe del letto, usando due paia di manette. Non erano del tipo in dotazione agli agenti di pace; erano speciali, foderate di velluto; il genere di porcherie usate dagli idioti per i giochini sado-maso. Chissà chi era il pervertito. Il Maggiore? Mac si accertò che fossero ben chiuse ma non troppo strette, poi stese su di me, dolcemente, una coperta. Un bacio della buonanotte non mi avrebbe sorpresa; ma non ci fu. Mac se ne andò tranquillo. Se mi avesse baciata, il metodo C avrebbe richiesto di restituirgli il bacio con ardore? O di girare la testa e cercare di sottrarmi? Bell’interrogativo. Il metodo C si basa sul non-posso-proprio-farci-niente e richiede un preciso giudizio sul quando dimostrare entusiasmo, e quanto dimostrarne. Se lo stupratore sospetta che la vittima imbrogli, la partita è persa. Avevo appena deciso, con un certo rimpianto, che avrei dovuto rifiutare quel bacio ipotetico, quando mi addormentai. Non mi lasciarono dormire a sufficienza. Esausta per tutto quello che mi era successo, ero piombata in un sonno profondo, me n’ero imbevuta, quando venni risvegliata da un ceffone. Non Mac. Rocks, ovviamente. Uno schiaffo non forte come quello di prima, ma del tutto superfluo. Ebbi l’impressione che ce l’aveva con me per la lezioncina che forse aveva ricevuto dal Maggiore… e promisi a me stessa che appena fosse giunto il momento di terminarlo, lo avrei fatto lentamente. Sentii Corto dire: — Mac ha detto di non picchiarla. — Non l’ho picchiata. Era solo un buffetto amoroso per svegliarla. Chiudi il becco e fatti gli affari tuoi. Stammi alla larga e tienile puntata addosso la pistola. Su di lei, idiota! Non su di me. Mi portarono nel seminterrato, in una delle nostre stanze per gli interrogatori. Corto e Rocks se ne andarono (penso che Corto se ne sia andato e so che Rocks uscì: sparì il suo puzzo) e un’équipe da interrogatorio prese il comando. Non so chi o quanti fossero, perché nessuno di loro disse mai una parola. L’unica voce era quella che per il mio cervello era «il Maggiore». Pareva uscire da un altoparlante. — Buongiorno, signorina Friday. (Mattino? Mi sembrava improbabile) — Come va, figlio di provetta? — Sono lieto di vederti in gran forma, tesoro, perché questa seduta potrebbe dimostrarsi lunga e faticosa. Persino sgradevole. Voglio sapere tutto di te, amore. — Spara. Cosa ti interessa per prima? — Raccontami del viaggio che hai appena fatto, in ogni minimo dettaglio. E descrivimi l’organizzazione di cui fai parte. Tanto vale dirti che ne sappiamo già parecchio, per cui se mi mentirai me ne accorgerò. Nemmeno una bugia piccola così, tesoro, perché io me ne accorgerò e rimpiangerò per sempre quello che succederà dopo, ma tu lo rimpiangerai anche di più. — Oh, non ti mentirò. State registrando? Ci vorrà parecchio tempo. — Stiamo registrando. — Okay. — Vuotai il sacco per tre ore. Così prevedeva la dottrina. Il mio capo sa che novantanove agenti su cento crolleranno sotto un dolore sufficiente, e che quasi la stessa percentuale crollerà sotto un lungo interrogatorio combinato alla stanchezza pura e semplice; ma solo Budda in persona può resistere a certe droghe. Dato che il boss non si aspetta miracoli e odia perdere agenti, la dottrina standard è Se ti beccano, canta! Per cui Boss fa in modo che nessun agente operativo sappia mai cose d’importanza cruciale. Un corriere non sa mai cosa trasporta. Io non so nulla di indirizzi politici. Non so il nome del mio boss. Non so di preciso se siamo un’agenzia del governo o un braccio di una multinazionale. So dove si trova la fattoria, ma lo sa parecchia altra gente… ed è (era) molto ben difesa. Ho visitato altri posti solo su veicoli a motore autorizzati, assolutamente chiusi; un Vma mi ha portata (per esempio) in un’area di addestramento che potrebbe trovarsi a un’estremità della fattoria. Oppure no. — Maggiore, come sei riuscito a impadronirti di questo posto? Era difeso in modo piuttosto robusto. — Le domande le faccio io, occhioni. Ripeti un po’ la storia di quel tale che ti ha seguito alla stazione. Dopo parecchio tempo della stessa sinfonia, quando gli avevo detto tutto quello che sapevo e cominciavo a ripetermi, il Maggiore mi interruppe. — Tesoro, racconti una storia molto convincente, e io non credo a più di una parola su tre. Partiamo con la procedura B. Qualcuno mi prese il braccio sinistro e ci conficcò un ago. Santi succhi benedetti! Speravo solo che quei fottuti dilettanti non fossero maldestri in quello come lo erano in altre cose; si fa presto a finire morti stecchini, con un’overdose. — Maggiore! È meglio che mi sieda! — Mettetela su una sedia. — Qualcuno lo fece. Per i mille anni seguenti feci del mio meglio per ripetere sempre la stessa identica storia, per quanto annebbiato fosse il mio cervello. A un certo punto cascai giù dalla sedia. Non mi rimisero a sedere; mi coricarono sul cemento freddo. Io continuai a blaterare. Più tardi mi fecero un’altra iniezione. Mi venne il mal di denti e mi si surriscaldarono gli occhi, però adesso ero sveglia. — Signorina Friday! — Sì, signore? — Sei sveglia? — Credo di sì. — Mia cara, penso che tu sia stata indottrinata ipnoticamente a raccontare sotto droga la stessa storia che racconti tanto bene senza droghe. Un vero peccato, perché ora dovrò usare un altro metodo. Riesci a stare in piedi? — Credo di sì. Posso provarci. — Tiratela su. Non fatela cadere. — Qualcuno (due persone) obbedirono. Barcollavo, ma quelli mi reggevano. — Iniziate la procedura C, comma cinque. Qualcuno pestò con lo stivale le dita nude dei miei piedi. Urlai. Ehi, sentite! Se mai dovessero interrogarvi sotto tortura, urlate. La scena dell’Uomo-di-Ferro non fa che peggiorare le cose e le persone. Fidatevi di una che ci è passata in mezzo. Urlate a più non posso e crollate a velocità massima. Non entrerò nei particolari di ciò che accadde nell’interminabile periodo seguente. Se avete immaginazione, vi darebbe la nausea, e parlarne mi fa venire voglia di vomitare. Infatti vomitai, diverse volte. Persi anche conoscenza, ma quelli continuarono a farmi rinvenire, e la voce continuò a interrogarmi. A quanto sembra, a un certo punto io smisi di rinvenire, perché dopo un po’ ero di nuovo a letto (lo stesso letto, immagino) ed ero ancora ammanettata. Il mio corpo era un dolore unico. Di nuovo quella voce, dritta sopra la mia testa. — Signorina Friday? — Che diavolo vuoi? — Niente. Se questo può consolarti, cara ragazza, tu sei l’unico soggetto che io abbia mai interrogato senza riuscire ad arrivare alla verità. — Vai a rilassarti! — Buonanotte, tesoro. Maledetto dilettante! Ogni singola parola che gli avevo detto era la verità. 3 Qualcuno entrò e mi fece un’altra iniezione. Il dolore svanì, e mi addormentai. Devo aver dormito a lungo. Ebbi sogni confusi, oppure periodi di semi-veglia, o tutte e due le cose. Almeno in parte dovette trattarsi di sogni: i cani, molti cani, parlano, però non tengono concioni sui diritti delle creature sintetiche viventi, giusto? I rumori di un tafferuglio e di gente che correva su e giù potrebbero essere stati veri. Ma a me parve tutto un incubo perché cercai di scendere dal letto e scoprii che non potevo nemmeno sollevare la testa, tanto meno alzarmi e partecipare alla festa. A un certo punto decisi che ero davvero sveglia, perché le manette non mi imprigionavano più i polsi e non avevo nastro adesivo sugli occhi. Però non saltai su, e neanche aprii gli occhi. Sapevo che i primi secondi subito dopo aver aperto gli occhi sarebbero stati l’occasione migliore, forse l’unica, di fuggire. Contrassi i muscoli senza muovermi. Sembrava tutto sotto controllo, anche se ero molto più che indolenzita qua e là, e in diversi altri punti. I vestiti? Meglio lasciar perdere: non solo non avevo idea di dove potevano essere i miei abiti, ma per di più non c’è tempo da perdere a rivestirsi quando si scappa per salvare la pelle. Un piano d’azione… Nella stanza sembrava non ci fosse nessuno; c’era qualcuno al primo piano? Stai calma e ascolta. Se e quando fossi stata ragionevolmente certa di essere sola a quel piano, sarei scesa senza far rumore dal letto e avrei salito le scale come un topolino, su fino al secondo piano, e poi in soffitta, a nascondermi. Ad aspettare il buio. Poi fuori dalla soffitta, sul tetto giù per il muro del retro, e nel bosco. Una volta fra gli alberi dietro casa, non mi avrebbero più presa… ma prima di arrivarci, sarei stata un bersaglio facile. Le probabilità? Una su nove. Forse una su sette, se mi caricavo a dovere. Il punto più debole di un piano da due soldi era l’elevata probabilità di venire individuata prima di essere al largo dalla casa; perché se mi avessero individuata (no, quando mi avessero individuata) non solo avrei dovuto uccidere, ma sarei stata costretta a farlo nel più silenzioso dei modi… perché l’alternativa era aspettare che mi terminassero; il che sarebbe accaduto non appena «il Maggiore» fosse giunto alla conclusione che non poteva spremermi più nulla. Per quanto quei gorilla fossero maldestri, non erano tanto stupidi (o almeno il Maggiore non era tanto stupido) da risparmiare la vita a un prigioniero torturato e stuprato. Tesi le orecchie in ogni direzione e ascoltai. «Non si muoveva nulla, nemmeno un topolino.» Inutile aspettare; ogni momento di ritardo serviva solo ad avvicinare l’attimo in cui qualcuno si sarebbe mosso. Aprii gli occhi. — Sveglia, vedo. Bene. — Boss! Dove sono? — Che cliché orribilmente datato. Friday, tu puoi fare di meglio. Fai marcia indietro e riprovaci. Mi guardai attorno. Una camera da letto, forse una stanza d’ospedale. Niente finestre. Illuminazione senza riverbero. Il tipico silenzio tombale, sottolineato più che spezzato dagli esilissimi sospiri dell’impianto di aerazione. Guardai di nuovo Boss. Uno spettacolo adorabile. La solita vecchia, rozza benda sull’occhio; perché non voleva trovare il tempo per farsi rigenerare l’occhio? I suoi bastoni erano appoggiati a un tavolo, a portata di mano. Indossava il solito completo trasandato di seta grezza, una specie di pigiama tagliato da un sarto inetto. Ero mostruosamente felice di vederlo. — Voglio ancora sapere dove sono. E come ci sono arrivata. E perché. Un posto sottoterra, senza dubbio, ma dove? — Sottoterra, infatti, e di parecchi metri. «Dove» lo saprai quando avrai bisogno di saperlo, o per lo meno ti diremo come andare e venire. È stato questo che ha distrutto la nostra fattoria. Un posto gradevole, ma erano in troppi a conoscerne la posizione. «Perché» è ovvio. «Come» può aspettare. Rapporto. — Boss, sei l’uomo più esasperante che io conosca. — Grazie alla mia lunga pratica. Rapporto. — E tuo padre ha conosciuto tua madre in un locale malfamato. E non si è tolto il cappello. — Si sono conosciuti a un picnic domenicale della chiesa battista e credevano tutti e due nella Buona Fatina dei Denti Caduti. Rapporto. — Hai le orecchie luride e sei un porco. Il viaggio fino a Elle-Cinque si è svolto senza incidenti. Ho trovato il signor Mortenson e gli ho consegnato il contenuto del mio poliedrico ombelico. La normale routine è stata interrotta da un incidente molto insolito. La città spaziale era stata investita da un’epidemia di affezioni respiratorie di origine ignota, e io ho contratto la malattia. Il signor Mortenson è stato gentilissimo. Mi ha ospitata a casa sua e le sue mogli mi hanno curata con grande abilità e tenero affetto. Boss, voglio che siano ricompensate. — Ho preso nota. Continua. — Sono rimasta fuori di testa per quasi tutto il tempo. È per questo che sono finita in ritardo di una settimana. Ma appena sono tornata in condizioni di viaggiare, ho potuto ripartire immediatamente. Il signor Mortenson mi ha detto che avevo già addosso la merce per te. Come hanno fatto, Boss? Un’altra volta la tasca del mio ombelico? — Sì e no. — Bella risposta. — La tua sacca artificiale è stata usata. — Come pensavo. Non dovrebbero esserci terminazioni nervose, ma quando è piena sento qualcosa. Una sensazione di pressione, forse. Premetti le mani sul ventre attorno all’ombelico e contrassi i muscoli. — Ehi, è vuota! L’avete svuotata voi? — No. Sono stati i nostri antagonisti. — Allora ho fallito! Dio, Boss, è mostruoso. — No — disse dolcemente lui — sei riuscita nella missione. Di fronte a grandi pericoli e ostacoli monumentali, hai ottenuto un successo perfetto. — Davvero? — (Vi hanno mai appuntato al petto la Croce della regina Vittoria?) — Boss, piantala coi discorsi ambigui e tracciami un diagramma. — Sarà fatto. Ma forse è meglio che un diagramma lo tracci prima io. Dietro l’ombelico ho una sacca artificiale, creata dalla chirurgia plastica. Non è grande, ma si possono infilare quantità gigantesche di microfilm in uno spazio di un centimetro cubo circa. La sacca non si vede perché lo sfintere che la comanda tiene chiusa la cicatrice. Il mio ombelico sembra perfettamente normale. Giudici imparziali mi dicono che ho una pancia graziosa e un ombelico avvenente… il che, per certi importanti versi, è meglio che avere un bel visino, cosa che non ho. Lo sfintere è sintetico, di elastomero al silicone, e tiene chiuso l’ombelico in continuazione, anche quando io sono svenuta. La cosa è necessaria perché in quella zona non esistono nervi che permettano il controllo volontario di contrazione e rilassamento, come invece è possibile con lo sfintere dell’ano, della vagina, e, per certe persone, della gola. Per riempire la sacca usate un pizzico di gel K-Y o di altri lubrificanti privi di petrolio e introducete col pollice… Niente unghie appuntite, per favore! Per svuotarla, con le dita di entrambe le mani io stessa apro il più possibile lo sfintere artificiale, poi spingo al massimo coi muscoli addominali; e il contenuto dell’ombelico salta fuori. L’arte di nascondere cose nel corpo umano ha una lunga storia. I contenitori più classici sono la bocca, le narici, lo stomaco, l’intestino, il retto, la vagina, la vescica, l’orbita oculare degli orbi, i canali auricolari: altri metodi più esotici e non molto utili si servono di tatuaggi, a volte coperti di pelo. Ogni sistema classico è noto a tutti i funzionari doganali e agli agenti speciali, pubblici o privati del mondo intero, della Luna, delle città spaziali, degli altri pianeti, e di dovunque sia giunto l’uomo. Per cui lasciateli perdere. L’unico metodo classico che possa ancora fregare un professionista è la Lettera Rubata. Ma la Lettera Rubata è altissima arte, e, anche quando venga usata alla perfezione, deve servirsi di un innocente che non possa svelare la verità sotto droga. Date un’occhiata ai prossimi mille ombelichi che incontrerete in società. Adesso che la mia sacca è stata compromessa, è possibile che uno o due di quegli ombelichi nascondano orifizi artificiali come il mio. È lecito aspettarsi un vero boom, per cui tra un po’ nessun chirurgo creerà più sacche ombelicali, dato che ogni tecnica di contrabbando diventa inutile una volta scoperta. Nel frattempo, gli agenti doganali vi infileranno rudi dita nell’ombelico. Spero che un sacco di quegli agenti si prendano un pugno nell’occhio da vittime imbestialite: gli ombelichi tendono a essere sensibili e soggetti al solletico. — Friday, il punto debole della tua sacca è sempre stato che un interrogatorio ben fatto… — Erano degli inetti. — …O un interrogatorio duro con uso di droghe poteva costringerti a svelarne l’esistenza. — Deve essere successo dopo l’iniezione che mi ha sciolto la lingua. Non ricordo di averne parlato. — È probabile. Oppure potrebbero averlo saputo tramite altri canali, visto che diverse persone ne sono al corrente. Tu, io, tre infermiere, due chirurghi, un anestesista, forse altra gente. Troppi. In ogni caso, a prescindere da quanto sapevano, i nostri antagonisti hanno rimosso quello che trasportavi nell’ombelico. Ma non incupirti. Hanno avuto solo un lunghissimo elenco, ridotto a microfilm, di tutti i ristoranti riportati nell’elenco telefonico del 1928 di quella che era la città di New York. Senza dubbio in questo momento, da qualche parte, c’è un computer che ci lavora sopra per decifrare il codice segreto… Il che richiederà parecchio tempo, dato che non c’è alcun codice segreto. È solo una lista priva di senso. — E per questo ho dovuto farmi tutta la strada fino a Elle-Cinque, mangiare cibo schifoso, stare male sulla Piantadifagiolo, e finire nelle mani di bastardi brutali? — Mi spiace per l’ultimo particolare, Friday. Ma credi che avrei rischiato la vita del mio agente più in gamba in una missione inutile? (Capito perché lavoro per quel bastardo arrogante? Con l’adulazione si ottiene tutto.) — Chiedo scusa, signore. — Controlla la cicatrice dell’appendicectomia. — Eh? — Infilai una mano sotto il lenzuolo e tastai, poi gettai indietro il lenzuolo e guardai. — Che diavolo ha? — L’incisione era lunga meno di due centimetri e ha seguito esattamente la cicatrice. Non è stato toccato nessun tessuto muscolare. La merce è stata recuperata circa ventiquattro ore fa, riaprendo l’incisione. Con i metodi di ricicatrizzazione accelerata usati su di te, mi dicono che tra un paio di giorni non troverai più la nuova cicatrice nella vecchia. Però sono molto lieto che i Mortenson si siano presi cura di te. Sono certo che i sintomi artificiali provocati per coprire quello che bisognava farti non sono stati piacevoli. Fra parentesi, da quelle parti c’era davvero un’epidemia di infezioni catarrali… Una coincidenza fortuita. Boss fece una pausa. Io mi rifiutai testardamente di chiedergli che cosa avessi trasportato; tanto non me lo avrebbe detto. Dopo un po’ aggiunse: — Mi stavi parlando del viaggio di ritorno. — Il tragitto si è svolto senza incidenti. Boss, la prossima volta che mi spedisci nello spazio voglio viaggiare in prima classe, su una nave antiG. Basta con quello stupido trucchetto delle corde da fachiro. — L’analisi strutturale indica che il Ganciaereo è più sicuro di qualunque nave. Il cavo di Quito è andato perso per un sabotaggio, non per un incidente. — Taccagno. — Non ho intenzioni di farti sentire al giogo. D’ora in poi potrai usare l’antiG, se le circostanze e i tempi lo permetteranno. Questa volta avevamo i nostri motivi per servirci della Piantadifagiolo Kenia. — Sarà, però qualcuno mi ha seguita quando sono scesa dalla capsula. Appena siamo rimasti soli, l’ho ucciso. Feci una pausa. Un giorno o l’altro, un giorno o l’altro riuscirò a far apparire la sorpresa sulla sua faccia. Riaffrontai l’argomento di sbieco. — Boss, ho bisogno di un corso d’aggiornamento, con un riorientamento molto minuzioso. — Davvero? A che scopo? — Il mio riflesso a uccidere è troppo veloce. Non discrimino. Quello non aveva fatto niente per essere ucciso. Sicuro, mi seguiva. Però avrei dovuto sfuggirgli a Nairobi, oppure al massimo, metterlo fuori combattimento e chiuderlo sotto chiave, poi scappare. — Discuteremo in seguito le tue possibili esigenze. Continua. Gli dissi dell’Occhio Pubblico e della quadrupla identità di «Belsen» e di come l’avevo dispersa ai quattro venti, poi attaccai col viaggio verso casa. Lui mi interruppe. — Non hai parlato della distruzione di quell’hotel a Nairobi. — Eh? Boss, io non c’entravo niente. Ero già a metà strada per Mombasa. — Mia cara Friday, sei troppo modesta. Un vasto numero di persone e gigantesche quantità di denaro hanno cercato di impedirti di completare la missione. C’è stato persino un tentativo dell’ultimo minuto alla nostra ex fattoria. Devi presumere, se non altro come ipotesi, che l’esplosione dell’Hilton avesse come unico obiettivo la tua morte. — Hmm. Boss, mi pare che tu sapessi già che sarebbe stata parecchio dura. Non potevi avvertirmi? — Saresti stata più all’erta, più decisa, se ti avessi riempito il cervello con vaghi avvertimenti su pericoli ignoti? Donna, tu non commetti errori. — Col cavolo! Zio Jim si è presentato giusto giusto all’arrivo della mia capsula, e non avrebbe dovuto saperne niente. Tutti i miei campanelli d’allarme avrebbero dovuto mettersi a squillare. Appena l’ho visto avrei dovuto infilarmi nel buco più vicino e prendere la prima capsula, per qualunque destinazione. — Il che ci avrebbe reso estremamente difficile un rendez-vous, e la tua missione sarebbe fallita esattamente come se tu avessi perso quello che trasportavi. Figliola, se le cose fossero andate lisce, Jim ti avrebbe accolta dietro mio ordine. Tu sottovaluti la mia rete di spionaggio, nonché gli sforzi che facciamo per cercare di tenerti d’occhio. Ma non ho mandato Jim a prenderti perché al momento stavo correndo. Zoppicando, per l’esattezza. In tutta fretta. Cercavo di scappare. Immagino che Jim abbia saputo dell’ora prevista per il tuo arrivo dal nostro uomo, e da quello dei nostri antagonisti, o forse da tutti e due. — Boss, se lo avessi saputo avrei dato Jim in pasto ai suoi cavalli. Gli volevo bene. Quando arriverà il momento, voglio terminarlo io stessa. È mio. — Friday, nel nostro mestiere non è augurabile abbandonarsi ai risentimenti. — Io non ne nutro molti, ma zio Jim è un caso speciale. E c’è un altro tizio di cui voglio occuparmi personalmente. Ma ne discuterò con te più avanti. Senti, è vero che zio Jim era un sacerdote papista? Boss parve quasi sorpreso. — Dove hai sentito quest’idiozia? — In giro. Chiacchiere. — Umano, troppo umano. Le chiacchiere sono un vizio. Chiariamo la questione. Prufit era un imbroglione. L’ho conosciuto in prigione, dove ha fatto qualcosa per me, qualcosa di tanto importante da spingermi a trovargli un posto nella nostra organizzazione. Un mio errore. Un mio imperdonabile errore, perché un imbroglione non smette mai di essere un imbroglione; non può. Ma all’epoca soffrivo del desiderio di credere, un difetto del mio carattere che pensavo di aver eliminato. Mi sbagliavo. Continua, per favore. Dissi a Boss come mi avevano presa. — Erano in cinque, credo. Forse solo quattro. — Sei, ritengo. Descrizioni. — Nessuna, Boss. Avevo troppo daffare. Be’, una. Sono riuscita a vederlo bene mentre lo uccidevo. Un metro e settantacinque circa d’altezza, peso sui settantacinque o settantasei. Sui trentacinque anni. Biondiccio, ben rasato. Aria slava. Ma è l’unico che il mio occhio abbia fotografato. Perché è rimasto immobile. Involontariamente. Quando gli si è spezzato il collo. — L’altro che hai ucciso era biondo o bruno? — Belsen? Bruno. — No, alla fattoria. Lascia perdere. Ne hai uccisi due e feriti tre prima che il puro accumulo di corpi sia riuscito a bloccarti di peso. Un punto di merito per il tuo istruttore, permettimi di aggiungere. Fuggendo, non eravamo riusciti a farne fuori abbastanza per impedire loro di prenderti prigioniera… Però, secondo me, sei stata tu a vincere la battaglia che ci ha permesso di liberarti. Avevi messo fuori uso parecchi dei loro uomini. Anche se in quel momento eri ammanettata e svenuta, hai vinto tu l’ultimo scontro. Continua, per favore. — Più o meno è tutto qui, Boss. Poi c’è stato lo stupro di gruppo, seguito dall’interrogatorio. Prima diretto, poi sotto droga, e poi sotto tortura. — Mi spiace per lo stupro, Friday. I soliti premi. Li troverai più sostanziosi del solito. A mio giudizio, le circostanze sono state estremamente umilianti. — Oh, niente di speciale. Non sono una verginella. Ricordo ancora serate mondane quasi altrettanto sgradevoli. A parte un uomo. Non so che faccia abbia, ma posso identificarlo. Lo voglio! Lo voglio quanto voglio zio Jim. Anche di più, forse. Voglio punirlo un po’ prima di lasciarlo morire. — Posso solo ripeterti quello che ho già detto. Per noi, i risentimenti personali sono un errore. Riducono le possibilità di sopravvivenza. — Correrò il rischio, per quel porco. Boss, non ce l’ho con lui per lo stupro in sé. Avevano ricevuto l’ordine di violentarmi, in base alla stupida teoria che lo stupro mi avrebbe ammorbidita per l’interrogatorio. Ma quel porco dovrebbe lavarsi e farsi curare i denti e pulirseli e fare sciacqui. E qualcuno dovrebbe dirgli che non è carino prendere a schiaffi la donna con cui hai copulato. Non so che faccia abbia, però conosco la sua voce e il suo odore e la corporatura e il soprannome. Rocks o Rocky. — Jeremy Rockford. — Come? Lo conosci? Dov’è? — Lo conoscevo un tempo, e ultimamente ho potuto vederlo per benino, tanto da esserne sicuro. Requiescat in pace. — Sul serio? Diavolo. Spero che non sia morto in modo tranquillo. — Non è morto in modo tranquillo. Friday, non ti ho detto tutto quello che so… — Non lo fai mai. — …Perché prima volevo il tuo rapporto. Il loro assalto alla fattoria è riuscito perché Jim Prufit aveva completamente tolto l’energia appena prima che ci attaccassero. Il che ha lasciato solo armi portatili ai pochi di noi che girano armati in fattoria, e le nude mani a tutti gli altri. Ho ordinato l’evacuazione, e la maggioranza di noi è fuggita da un tunnel costruito di nascosto quando la casa è stata ristrutturata. Sono addolorato e fiero di dire che tre dei nostri migliori uomini, i tre che erano armati al momento dell’attacco, hanno deciso di restare e sacrificarsi per gli altri. So che sono morti. Ho tenuto aperto il tunnel finché non ho capito dai rumori che vi erano penetrati gli invasori. Allora l’ho fatto saltare. «È occorsa qualche ora per radunare gente a sufficienza e organizzare il contrattacco, soprattutto per trovare abbastanza veicoli a motore autorizzati. In teoria potevamo anche attaccare a piedi, ma serviva come minimo un Vma che facesse da ambulanza per te.» — Come sapevi che ero ancora viva? — Nello stesso modo in cui sapevo che qualcuno, e non la nostra retroguardia, era entrato nel tunnel. Monitoraggio. Friday, tutto ciò che ti è stato fatto e che hai fatto, tutto ciò che hai detto o che ti è stato detto, è stato visto e registrato. Non ho potuto seguire di persona le registrazioni, ero preso dai preparativi del contrattacco, ma mi sono state mostrate le parti essenziali quando il tempo lo ha permesso. Lasciami aggiungere che sono orgoglioso di te. «Conoscendo le postazioni dei monitor, sapevamo dove ti tenevano, il fatto che eri ammanettata, quante persone erano presenti nella casa, dove erano, quando dormivano, e chi restava sveglio. Le trasmissioni al Vma di comando mi hanno tenuto al corrente della situazione in casa fino al momento dell’attacco. Siamo partiti alla carica… Cioè, loro sono partiti alla carica, i nostri uomini. Io non guido gli attacchi zoppicando su quei due bastoni; io comando. I nostri hanno assalito la casa, sono entrati. I quattro designati ti hanno liberata… uno era armato solo di un taglia-bulloni… e sono usciti in tre minuti e undici secondi. Poi abbiamo appiccato il fuoco.» — Boss! La tua stupenda fattoria? — Quando la nave affonda, non ci si preoccupa delle tovaglie del salone da pranzo. Ormai la fattoria era inutilizzabile. L’incendio ha distrutto molte registrazioni compromettenti e molte attrezzature segrete o quasi. Ma soprattutto, perché era la cosa più urgente, bruciare la casa ci ha sbarazzati in fretta del gruppo che ne aveva compromesso i segreti. Il nostro cordone era in posizione prima che usassimo le incendiarie, poi abbiamo sparato a tutti mentre tentavano di uscire. «È stato allora che ho visto il tuo amico, Jeremy Rockford. Era ustionato a una gamba quando è uscito dalla porta est. È rientrato barcollando all’indietro, ha cambiato idea e ha cercato di nuovo di scappare, è caduto ed è rimasto intrappolato. Dai suoni che ha emesso posso assicurarti che non è morto in modo tranquillo.» — Ahi. Boss, quando ho detto che volevo punirlo prima di ucciderlo, non intendevo niente di orribile come una morte sul rogo. — Se non gli fosse venuto in mente di fare il cavallo che torna nella stalla in fiamme, sarebbe morto come tutti gli altri. In fretta, con un raggio laser. E l’ordine era di sparare a vista, perché non volevamo fare prigionieri. — Nemmeno per interrogarli? — Un’infrazione alla dottrina, ne convengo. Però, mia cara Friday, tu non conosci l’atmosfera emotiva. Tutti avevano sentito i nastri, per lo meno quello dello stupro e del terzo interrogatorio sotto tortura. I nostri ragazzi e ragazze non avrebbero fatto prigionieri nemmeno se io lo avessi ordinato. Però io non ci ho provato. Voglio informarti che i tuoi colleghi nutrono la massima stima per te. Compresi i molti che non ti hanno mai conosciuta e che con ogni probabilità non conoscerai mai. Boss arraffò i suoi bastoni, si tirò in piedi. — Ho superato di sette minuti il tempo che il tuo medico mi ha concesso. Parleremo domani. Adesso devi riposare. Verrà un’infermiera per farti dormire. Dormi e vedi di migliorare. Mi trovai con tre o quattro minuti tutti per me, e li trascorsi avvampando in una calda aureola. «La massima stima». Se non hai mai avuto un posto e affetti solo tuoi al mondo, e non potrai mai averli, parole del genere sono tutto. Mi riscaldarono tanto che nemmeno mi importava più di non essere umana. 4 Un giorno o l’altro avrò la meglio in una discussione con Boss. Ma non trattenete il fiato. Ci sono stati giorni in cui non ho perso una discussione con lui: i giorni in cui non venne a trovarmi. Cominciò con una divergenza d’opinione sulla durata della mia terapia. Io mi sentivo pronta a tornare a casa o al lavoro, indifferentemente, dopo quattro giorni. Magari non sarebbe stato il caso di impegnarmi in una scazzottata, ma potevo assumere incarichi leggeri; oppure, come scelta preferita, farmi un viaggio in Nuova Zelanda. Tutte le mie ferite si stavano rimarginando. Non erano poi un granché: un sacco di ustioni, quattro costole rotte, fratture semplici alla tibia e alla fibula sinistre, fratture multiple alle ossa del piede destro e a tre dita del sinistro, una frattura cranica senza complicazioni all’attaccatura dei capelli; e (un bel disastro, ma niente di paralizzante) qualcuno mi aveva staccato il capezzolo destro. Quest’ultima cosa, e le ustioni e le fratture alle dita dei piedi, erano tutto ciò che ricordavo; gli altri incidenti dovevano essersi verificati mentre io ero distratta da questioni più urgenti. Boss disse: — Friday, sai che occorreranno almeno sei settimane per rigenerare quel capezzolo. — Ma con la chirurgia plastica, per un semplice lavoro di cosmesi basterebbe una settimana. Me lo ha detto il dottor Krasny. — Mia giovane signora, se un membro della nostra organizzazione resta menomato nell’adempimento del dovere, sarà curato con tutta la perfezione concessa dall’arte terapeutica. A parte questa nostra regola fondamentale, nel tuo caso c’è un altra ragione, impellente e sufficiente. Tutti noi abbiamo l’obbligo morale di conservare e salvaguardare la bellezza che esiste a questo mondo. Non c’è posto per gli sprechi. Tu possiedi un corpo insolitamente aggraziato. Ogni danno che esso subisce è deplorevole, e va riparato. — La chirurgia estetica va benissimo, te l’ho detto. Non prevedo di avere latte, in queste anfore. E chiunque verrà a letto con me non ci farà caso. — Friday, forse tu ti sei convinta che non dovrai mai allattare. Ma dal punto di vista estetico, un seno reale è molto diverso da un’imitazione chirurgica. Il tuo ipotetico compagno di letto potrà anche non accorgersene… Ma lo sapresti tu, e lo saprei io. No, mia cara. Ti riporteremo alla tua precedente perfezione. — Hmm! E quand’è che ti farai rigenerare quell’occhio? — Non essere impertinente, figliola. Nel mio caso non c’è alcun problema estetico. Così la mia tetta tornò bella come prima, o forse anche di più. La discussione successiva fu sul riorientamento che ritenevo necessario per correggere questo mio riflesso a uccidere così fulmineo. Quando tirai in ballo l’argomento, Boss fece la faccia di chi avesse appena morso qualcosa di schifoso. — Friday, a quanto ricordo non hai mai commesso un omicidio che si sia poi rivelato un errore. Hai ucciso qualcuno di cui non sono al corrente? — No, no — replicai subito. — Non ho mai assassinato nessuno prima di cominciare a lavorare per te, e ho fatto rapporto su tutti i miei omicidi. — In questo caso, si è sempre trattato di autodifesa. — Sempre, a parte Belsen. Quella non è stata autodifesa. Non mi aveva toccata nemmeno con un dito. — Beaumont. Per lo meno, era il nome che usava di solito. A volte, l’autodifesa deve assumere la forma di «Fai agli altri quello che gli altri farebbero a te, ma fallo per primo». De Camp, credo. O un altro della scuola dei filosofi pessimisti del ventesimo secolo. Farò portare il dossier di Beaumont, così vedrai da te che meritava ampiamente di morire. — Non è il caso. Frugando nel suo borsello ho capito che non mi seguiva perché aveva voglia di baciarmi. Ma l’ho capito dopo. Boss aspettò diversi secondi prima di rispondere, il che era molto insolito. — Friday, vuoi cambiare binario e diventare un killer? Io restai a bocca aperta e occhi sgranati. La mia risposta fu tutta lì. — Non volevo spaventarti — disse Boss, secco. — Avrai già dedotto che questa organizzazione comprende degli assassini. Non voglio perderti come corriere. Sei il migliore. Ma assassini in gamba ci servono sempre, dato che il loro tasso d’estinzione è elevato. Comunque, esiste una differenza fondamentale tra un corriere e un assassino. Un corriere uccide solo per autodifesa e spesso per riflesso… e, lo ammetto, sempre con una certa possibilità di errore… e non tutti i corrieri posseggono il tuo supremo talento nell’integrare all’istante tutti i fattori e arrivare a una conclusione necessaria. — Ehi! — Hai sentito bene. Friday, una delle tue debolezze è la mancanza del minimo indispensabile di presunzione. Un killer degno del nome non uccide per riflesso; uccide per pianificazione intenzionale. Se il suo piano si dimostra errato al punto di costringerlo a passare all’autodifesa, il killer quasi certamente diventerà una statistica. Nei suoi delitti premeditati, sa sempre il perché e ne accetta la necessità… Se no non lo spedirei in missione. (Delitto premeditato? Omicidio, per definizione. Alzarsi il mattino, mangiare una bella colazione, poi presentarsi all’appuntamento con la vittima e farla fuori a sangue freddo? Cenare e dormire senza problemi?) — Boss, non credo sia il mio tipo di lavoro. — Non sono certo che tu abbia il temperamento necessario. Comunque, per il momento, mantieniti aperta. Io non ardo dal desiderio di rallentare i tuoi riflessi di autodifesa. Per di più posso assicurarti che se cercassimo di riorientarti come ci chiedi, non ti userei più come corriere. No. Rischiare la pelle è affare tuo… nel tempo libero. Ma le tue missioni sono sempre critiche. Non userò un corriere che ha deciso di sua spontanea volontà di smussare i suoi lati più taglienti. Boss non mi convinse, però mi rese insicura di me. Quando gli ripetei che non mi interessava diventare un killer, lui sembrò addirittura non sentirmi; borbottò solo che mi avrebbe fatto avere qualcosa da leggere. Mi aspettavo di veder apparire il materiale, di qualunque cosa si trattasse, sul terminale della stanza. Invece, una ventina di minuti dopo l’uscita di Boss, un ragazzo molto giovane (be’, più giovane di me) si materializzò con un libro, un libro rilegato con pagine di carta. Sopra c’era stampigliato un numero di serie e CONSULTAZIONE RISERVATA E SOLO IN CASO DI NECESSITÀ E TOP SECRET AUTORIZZAZIONE BLU SPECIALE. Guardai il libro. Ero ansiosa di riceverlo come di prendere in mano un serpente. — È per me? Deve esserci un errore. — Il Vecchio non fa errori. Firmatemi la ricevuta. Lo feci aspettare mentre leggevo i caratteri minuscoli. — Qui, dove dice «Non lo perderò mai di vista»… Ogni tanto dormo. — Chiamate l’Archivio, chiedete dell’addetto ai documenti classificati, che poi sarei io, e arriverò in un lampo. Però cercate di non addormentarvi finché non sarò qui. Cercate con tutte le vostre forze. — Okay. — Firmai la ricevuta, alzai la testa, e lo trovai a scrutarmi con occhi lucidi. — Cosa stai guardando? — Ehm… Signorina Friday, siete bella. Non so mai cosa rispondere a frasi del genere, perché non sono bella. Ho un corpo decente, d’accordo, ma ero vestita dalla testa ai piedi. — Com’è che sai il mio nome? — Ma lo sanno tutti chi siete. Insomma… Due settimane fa. Alla fattoria. C’eravate voi. — Oh. Sì, c’ero. Però non ricordo. — Ricordo io! — Gli brillavano gli occhi. — È l’unica volta che ho potuto partecipare a un’operazione sul campo. Sono felice di avervi preso parte! (Cosa si fa in casi simili?) Gli presi la mano, lo attirai a me, gli presi il viso fra le mani, lo baciai con molta attenzione, a mezza strada fra il-caldo-abbraccio-della-sorellina e il facciamolo! Forse il protocollo richiedeva qualcosa di più forte, ma lui era in servizio e io ero ancora nella lista dei degenti. Non è giusto sottintendere promesse che non si possono mantenere, specialmente coi ragazzi giovani che hanno le stelle negli occhi. — Grazie di avermi salvata — gli dissi in tono sobrio, prima di lasciar andare le sue guance. Il caro tesoro arrossì. Ma sembrava molto soddisfatto. Rimasi sveglia così tanto a leggere quel libro che l’infermiera di notte mi sgridò. Comunque, le infermiere hanno bisogno di sgridare i pazienti per qualcosa, ogni tanto. Non citerò quell’incredibile documento… Ma state a sentire questi argomenti. Per primo il titolo: L’unica arma mortale. Poi: L’assassinio come arte L’assassinio come strumento politico L’assassinio per profitto Gli assassini che hanno cambiato la storia La società dell’eutanasia creativa I canoni dell’Associazione Assassini Professionisti Gli assassini dilettanti: andrebbero sterminati? Killer degni d’onore: storie di casi esemplari «Estremi pregiudizi», «Lavoro sporco»: gli eufemismi sono necessari? Nozioni di base: tecniche & attrezzature Wow! Non avevo nessun buon motivo per leggerlo tutto. Ma lo lessi. Emanava un fascino demoniaco. Lurido. Decisi di non accennare mai alla possibilità di cambiare binario e di non riparlare più del riorientamento. Lo facesse Boss, se aveva intenzione di discuterne. Battei sul terminale, ebbi l’Archivio, dissi che mi serviva l’addetto ai documenti classificati per prendere in custodia il documento classificato numero tal dei tali, e che per favore portasse la mia ricevuta. — Subito, signorina Friday — mi rispose una donna. La celebrità… Aspettai, con considerevole irrequietezza, che il giovanotto apparisse. Mi vergogno di ammettere che quel libro velenoso aveva avuto un effetto scellerato su di me. Era una notte fonda, quasi mattino; attorno regnava una quiete tombale; e se quel tesoro mi avesse toccata con una sola mano, c’era la forte probabilità che io dimenticassi di essere ancora, tecnicamente, invalida. Avrei avuto bisogno di una cintura di castità con un lucchetto grosso così. Ma non era lui; il dolce tesoro era fuori servizio. La persona che si presentò con la ricevuta era la donna matura che mi aveva risposto al terminale. Provai insieme, sollievo e delusione; e vergogna di me stessa alla delusione. La convalescenza rende tutti irresponsabilmente lascivi? Gli ospedali hanno problemi di disciplina interna? Non sono stata malata tanto spesso da saperlo. L’impiegata del turno di notte mi diede la ricevuta in cambio del libro, poi mi sorprese con: — E a me non dài un bacio? — Oh, c’eri anche tu? — C’erano tutti i vivi disponibili, mia cara. Quella notte eravamo mostruosamente a corto di personale. Non sarò il campione del mondo, ma ho avuto un addestramento di base come chiunque altro. Sì, c’ero. Non me lo sarei mai perso. Dissi: — Grazie di avermi salvata — e la baciai. Cercai di limitarmi a un gesto puramente simbolico, ma lei prese il comando e controllò gli sviluppi della situazione. Che fu calda e affannosa. In modo perfettamente chiaro, meglio che a parole, quella donna mi stava dicendo che se solo avessi deciso di cambiare sponda, lei sarebbe stata lì ad aspettarmi. Cosa si fa in casi simili? Esistono situazioni umane per le quali non è previsto alcun protocollo. Aveva appena ammesso di aver rischiato la vita per salvare la mia; ed era esattamente così, perché la spedizione di soccorso non era stata la cosuccia innocua che poteva sembrare dal racconto di Boss. Boss tende tanto ad attenuare la realtà che potrebbe descrivere la distruzione totale di Seattle come «una perturbazione sismica». Se l’avevo ringraziata per avermi salvato la pelle, potevo rifiutarla? Non potevo. Lasciai che la mia metà del bacio rispondesse al suo messaggio senza parole; e incrociai le dita, augurandomi di non dover mai tener fede alla promessa implicita. Dopo un certo tempo lei interruppe il bacio, ma continuò a tenermi stretta. — Tesoro — disse — vuoi sapere una cosa? Ricordi come hai tenuto testa a quel verme che chiamavano Maggiore? — Ricordo. — In giro c’è un nastro pirata di quella scena. Quello che gli hai detto, e il modo in cui lo hai detto, è enormemente ammirato da tutti quanti. Soprattutto da me. — Interessante. Sei tu lo spiritello che ha fatto la copia del nastro? — Come puoi pensare una cosa del genere? — Sorrise. — Ti spiace? Ci riflettei su per tre interi millisecondi. — No. Se le persone che mi hanno salvata si divertono a sentire quello che ho detto a quel bastardo, non mi dà fastidio. Però di solito non parlo a quel modo. — Nessuno lo pensa. — Un bacetto veloce. — Ma lo hai fatto quando era necessario, e hai reso orgogliosa ogni donna dell’agenzia. Anche gli uomini, a dire il vero. Non pareva disposta a lasciarmi andare, ma l’infermiera di notte apparve proprio allora e mi disse seccamente che dovevo coricarmi e che mi avrebbe fatto un’iniezione per dormire. Io opposi le consuete proteste formali. L’impiegata disse: — Ciao, Blondie. ‘Notte. ‘Notte anche a te tesoro. — Se ne andò. Blondie (non è il suo nome; è per via del cachet) disse: — La vuoi nel braccio? O nella gamba? Non fare caso ad Anna. È innocua. — È a posto. — Mi venne in mente che probabilmente Blondie poteva seguire, sui suoi monitor, sia il video che l’audio. Probabilmente? Senza dubbio! — C’eri anche tu? Alla fattoria? Quando la casa è stata incendiata? — Non mentre la casa bruciava. Ero su un Vma, a portarti qui alla massima velocità possibile. Eri ridotta piuttosto male, Friday. — Ci credo. Grazie. Blondie? Vuoi darmi il bacio della buonanotte? Il suo bacio fu caldo e privo di complicazioni. Più tardi scoprii che lei era stata uno dei quattro che erano corsi su per le scale a liberarmi: un uomo col suo grosso tagliabulloni, gli altri due armati che sparavano… e Blondie che trascinava da sola la barella. Ma non ne fece mai cenno, né allora né in seguito. Ricordo quella convalescenza come il primo periodo in vita mia (a parte le vacanze a Christchurch) di tranquilla, dolce felicità; ogni giorno, ogni notte. Perché? Perché ero a casa mia! Ovviamente, come tutti avranno indovinato da questo resoconto, avevo un passato alle spalle. Sulla mia carta d’identità non era più stampigliato un grosso Csv, e nemmeno un Pa. Potevo entrare in una toilette senza sentirmi ordinare di usare l’ultimo cubicolo in fondo. Ma una carta di identità falsa e un albero genealogico fasullo non ti danno calore; ti salvano semplicemente da prepotenze e discriminazioni. Sai sempre che non esiste nazione che ti consideri degna della cittadinanza, e che un’infinità di posti sarebbero pronti a deportarti o persino ucciderti, o venderti, se nella tua copertura si aprisse una falla. Una persona artificiale sente la mancanza dell’albero genealogico molto più di quanto possiate credere. Tu dove sei nato? Io non sono esattamente nato; sono stato progettato nel laboratorio di ingegneria genetica della Tri-University, a Detroit. Oh, davvero? lo sono stata concepita dalla Mendelian Associates, a Zurigo. Meravigliose chiacchiere! Non le sentirete mai. Non reggono davanti ad antenati sul Mayflower o nel Grande libro del Catasto d’Inghilterra. I miei documenti (o un gruppo di documenti) dicono che sono «nata» a Seattle; una città distrutta è un ottimo posto per documenti scomparsi. Ed è anche un posto grandioso per perdere tutti i parenti. Dato che non sono mai stata a Seattle, ho studiato con estrema cura tutta la documentazione e le immagini che ho potuto trovare. Un indigeno di Seattle genuino al cento per cento non può fregarmi. Credo. O per lo meno non è ancora successo. Ma quello che mi regalarono mentre mi riprendevo da uno stupido stupro e da un interrogatorio non troppo divertente non era fasullo, e non dovevo preoccuparmi di stare attenta alle mie bugie. Non solo Blondie e Anna e il ragazzo giovane (Terence), ma più di un’altra ventina di persone prima che il dottor Krasny mi dimettesse. E non solo le persone con cui ebbi contatti diretti. Anche altra gente aveva partecipato al raid; non so quanti. La dottrina di Boss impedisce ai membri della sua organizzazione di incontrarsi, salvo i casi creati dalle esigenze di un incarico. Nello stesso modo, lui schiva con estrema testardaggine le domande. È impossibile svelare segreti che non si conoscono, ed è impossibile tradire una persona di cui si ignora addirittura l’esistenza. Ma Boss non coltiva regole per amore delle regole. Conosciuto un collega sul lavoro, si può continuare a vedersi. Boss non incoraggia queste amicizie, però non è un idiota e non cerca nemmeno di proibirle. Di conseguenza, Anna venne a trovarmi spesso, la sera tardi, prima di montare di turno. Non tentò mai di reclamare la sua libbra di carne. Non ci furono molte occasioni, ma avremmo potuto trovarne una, se avessimo provato. Io non cercai di scoraggiarla; anzi no, al diavolo: se avesse mai deciso di presentarmi il conto, non solo avrei pagato volentieri, ma avrei tentato di convincerla che l’idea era partita da me. Però non lo fece. Penso fosse come quei maschi sensibili (e piuttosto rari) che non assediano mai la donna che non vuole essere assediata: se ne rendono conto e non cominciano nemmeno. Una sera, poco prima di essere dimessa, ero particolarmente felice. Quel giorno mi ero fatta due nuovi amici, «amici di bacio», persone che avevano combattuto nel raid che mi aveva salvata; e cercai di spiegare ad Anna perché tutto quello significasse così tanto per me, e mi accorsi che stavo cominciando a raccontarle che non ero esattamente come sembravo. Lei mi fermò. — Friday, tesoro, dai retta a tua sorella maggiore. — Eh? Ho fatto qualcosa che non va? — Forse stavi per farlo. Ricordi la notte che ci siamo conosciute, quando mi hai chiamata per restituire un documento classificato? Anni fa, mister Due Bastoni mi ha concesso il massimo livello di autorizzazione top secret. Il libro che hai reso è a mia disposizione in qualunque momento. Però io non l’ho mai aperto, e non lo aprirò mai. Sulla copertina c’è scritto solo in caso di necessità, e nessuno mi ha mai detto che io avevo la necessità di consultarlo. Tu lo hai letto, ma io non so nemmeno di cosa parla o come si intitoli. Ne conosco solo il numero. «Per le faccende personali è lo stesso. Un tempo esisteva un’organizzazione militare elitaria, la legione straniera. Si vantava del fatto che un legionario non avesse storia prima del giorno dell’arruolamento. Mister Due Bastoni vuole che anche noi siamo così. Per esempio, se reclutassimo una creatura sintetica vivente, una persona artificiale, l’addetto al personale lo saprebbe. Lo so perché io sono stata addetta al personale. Documenti da falsificare, magari qualche operazione chirurgica, in alcuni casi marchi di laboratorio da cancellare, e poi un’area da rigenerare… «Terminato il nostro lavoro, quella persona non dovrebbe più temere che qualcuno le batta su una spalla, o che la caccino a gomitate da una coda. Potrebbe persino sposarsi e avere figli senza preoccupazioni per il futuro dei suoi bambini. E non dovrebbe preoccuparsi nemmeno per me, perché io sono stata addestrata a dimenticare. Ora, tesoro, non so cosa tu avessi in mente. Ma se si tratta di qualcosa che di solito non racconti agli altri, non raccontarla nemmeno a me. Se no domattina ti odierai.» — No, non è vero! — Va bene. Se fra una settimana avrai ancora voglia di raccontarmelo, io ti starò a sentire, d’accordo? Anna aveva ragione. Una settimana dopo, non sentivo più il bisogno di dirglielo. Sono sicura al novantanove per cento che sapesse. Comunque sia, è bello essere amata per te stessa, da qualcuno che non pensa che le Pa siano mostri, esseri subumani. Non ho idea se qualcuno degli altri amici tanto teneri sapesse o avesse indovinato. (Non alludo a Boss; lui sapeva, è ovvio. Ma lui non è un amico; lui è Boss.) Non aveva importanza che i miei nuovi amici scoprissero che non ero umana; perché mi ero resa conto che a loro non importava, o non volevano importasse. A loro interessava solo sapere se facevi parte o meno dell’organizzazione di Boss. Una sera arrivò Boss con i suoi bastoni, sbuffante, seguito a ruota da Blondie. Si buttò pesantemente sulla poltrona per i visitatori, disse a Blondie: — Non ho bisogno di voi, infermiera. Grazie — poi a me: — Spogliati. Sulla bocca di qualunque altro uomo, quell’ordine sarebbe stato un’offesa o un piacere, secondo i casi. Sulla bocca di Boss, significava semplicemente che voleva che mi spogliassi. Anche Blondie lo prese allo stesso modo, perché si limitò ad annuire e uscire; e Blondie è il tipo di professionista che salterebbe in testa a Shiva il Distruttore, se tentasse di interferire con uno dei suoi pazienti. Mi tolsi in fretta i vestiti e aspettai. Lui mi scrutò dalla testa ai piedi. — Sono tornate uguali. — Così sembra. — Il dottor Krasny mi ha detto che ha eseguito un test per la funzionalità d’allattamento. Positivo. — Sì. Ha combinato uno scherzetto al mio equilibrio ormonale e tutte e due le tette hanno perso un po’ di latte. Una sensazione strana. Poi mi ha rimessa in equilibrio e mi sono asciugata. Boss grugnì. — Girati. Fammi vedere la pianta del piede destro. Adesso il sinistro. Basta. Le ustioni sono sparite. — Direi tutte, da quanto posso vedere. Il dottore dice che anche le altre cicatrici si sono rigenerate. Non ho più prurito, per cui deve essere vero. — Rivestiti. Il dottor Krasny mi dice che stai bene. — Se stessi ancora più meglio, dovresti farmi dei salassi. — Meglio è un comparativo. Non ammette il più. — Okay. Sto meglissimo. — Impudente. Domattina parti per il tuo corso d’aggiornamento. Prepara i bagagli per le zero e novecento. — Dato che sono arrivata senza nemmeno un bel sorriso addosso, preparare i bagagli richiederà undici secondi. Però mi occorrono una carta d’identità nuova, un passaporto nuovo, una carta di credito nuova, e un bel po’ di contanti… — Ti sarà consegnato tutto prima delle zero e novecento. — …Perché non andrò al corso d’aggiornamento. Andrò in Nuova Zelanda. Boss, te l’ho già detto e ripetuto. Sono in arretrato da un pezzo di un periodo di R&R, e avrò diritto a una vacanza pagata per tutto il tempo che ho perso qui, no? Sei uno schiavista. — Friday, quanti anni ti ci vorranno per capire che quando mi oppongo a uno dei tuoi desideri penso sempre al tuo benessere, oltre all’efficienza dell’organizzazione? — Sandissimo buana, Grande Badre Biango. Mi cospargo di cenere. E ti manderò una cartolina da Wellington. — Con una bella ragazza maori, per favore. I geyser li ho giù visti. Il corso d’aggiornamento sarà strutturato in base alle tue esigenze, e sarai tu a decidere quando terminarlo. Anche se stai «meglissimo», ti occorre un addestramento fisico di difficoltà crescente per recuperare quel meraviglioso insieme di tono muscolare e fiato e riflessi che ti spetta per diritto di nascita. — Diritto di nascita. Non provarci con le battute, Boss. Non sono il tuo forte. Mia madre era una provetta; mio padre, un bisturi. — Ti lasci trascinare in assurde autocommiserazioni per un impedimento che è stato rimosso anni fa. — Davvero? I tribunali dicono che non posso avere una cittadinanza; le chiese dicono che non ho un’anima. Non sono «Donna nata da donna», per lo meno non agli occhi della legge. — La legge è un’asineria. I documenti sulla tua origine sono stati sottratti dagli archivi del laboratorio di produzione e sostituiti da una documentazione fasulla su un Pa di sesso maschile con prestazioni super. — Non me lo avevi mai detto! — Non ce n’era bisogno, prima che manifestassi questa debolezza nevrotica. Un imbroglio di quel tipo deve essere talmente a prova di bomba da cancellare del tutto la verità, e così è stato. Se domani tu tentassi di reclamare la tua origine, non troveresti una sola autorità disposta a darti ragione. Puoi raccontarlo a tutti quanti; non ha importanza. Però, mia cara, perché stai tanto sulla difensiva? Tu sei perfettamente umana quanto Madre Eva, anzi ancora di più. Hai prestazioni superiori. Sei perfetta per quanto possibile a chi ti ha progettata. Perché credi abbia fatto tanti sforzi per reclutarti quando non avevi esperienza e nessun interesse conscio per questa professione? Perché ho speso una piccola fortuna per educarti e addestrarti? Perché sapevo. Ho aspettato qualche anno, per avere la certezza che ti sviluppassi come era nelle intenzioni dei tuoi artefici… Poi ti ho quasi persa quando sei svanita all’improvviso. — Fece una smorfia che credo in lui indichi un sorriso. — Mi hai dato dei grattacapi, ragazza. E adesso torniamo al tuo corso. Hai intenzione di ascoltarmi? — Sì, signore. — (Non provai a raccontargli dell’asilo infantile del laboratorio; gli umani pensano che tutti gli asili siano identici a quelli che loro hanno visto. Non gli dissi del cucchiaio di plastica, l’unica cosa che mi lasciarono per portarmi il cibo alla bocca fino a dieci anni d’età, perché non volevo dirgli che la prima volta che tentai di usare una forchetta mi forai il labbro fino a farlo sanguinare, e quelli là si misero a ridere. Non si tratta di una cosa sola; si tratta di un milione di piccole cose che segnano la differenza tra l’essere allevato come un bambino umano e l’essere allevato come un animale.) — Seguirai un corso d’aggiornamento sul combattimento a mani nude, ma lavorerai solo col tuo istruttore. Il tuo corpo non dovrà aver subito il minimo danno, quando andrai a trovare la tua famiglia a Christchurch. Riceverai un addestramento avanzato in armi portatili, comprese alcune di cui forse non hai mai sentito parlare. Se cambiassi binario, ne avrai bisogno. — Boss, io non diventerò un assassino! — Ne hai bisogno lo stesso. A volte un corriere deve essere armato, e al meglio delle possibilità. Friday, non disprezzare indiscriminatamente gli assassini. Sono strumenti, e meriti o colpe stanno nel modo in cui li si usa. Il declino e la caduta degli ex Stati Uniti del Nord America sono derivati in parte da omicidi. Ma solo in piccola parte, dato che gli omicidi non seguivano alcun piano ed erano inutili. Cosa sai dirmi della guerra fra Russia e Prussia? — Non molto. Grosso modo, che i prussiani sono finiti inchiodati al muro quando i ricconi più furbi hanno capito che avrebbero vinto. — Se ti dicessi che sono state dodici persone a vincere quella guerra, sette uomini e cinque donne, e che l’arma più pesante che si sia usata era una pistola calibro sei millimetri? — Non credo che tu mi abbia mai mentito. Com’è andata? — Friday, la materia grigia è il bene più raro, e l’unico che abbia un vero valore. Qualunque organizzazione umana si può rendere inutile, impotente, pericolosa per se stessa, togliendole con cura le menti migliori e lasciando al loro posto gli stupidi. Sono bastati pochi, accurati incidenti per rovinare la grande macchina militare prussiana e trasformarla in un gregge acefalo. Ma questo si scoprì solo un bel po’ dopo l’inizio delle ostilità, perché gli idioti più dementi sembrano geni militari, a tavolino. — Solo una dozzina di persone… Boss? Lo abbiamo fatto noi quel lavoro? — Sai che scoraggio domande di questo tipo. No, non siamo stati noi. L’operazione bellica è stata condotta da un’organizzazione piccola e specializzata come la nostra. Però io non coinvolgo scientemente la nostra agenzia in guerre fra nazioni. È difficile capire subito da che parte stanno gli angeli. — Comunque, non ho nessuna voglia di essere un assassino. — Non ti permetterò di essere un assassino, e non discutiamone più. Stai pronta a partire domani alle nove. 5 Nove settimane più tardi partii per la Nuova Zelanda. Devo dire una cosa di Boss: quel bulletto arrogante sa sempre quello che dice. Quando il dottor Krasny mi dimise, non stavo «meglissimo». Ero semplicemente un paziente guarito che non aveva più bisogno dell’assistenza continua di un’infermiera. Nove settimane più tardi avrei potuto guadagnare medaglie d’oro nelle vecchie Olimpiadi senza un filo di sudore. Quando salii sull’Sb Abel Tasman al portolibero di Winnipeg, il comandante mi mise addosso gli occhi. Sapevo di avere un bell’aspetto, e nel raggiungere il mio sedile sculettai in un modo che non avrei mai usato in missione: come corriere, di solito cerco di sparire nell’ambiente. Ma adesso ero in ferie, e farsi pubblicità è divertente. A quanto sembrava, non avevo dimenticato l’arte, visto che il comandante tornò da me mentre mi stavo ancora allacciando la cintura. O forse era solo per via della tuta Superpelle che indossavo. Una novità della stagione, e la mia prima in assoluto; l’avevo comperata al portolibero e mi ero cambiata in negozio. Sono sicura che è solo questione di tempo prima che le sette che considerano il sesso legato, chissà come, al peccato, dicano che portare una Superpelle è peccato mortale. Lui disse: — La signorina Baldwin, giusto? C’è qualcuno che vi aspetta ad Auckland? Con la guerra e tutto il resto, non è una buona idea per una signora trovarsi sola in un porto internazionale. (Non gli dissi: «Senti, scemo, l’ultima volta ho ucciso il porco.») Il capitano era alto uno e novantacinque, forse, e doveva pesare sui cento chili o più, e senza un briciolo di grasso. Poco più di trent’anni. Il tipico biondo che ci si aspetterebbe nella Sas, più che nell’Anzac. Se voleva fare il protettivo, ero pronta a dargli corda. Gli risposi: — Non mi aspetta nessuno, devo solo prendere lo shuttle per l’Isola del Sud. Come funzionano queste fibbie? Ehi, quelle strisce significano che siete il capitano? — Vi faccio vedere. Capitano, sì. Capitano Ian Tormey. — Cominciò ad allacciarmi la cintura; lo lasciai fare. — Capitano. Santo cieeelo! Non avevo mai conosciuto un capitano. — Una frase del genere non è nemmeno una frottola, se viene usata come risposta rituale nel balletto più antico del mondo. Lui mi aveva detto: — Sono in caccia e tu mi piaci. Ti interessa? — E io gli avevo risposto: — Mi sembri accettabile, ma mi duole informarti che oggi non ho tempo. A quel punto, lui poteva aggiornare la questione senza sentirsi ferito, oppure scegliere di investire il suo zelo nella possibilità di un incontro futuro. Optò per la seconda soluzione. Mentre finiva di allacciare la cintura (abbastanza stretta, ma non troppo, e senza cogliere l’occasione per una palpatina; da vero professionista) disse: — Oggi avrete poco tempo a disposizione per la coincidenza. Se allo sbarco non avrete troppa fretta e scenderete per ultima, sarò lieto di mettervi a bordo del vostro Kiwi. Farete prima che ad aprirvi la strada tra la folla da sola. (Tra un volo e l’altro c’è un intervallo di ventisette minuti, capitano; il che ti lascerebbe venti minuti per convincermi a cambiare idea. Ma continua a essere così gentile, e può darsi che mi arrenda.) — Grazie, capitano! Se non vi do troppo disturbo. — Servizio Anzac standard, signorina Baldwin. Ma sarà un piacere. Mi piace viaggiare sui semibalistici: il decollo ad alta gravità che dà sempre l’impressione che l’intelaiatura di sostegno debba rompersi e spruzzare fluido in tutta la cabina, i minuti ansanti in caduta libera quando sembra che le viscere debbano rovesciarsi fuori, poi il rientro e quel lungo, lungo scivolare in aria che batte le sensazioni di qualunque altro mezzo di trasporto. Dov’è che ci si può divertire di più in quaranta minuti, coi vestiti addosso? Poi viene un interrogativo sempre interessante: la pista d’atterraggio è sgombra? Un semibalistico non fa due passaggi: non può. Qui sull’opuscolo pubblicitario sta scritto che un Sb non decolla mai prima di aver ricevuto l’autorizzazione dal porto d’arrivo. Sicuro, sicuro, e io credo nella Buona Fatina dei Denti Caduti come i genitori di Boss. E il cretino sul Vma privato che sceglie la striscia sbagliata per parcheggiare? E quella volta a Singapore quando ero seduta al bar del Ponte Superiore e ho visto atterrare tre Sb in nove minuti? Non sulla stessa striscia, lo ammetto, ma su strisce che si incrociavano! Una roulette russa. Continuerò a usare gli Sb. Mi piacciono, e nella mia professione devo servirmene spesso. Però trattengo sempre il fiato da quando tocchiamo terra a quando ci fermiamo. Quel viaggio fu divertente come al solito, e un volo su un semibalistico non è mai tanto lungo da diventare noioso. Al momento dello sbarco me la presi con calma, e come no, il mio gentilissimo lupo uscì dalla cabina di pilotaggio proprio mentre io scendevo. L’assistente di volo mi passò la mia borsa e il capitano Tormey la prese, nonostante le mie false proteste. Mi accompagnò al cancello dello shuttle, si incaricò di confermare la mia prenotazione e scegliermi il sedile, poi superò il cartello con la scritta SOLO PASSEGGERI e sedette al mio fianco. — Peccato che ripartiate così presto… Peccato per me, intendo. Devo fare questa rotta per tre giorni di seguito, e mi ritrovo solo come un cane, mia sorella e suo marito abitavano qui, ma si sono trasferiti a Sydney, e non ho più nessuno da andare a trovare. (Sì, ti vedo proprio passare tutto il tuo tempo libero con tua sorella e tuo cognato.) — Oh, terribile! So benissimo come vi sentite. La mia famiglia sta a Christchurch, e io provo una solitudine tremenda quando devo stare lontano da loro. Una famiglia grande, confusionaria, calorosa. Faccio parte di un gruppo-S. — (Bisogna sempre dirglielo subito.) — Fantastico! Quanti mariti avete? — Capitano, questa è sempre la prima cosa che mi chiedono gli uomini. Perché fraintendono la natura di un gruppo-S. Perché credono che S stia per «sesso». — Non è così? — Santo cielo, no! Sta per «sicurezza» e «serenità» e «socialità» e «spensieratezza» e «sentimenti» e «salvezza» e per un sacco di altre cose tutte calde e dolci e piacevoli. Oh, può stare anche per «sesso». Ma il sesso si trova senza problemi da ogni altra parte. (S sta per «famiglia Sintetica», in base alla definizione legislativa della prima nazione territoriale, la Confederazione Californiana, che abbia legalizzato questi gruppi. Ma il capitano Tormey, dieci su uno, lo sapeva. Stavamo solo eseguendo una variazione standard del Grande Addio). — Personalmente non trovo che il sesso sia così disponibile… (Mi rifiutai di abboccare. Capitano, col tuo metro e novantacinque e le tue spalle larghe e quel tuo aspetto roseo, florido, e quasi tutto il tempo libero per la Caccia… a Winnipeg e Auckland, numi del cielo, due posti dove il raccolto non è mai scarso… Per favore, signore, riprovateci!) — …Però convengo con voi che non è un motivo sufficiente per sposarsi. In quanto a me, non credo che mi sposerò mai, perché ho l’istinto del lupo solitario. Però un gruppo-S mi pare una prospettiva molto allettante. — Infatti, lo è. — Quanto è grande? — Ancora interessato ai miei mariti? Ho tre mariti, signore, e tre sorelle di gruppo, e penso che vi piacerebbero tutte e tre. Specialmente Lispeth, la più giovane e carina. Liz è una rossa scozzese un po’ civetta. Bambini? È ovvio. Cerchiamo di contarli tutte le sere, ma corrono come diavoli. E gattini e papere e cagnolini e un gigantesco carrozzone di giardino con rose tutto l’anno, più o meno. È un posto movimentato e felice, e bisogna sempre stare attenti a dove si mettono i piedi. — Dev’essere grande. Il gruppo ha per caso bisogno di un nuovo marito che non può stare a casa molto spesso ma che ha quintali di assicurazioni sulla vita? Quanto costa entrare a farne parte? — Ne parlerò con Anita. Ma non mi sembrate troppo serio. Le chiacchiere continuarono, gradevoli e insensate, a parte il significato simbolico. Dopo un po’, conclusa la cerimonia, lasciammo aperte le porte per un possibile incontro futuro scambiandoci i codici di comunicazione; io gli diedi quello della mia famiglia a Christchurch in risposta alla sua offerta di usare, se mai ne avessi avuto bisogno, il suo appartamento ad Auckland. Aveva rilevato lui l’affitto, disse, dopo il trasferimento di sua sorella… ma in genere gli serviva solo sei giorni al mese. — Quindi, se ti trovi in città e ti occorre un posto per un bagno e un sonnellino, o per passare la notte, chiamami. — Ma se lo stesse usando uno dei tuoi amici, Ian? — Mi aveva chiesto di smettere di chiamarlo capitano. — O tu stesso? — Improbabile. Comunque, il computer ti informerà. Se sono in città o sto per arrivare, ti dirà anche questo… E stai certa che non vorrei perdere l’occasione di rivederti. Un’avance esplicita, ma nei termini più corretti. Così, dandogli il nostro numero di Christchurch, gli risposi che era liberissimo di provare a togliermi i pantaloni… se aveva il fegato di affrontare i miei mariti, le mie co-mogli, e una tribù di bambini indemoniati. Che lui richiamasse mi sembrava del tutto improbabile. Gli scapoli alti e piacenti, con un lavoro affascinante e ben pagato, non devono arrivare a certi estremi. All’incirca in quel momento, l’altoparlante che borbotta arrivi e partenze si interruppe con: — Siamo terribilmente spiacenti di dover fare una pausa per annunciarvi la distruzione totale di Acapulco. Questa notizia vi è offerta dalla Interworld Transport, la compagnia delle linee a tre C: celerità, comodità, competenza. Boccheggiai. Il capitano Ian disse: — Gli idioti! — Quali idioti? — Tutto quanto il Regno Rivoluzionario Messicano. Ma quand’è che gli stati territoriali capiranno che non possono nemmeno per idea sconfiggere gli stati societari? Ecco perché ho detto che sono idioti. E lo sono! — Perché, capitano? Ian? — Ma è ovvio. Qualunque stato territoriale, anche Elle-Cinque o un asteroide, è un bersaglio fisso, preciso. Fare la guerra a una multinazionale è come cercare di tagliare la nebbia col coltello. Dove sta il tuo obiettivo? Vuoi sconfiggere l’Ibm? E dove sta l’Ibm? La sede ufficiale è una casella postale nello stato libero del Delaware. Non c’è nessun bersaglio. Gli uffici e i dipendenti e le fabbriche dell’Ibm sono disseminati su un centinaio di stati territoriali, e ce ne sono altri nello spazio. Non puoi distruggere una parte dell’Ibm senza causare danni equivalenti, o anche superiori, a qualcun altro. Mentre invece, per fare un esempio, l’Ibm può sconfiggere la Grande Russia? — Dipende solo da un unico fatto: se l’Ibm ci vede o meno un profitto. Per quanto ne so, l’Ibm non possiede movimenti di guerriglia. Forse non ha nemmeno agenti sabotatori. Potrebbe essere costretta a comperare le bombe e i missili. Però potrebbe fare la spesa dove e come le pare e prendersi tutto il tempo che vuole, perché la Russia non andrà mai da nessuna parte. Sarà sempre lì, magnifico bersaglio grande e grosso, fra una settimana o fra un anno. Ma la Interworld Transport ci ha appena dato una dimostrazione di come andrebbero le cose. Questa guerra è finita. Il Messico ha scommesso che la Interworld non avrebbe mai distrutto una città messicana, per non rischiare l’ignominia a livello mondiale. Solo che quei politici vecchio stile hanno scordato che alle nazioni societarie l’opinione pubblica interessa molto meno che a loro. Non sono costrette a interessarsene, tutto qui. La guerra è finita. — Oh, lo spero! Acapulco è… era… un bel posto. — Già, e sarebbe ancora un bel posto, se il Comitato Rivoluzionario Montezuma non avesse radici nel ventesimo secolo. Comunque, adesso penseranno tutti a salvare la faccia. L’Interworld presenterà le sue scuse e pagherà un’indennità, poi, senza fanfare, il Montezuma cederà il terreno e l’extraterritorialità per un nuovo spazioporto a una nuova società con un nome messicano e un recapito ufficiale del Delaware… E nessuno racconterà al pubblico che la nuova società è di proprietà al sessanta per cento dell’Interworld e al quaranta per cento dei politici che hanno tirato un po’ troppo la corda e permesso la distruzione di Acapulco. — Il capitano Tormey era amareggiato. Di colpo, mi accorsi che era più anziano di quanto non avessi immaginato. Gli dissi: — Ian, la Anzac non è una sussidiaria dell’Interworld? — Forse è per questo che sembro così cinico. — Si alzò. — Il tuo shuttle sta attraccando al cancello. Dammi la valigia. 6 Christchurch è la città più deliziosa di questo mondo. Facciamo di ogni mondo, considerato che al di fuori della Terra non esiste ancora una città veramente deliziosa. Luna City è nel sottosuolo. Elle-Cinque, vista da fuori, sembra il cortile di un robivecchi, e vista da dentro ha una sola arcata bella. Le città marziane sono semplici alveari, e la maggioranza delle città terrestri soffrono dello sciagurato tentativo di somigliare a Los Angeles. Christchurch non ha la magnificenza di Parigi o l’ambiente naturale di Los Angeles o il porto di Rio. Però ha cose che rendono una città, più che sorprendente, adorabile: il dolce Avon che serpeggia fra le strade del centro. La bellezza matura di Cathedral Square. La fontana di Ferrier di fronte al municipio. La rigogliosa bellezza dei nostri giardini botanici famosi in tutto il mondo, in pieno centro. I greci lodano Atene. Però io non sono nata a Christchurch (se «nata» significa qualcosa, nel mio caso). Non sono nemmeno un’ennezeta. Ho conosciuto Douglas in Ecuador (era prima della catastrofe del Ganciaereo di Quito), sono rimasta affascinata da una frenetica relazione composta al cinquanta per cento da cocktail peruviani e all’altro cinquanta da lenzuola inzuppate di sudore, poi sono stata spaventata dalla sua proposta; mi sono calmata quando mi ha fatto capire che non mi chiedeva di impegnarmi ufficialmente ma solo di fare un salto al suo gruppo-S, per vedere se loro mi piacevano, e se io piacevo a loro. Tutta un’altra storia. Tornai di corsa all’Impero e feci rapporto, e dissi a Boss che mi prendevo gli arretrati di ferie; oppure preferiva le mie dimissioni? Lui mugugnò che facessi pure, che mi raffreddassi le gonadi, e mi rimettessi in contatto appena pronta per lavorare. Così feci un’altra corsa a Quito, e Douglas era ancora a letto. All’epoca non esistevano vie di comunicazione diretta dall’Ecuador alla Nuova Zelanda; così arrivammo in sotterranea fino a Lima, poi prendemmo un Sb che ci portò diritti sopra il Polo Sud fino al porto dell’Australia occidentale, a Perth (con una bizzarra rotta a S per colpa di Coriolis); sotterranea fino a Sydney, balzo per Auckland, volo fino a Christchurch: quasi ventiquattro ore, e il più folle dei percorsi solo per attraversare il Pacifico. Winnipeg e Quito si trovano quasi alla stessa distanza da Auckland. Non lasciatevi ingannare da una carta geografica a due dimensioni, chiedete al vostro computer: Winnipeg è più lontana solo di un ottavo. Quaranta minuti in confronto a ventiquattro ore. Ma il viaggio così lungo non mi diede fastidio; ero con Douglas, innamorata marcia. Nel giro di altre ventiquattro ore mi ero innamorata marcia di tutta la famiglia. Non me l’aspettavo. Mi ero preparata a una deliziosa vacanza con Douglas, lui mi aveva promesso dello sci, oltre al sesso; non che io avessi insistito per lo sci. Sapevo di essere implicitamente tenuta ad andare a letto coi suoi fratelli di gruppo, se me lo avessero chiesto. Ma la cosa non mi preoccupava perché semplicemente, una persona artificiale non può prendere sul serio la copula come fa la maggioranza degli umani. Molte delle femmine della mia «generazione», dal menarca in poi, erano state educate a diventare etere, dopo di che erano state assunte come accompagnatrici dall’una o dall’altra multinazionale edile. Io stessa avevo ricevuto i rudimenti dell’arte dell’etera prima che Boss spuntasse, acquistasse il mio contratto, e mi facesse cambiare binario. (E io mandai al diavolo il contratto e scomparvi per diversi mesi, ma questa è un’altra storia.) Comunque, un po’ di sesso cameratesco non mi avrebbe allarmato nemmeno senza l’educazione da etera. Idiozie del genere non sono tollerate nelle Pa; non ce le insegnano mai. E non ci insegnano nulla sul fatto di vivere in famiglia. Il mio primo giorno lì, costrinsi tutti a prendere il tè in ritardo perché continuai a rotolarmi per terra con sei cuccioli umani che andavano dagli undici anni fino al neonato… per non parlare di due o tre cani e di un giovane gatto che si era meritato il nome di Signor Sottoipiedi grazie alla sua insolita abilità nell’occupare da solo un intero pavimento. In vita mia non avevo mai provato niente del genere. Non volevo che finisse. Brian, non Douglas mi portò a sciare. Le baite di Mount Hutt sono splendide ma le camere da letto non vengono riscaldate dopo le ventidue, e per tenersi caldi, bisogna stare stretti. Poi Vickie mi portò a vedere il gregge di famiglia e mi venne presentato un cane super che parlava, un grosso collie chiamato Lord Nelson. Lord aveva un’opinione molto bassa del buonsenso delle pecore, e ritengo fosse pienamente giustificato. Bertie mi portò a Milford Sound via shuttle per Dunedin (la «Edimburgo del sud») e passammo la notte lì: Dunedin è carina ma non è Christchurch. Poi prendemmo un delizioso vaporetto per fare il giro della terra dei fiordi, e le cabine erano piccole piccole, grandi abbastanza per due persone solo perché al lato sud dell’isola fa un freddo cane, e di nuovo dovetti tenermi molto stretta. Al mondo non esistono fiordi che possano competere con Milford Sound. Sì, ho fatto il giro dell’arcipelago Lofoten. Molto carino. Ma non cambierò idea. Se vi sembra che io nutra, per l’Isola del Sud, gli stessi pregiudizi di una madre per il suo primo figlio, be’, è semplicemente perché è vero. L’Isola del Nord è un posto bellissimo, con le sue stazioni termali e il mondo fantastico delle Caverne dei vermi luminosi. E la Baia delle Isole sembra il regno delle fate. Ma l’Isola del Nord non ha le Alpi del Sud, e non ha Christchurch. Douglas mi portò a visitare il loro caseificio, e vidi grandi vasche piene di uno stupendo burro che poi veniva impacchettato. Anita mi presentò alla Società dell’Altare. Cominciai a rendermi conto che forse, solo forse, mi invitavano a rendere definitiva la situazione. E scoprii di essere passata da Oddio-cosa-faccio-se-me-lo-chiedono a Oddio-cosa-faccio-se-non-me-lo-chiedono al più semplice Oddio-cosa-faccio? Vedete, non avevo mai detto a Douglas che non sono umana. Ho sentito umani vantarsi di saper identificare sui due piedi una persona artificiale. Assurdo. Ovviamente, chiunque sa distinguere una creatura sintetica vivente che non abbia aspetto umano; un uomo con quattro braccia, diciamo, o un coboldo. Ma se gli ingegneri genetici si sono volontariamente limitati all’aspetto umano (ed è questa la definizione tecnica di «persona artificiale», in contrapposizione a «creatura sintetica vivente»), nessun umano può scoprire la differenza; no, nemmeno un altro ingegnere genetico. Io sono immune al cancro e a molte altre malattie. Ma non porto un cartello che lo annuncia al pubblico. Ho riflessi insoliti. Ma non ne do spettacolo afferrando al volo una mosca fra pollice e indice. Non gareggio mai con altra gente in prove di destrezza. Ho una memoria insolita, una facilità innata e insolita nel comprendere numeri e rapporti spaziali, una propensione insolita per le lingue. Ma se voi pensate che questo significhi un quoziente intellettivo da genio, permettetemi di aggiungere che, nelle scuole che mi hanno educata, l’obiettivo di un test di Qi consiste nell’ottenere esattamente il punteggio prefissato, non nel fare sfoggio di intelligenza. In pubblico, nessuno mi scoprirà mai più intelligente di chi mi sta attorno, a meno che non si tratti di un’emergenza e non ci siano di mezzo la mia missione o il mio collo, o tutte e due le cose. L’insieme di queste e altre migliorie serve, stando a fonti attendibili, a migliorare le prestazioni sessuali; ma, fortunatamente, molti maschi sono inclini a considerare i miglioramenti in quest’area come semplici riflessi della loro eccellenza. (Considerata nell’ottica giusta, la vanità maschile è una virtù, non un vizio. Trattata nel modo giusto, rende il maschio molto più gradevole. L’aspetto di Boss che mi fa più infuriare è la sua totale mancanza di vanità. Quell’uomo non offre nessun appiglio!) Non avevo paura che mi scoprissero. Rimossi dal mio corpo tutti i codici di identificazione del laboratorio, anche il tatuaggio che avevo sul palato, nessuno poteva dire che io ero stata progettata a tavolino, che non ero nata dalla roulette biologica di un miliardo di spermatozoi in gara per un solo ovulo. Però si presumeva che una moglie appartenente a un gruppo-S desse il suo contributo allo sciame di marmocchi sul pavimento. Be’, perché no? Per diversi motivi. Io ero il corriere di un’organizzazione paramilitare. Immaginatemi un po’ mentre cerco di sistemare un assalitore con un pancione di otto mesi. Noi femmine Pa veniamo consegnate o messe in vendita in una condizione di sterilità reversibile. Per una persona artificiale, il desiderio di avere figli, di farli crescere nel proprio corpo, non è «naturale»; è ridicolo. La soluzione in vitro ci appare molto più ragionevole, e comoda e pulita, di quella in vivo. La prima volta che ho visto una donna incinta alle soglie del parto, ero alta quasi quanto lo sono oggi; e ho pensato che avesse una malattia mortale. Quando ho scoperto che cosa le succedeva, mi si è quasi rovesciato lo stomaco. Parecchio tempo dopo, ripensandoci a Christchurch, mi venivano ancora i brividi. Cristo santo, farlo come una gatta, con sangue e dolore? Perché? E poi, perché farlo? Anche se stiamo riempiendo il cielo, questo mondo scervellato è già troppo carico di persone; perché peggiorare le cose? Decisi, col massimo rimpianto, che avrei dovuto schivare lo scoglio del matrimonio raccontando che ero sterile: niente bambini. Abbastanza vero, anche se non del tutto. Non mi chiesero nulla. Almeno in fatto di figli. Nei giorni successivi, a piene mani, continuai a godermi al massimo la vita in famiglia, finché ne avevo una: il caldo piacere della chiacchierata fra donne, mentre lavavamo le tazze dopo il tè; il divertimento folle con bambini e cuccioli; il piacere calmo di parlare mentre ci occupavamo del giardino. Ogni minuto dei miei giorni, queste cose mi davano la sensazione di appartenere a qualcuno. Un mattino, Anita mi invitò in giardino. La ringraziai e le feci notare che dovevo dare una mano a Vickie. Dopo di che qualcuno prese il mio posto con Vickie, e io mi ritrovai seduta in fondo al giardino con Anita. I bambini erano stati scacciati in modo deciso. Anita disse: — Marjorie, tesoro… — A Christchurch sono Marjorie Baldwin, perché era quello il mio nome ufficiale quando conobbi Douglas a Quito. — Sappiamo tutte e due che è stato Douglas a invitarti qui. Sei felice con noi? — Terribilmente felice! — Abbastanza felice, secondo te, da voler rendere definitiva la cosa? — Sì, però… — Non ebbi mai la possibilità di dire sì-però-sono sterile. Anita mi interruppe decisa. — Forse è meglio che ti dica prima alcune cose, tesoro. Dobbiamo discutere della tua dote. Se lasciassi fare agli uomini, non si parlerebbe mai di soldi. Albert e Brian sono pazzi di te quanto Douglas, e io capisco benissimo. Però questo gruppo, oltre a essere una comunità matrimoniale, è anche un’azienda di famiglia, e qualcuno deve tenere d’occhio la contabilità… Ed è per questo che io sono presidente del consiglio di amministrazione e primo dirigente. Non mi lascio mai travolgere dai sentimenti al punto di trascurare gli affari. — Sorrise, e i suoi aghi per la maglia tintinnarono. — Chiedilo a Brian. Lui mi chiama Ebenezer l’Ebrea, però non si è mai offerto di assumersi queste rogne. «Puoi restare qui con noi come ospite finché vorrai. Cos’è una bocca in più da sfamare, a un tavolo lungo come il nostro? Nulla. Ma se vuoi unirti a noi formalmente e ufficialmente, devo trasformarmi in Ebenezer l’Ebrea e vedere che tipo di contratto possiamo preparare. Perché non permetterò il naufragio delle fortune della famiglia. Brian possiede tre quote con diritto di voto. Albert e io ne abbiamo due a testa, Douglas e Victoria e Lispeth una ciascuno, sempre con diritto di voto. Come puoi vedere, io ho solo due voti su dieci… ma per qualche anno ancora, se minacciassi di dimettermi, riceverei un robusto voto di fiducia. Un giorno o l’altro mi metteranno in minoranza, e allora potrò dimettermi e diventare Alice Seduta-davanti-al-Fuoco.» (E i tuoi funerali si svolgeranno la sera di quello stesso giorno!) — Per adesso, tiro avanti. Ogni bambino possiede una quota senza diritto di voto… e un bambino non arriva mai a votare perché la sua quota gli viene pagata il giorno in cui esce di casa, come dote o come capitale iniziale. O come puro e semplice spreco, anche se preferisco pensare di no. Queste riduzioni di capitale vanno pianificate. Se tre delle nostre ragazze si sposassero lo stesso anno, la situazione potrebbe diventare imbarazzante, se non l’avessimo prevista in anticipo. Le dissi che mi sembrava una soluzione molto sensata e colma d’affetto: non credevo che troppa gente pensasse con tanta cura al futuro dei figli. (In realtà, di cose del genere non sapevo niente.) — Cerchiamo di trattarli bene — convenne lei. — Dopo tutto, i figli sono lo scopo di una famiglia. Quindi sono certa che ti renderai conto che un adulto che si unisce al nostro gruppo deve acquistare una quota, se no il sistema non funzionerebbe. I matrimoni sono combinati in cielo, ma i conti vanno pagati qui in terra. — Amen. — (Era chiaro che i miei problemi erano risolti. In modo negativo. Non potevo stimare le ricchezze del gruppo familiare Davidson, ma di certo non dovevano essere poche, anche se vivevano senza servitù in una vecchia casa non automatizzata. Di qualunque cifra si trattasse, non ero in grado di comperare una quota.) — Douglas ci ha detto che non ha idea se tu abbia o meno soldi. Soldi a livello capitale, intendo. — Non ne ho. Lei non batté ciglio. — Non li avevo nemmeno io, alla tua età. Tu hai un impiego, giusto? Non potresti lavorare a Christchurch e acquistarti la quota con lo stipendio? Lo so che trovare lavoro in una città che non è la tua può essere un problema… Ma io ho qualche conoscenza. Qual è la tua professione? Non ce l’hai mai detto. (E non lo dirò!) Dopo essere stata evasiva e dopo averle detto brutalmente che il mio lavoro era confidenziale e che mi rifiutavo di discutere a qualunque titolo le attività del mio datore di lavoro e che no, non potevo licenziarmi e cercare un impiego a Christchurch, per cui proprio non poteva funzionare anche se era stato meraviglioso finché era durato e speravo che… Dopo tutto questo, lei mi interruppe. — Tesoro, non ho ricevuto il mandato di negoziare questo contratto con l’obiettivo di fallire. Che non si possa fare non lo accetto. Io devo scoprire come si possa fare. Brian si è offerto di darti una delle sue tre quote… e Douglas e Albert gli danno man forte, prorata, anche se non sono in grado di pagarlo immediatamente. Ma io ho opposto un veto a questo progetto. È un pessimo precedente e l’ho messo in chiaro, servendomi di una vecchia espressione contadina molto volgare sui montoni in primavera. Comunque accetterò una delle quote di Brian come garanzia per il tuo impegno a tenere fede al contratto. — Ma io non ho un contratto! — Lo avrai. Se continui col tuo lavoro attuale, quanto puoi versare ogni mese? Non dissanguarti, però cerca di pagare il più in fretta possibile, perché il meccanismo è lo stesso di un mutuo. Una parte di ogni rata è l’interesse sul debito che resta, un’altra parte serve a ridurre l’entità del debito. Quindi più paghi e meglio è per te. (Io non avevo mai comprato una casa.) — Non potremmo tradurre in oro? Ovviamente posso convertirlo in moneta, ma io sono pagata in oro. — In oro? — Anita si risvegliò di colpo. Infilò la mano nella borsa della maglia e tirò fuori un terminale portatile per il suo computer. — Per l’oro posso offrirti condizioni migliori. — Batté un po’ sulla tastiera, aspettò e annuì. — Notevolmente migliori. Anche se non sono attrezzata per trattare in lingotti. Ma qualcosa si può combinare. — Te l’ho detto, posso convenire in moneta. La Ceres & South Africa Acceptances, Limited, di Luna City mi accredita l’oro in grammi a diciotto carati. Ma possono pagarmi direttamente qui, in denaro della Nuova Zelanda, con un accredito automatico in banca anche quando non mi trovo su Terra. Va bene la Banca della Nuova Zelanda, filiale di Christchurch? — Facciamo la Canterbury Land Bank. Sono uno dei dirigenti. — Perfetto. Teniamo tutto in famiglia. Il giorno dopo firmammo il contratto e quella stessa settimana, più avanti, mi sposarono: tutto legale e fatto per bene, in una cappella della cattedrale, con la sottoscritta in bianco, numi del cielo! La settimana seguente tornai al lavoro, triste e dolcemente felice al tempo stesso. Per diciassette anni avrei pagato 858,13 dollari neozelandesi al mese; volendo, potevo pagare più in fretta. Per cosa? Prima di aver saldato il debito non potevo vivere a casa mia, perché dovevo continuare a lavorare per provvedere ai versamenti mensili. Per cosa, allora? Non per il sesso. Come ho detto al capitano Tormey, il sesso si trova dappertutto; sarebbe stupido pagarlo. Per il privilegio di infilare le mani in acqua e detersivo e lavare i piatti, immagino. Per il privilegio di rotolarmi sul pavimento e farmi fare la pipì addosso da bambini e cuccioli solo teoricamente capaci di vivere in modo civile in una casa. Per la calda consapevolezza che, ovunque mi trovassi, esisteva sempre un posto al mondo dove avevo il diritto di fare quelle cose, perché appartenevo a quel posto. A me sembrava un ottimo affare. Non appena lo shuttle si alzò in volo, telefonai, beccai Vickie; e quando lei smise di strillare, le comunicai l’ora d’arrivo. Avevo intenzione di chiamare dall’atrio della Kiwi Lines, nel porto di Auckland, ma il mio lupo riccioluto, il capitano Ian si era divorato il mio tempo. Faceva lo stesso. Lo shuttle vola quasi alla velocità del suono, ma una sosta a Wellington e una sosta a Nelson richiedono parecchio, per cui qualcuno sarebbe riuscito a venirmi a prendere. Così speravo. Vennero tutti a prendermi. Be’, non proprio tutti. Noi abbiamo il permesso di tenere un Vma perché alleviamo pecore e bovini e ci occorre un veicolo a motore. Però non potremmo usarlo in città. Brian se ne infischiò, e una mandria della nostra grande famiglia uscì dalle portiere del carro antiG della nostra fattoria. Era passato quasi un anno dalla mia ultima visita lì, più del doppio di ogni periodo precedente. Molto male. In un intervallo del genere, i bambini possono crescere e diventare estranei. Feci un’attenzione estrema ai nomi, li controllai uno per uno mentalmente. Tutti presenti tranne Ellen, che non era certo una bambina: aveva undici anni quando il gruppo mi aveva sposata e adesso era una giovane signora che frequentava l’università. Anita e Lispeth erano rimaste a casa, a preparare in fretta e furia la festa di benvenuto… E di nuovo mi avrebbero dolcemente rimproverata per non aver avvertito prima e di nuovo io avrei cercato di spiegare che nel mio lavoro, non appena si presentava un’occasione di ferie, era meglio prendere il primo Sb disponibile che cercare di telefonare. Per caso dovevo fissare un appuntamento per tornare a casa mia? Poco dopo ero rovesciata sul pavimento, circondata da bambini. Signor Sottoipiedi, giovane e arzillo il giorno che lo avevo conosciuto, aspettò il momento buono per salutarmi con la dignità che si confaceva al suo status di gatto anziano, grasso e lento. Mi scrutò con cura, si strusciò contro di me, e cominciò a ronfare. Ero a casa. Dopo un po’ chiesi: — Dov’è Ellen? Ancora ad Auckland? Credevo che l’università fosse chiusa per le vacanze. — Lo dissi guardando Anita in faccia, ma lei parve non sentirmi. Stava diventando dura d’orecchi? No, impossibile. — Marjie… — La voce di Brian. Mi guardai attorno: non parlava, e il suo viso era privo di espressione. Si limitò a scuotere leggermente la testa. (Ellen un argomento tabù? Che storia c’è sotto, Brian? Rimandai la cosa al momento in cui avrei potuto parlargli in privato, Anita ha sempre sostenuto di amare nello stesso modo tutti i nostri bambini, siano o meno figli suoi. Oh, sicuro! A parte il fatto che il suo interesse particolare per Ellen è sempre stato chiaro a chiunque le viva accanto.) Quella sera, più tardi, mentre la casa si preparava al sonno e Bertie e io stavamo per andare a letto (grazie alla Lotteria inventata dai nostri scherzosi tesorucci: chi perde deve passare la notte con me), Brian, bussò alla porta ed entrò. Bertie disse: — Tutto a posto. Puoi andartene. Sopporterò la punizione. — Piantala, Bert. Hai parlato di Ellen a Marj? — Non ancora. — Allora informala. Amore, Ellen si è sposata senza la benedizione di Anita, e Anita è furibonda. Quindi è meglio non parlare di Ellen se c’è in giro Anita. Un po’ di politica, eh? Adesso devo scappare prima che si accorga che non ci sono. — Non ti è permesso venirmi a dare il bacio della buonanotte? O fermarti qui, se vuoi? Non sei anche mio marito? — Sì, certo amore. Ma in questo periodo Anita è al massimo del nervosismo, ed è inutile irritarla ancora di più. Brian ci diede il bacio della buonanotte e uscì. Io dissi: — Cos’è questa faccenda, Bertie? Perché mai Ellen non dovrebbe sposare chi vuole sposare? Ormai ha l’età per decidere da sola. — Be’, sì. Ma in questo caso non ha avuto la mano felice. Ha sposato un tongano ed è andata a vivere a Nukualofa. — Anita pensa che dovrebbe vivere qui? A Christchurch? — Eh? No, no! È il matrimonio che non le va. — Quest’uomo ha dei difetti particolari? — Marjorie, non mi hai sentito? È un tongano. — Sì, ho sentito. Se vive a Nukualofa, è logico che lo sia. Ellen soffrirà un caldo del diavolo, dopo essere cresciuta in uno dei pochi climi perfetti. Ma è un problema suo. Continuo a non vedere perché Anita sia sconvolta. Deve esserci sotto qualcosa che non so. — No, lo sai! Cioè, forse no. I tongani non sono come noi. Non sono bianchi. Sono barbari. — Oh, no! — Mi rizzai a sedere sul letto, mettendo fine a qualcosa che non era iniziato. Sesso e discussioni non vanno d’accordo. Non per me, comunque. — Sono il popolo più civile di tutta la Polinesia. Secondo te, perché mai i primi esploratori avrebbero battezzato l’arcipelago Isole degli Amici? Ci sei mai stato, Bertie? — No, però… — Io sì. A parte il caldo, è un posto paradisiaco. Vedrai. Quest’uomo… Cosa fa? Se se ne sta a scolpire mogano per i turisti potrei capire l’irritazione di Anita. È così? — No. Ma dubito che possa permettersi una moglie. Ed Ellen non può permettersi un marito. Non si è laureata. Lui è un biologo marino. — Vedo. Non è ricco… e Anita rispetta i soldi. Però non sarà nemmeno povero. Probabilmente finirà professore a Sydney o Auckland. Per quanto, al giorno d’oggi un biologo potrebbe anche diventare ricco. Potrebbe ideare una nuova pianta o un nuovo animale che lo rendano favolosamente ricco. — Amore, continui a non capire. — Infatti. Allora spiegami. — Be’… Ellen avrebbe dovuto sposare qualcuno della sua stessa razza. — Questo cosa significa, Albert? Qualcuno che viva a Christchurch? — Sarebbe meglio. — Ricco? — Non è indispensabile. Anche se in genere le cose vanno più lisce quando i soldi non arrivano da una sola parte. Il ragazzo da spiaggia polinesiano che sposa un’ereditiera bianca puzza sempre. — Ah, ah! Lui è senza un soldo e lei ha appena ricevuto la sua quota di famiglia, giusto? — No, non esattamente. Accidenti a lei, non poteva sposare un bianco? Non l’abbiamo allevata per una fine del genere. — Bertie, ma che diavolo hai? Mi sembri un danese che parla di uno svedese. Credevo che la Nuova Zelanda fosse libera da idee simili. Brian, lo ricordo benissimo, una volta mi ha fatto notare che i maori sono pari agli inglesi a livello politico e sociale da ogni punto di vista. — E lo sono. Non è la stessa cosa. — Si vede che sarò stupida. — (Oppure era stupido Bertie? I maori sono polinesiani, come i tongani; dove sta il problema?) Lasciai cadere l’argomento. Non mi ero fatta tutta la strada da Winnipeg per discutere i meriti di un genero mai visto. «Genero…» che strana idea. Mi aveva sempre deliziato sentirmi chiamare mamma, invece di Marjie, da uno dei piccoli; ma non mi era mai passata per la testa l’idea di poter avere un genero. Eppure, per la legge ennezeta, era davvero mio genero; e io non sapevo nemmeno come si chiamasse! Mi calmai, cercai di svuotare la mente, mentre Bertie si industriava a darmi il benvenuto. È bravo, in quello. Pochi minuti dopo, anch’io ero tutta presa a dimostrargli quanto fossi contenta di essere a casa, e la sgradevole interruzione era stata dimenticata. 7 Il mattino dopo, prima di scendere dal letto, decisi di non affrontare la questione di Ellen e suo marito ma di aspettare che cominciasse a parlarne qualcun altro. Dopo tutto, non ero in condizione di avere opinioni; non conoscevo l’intera vicenda. Non l’avrei lasciata cadere: Ellen è anche mia figlia. Ma non corriamo. Aspettiamo che Anita si calmi. Però l’argomento non venne a galla. Seguirono giorni pigri, dorati, che non descriverò. Non credo vi interessino le feste di compleanno o i picnic di famiglia: preziosi per me, noiosi per un estraneo. Vickie e io andammo ad Auckland per un paio di giorni di compere. Dopo esserci sistemate al Tasman Palace, Vickie mi disse: — Marj, sapresti mantenere un segreto? — Sicuro — risposi. — Spero sia qualcosa di succoso. Un amichetto? Due amichetti? — Se avessi anche un solo amico lo dividerei con te. No, è una cosa delicata. Voglio parlare con Ellen e non voglio avere una discussione con Anita. Questa è la prima possibilità che mi capita. Dimenticherai che l’ho fatto? — Assolutamente no, perché voglio parlarle anch’io. Ma non dirò ad Anita che hai parlato con Ellen, se non vuoi. Cos’è questa storia, Vick? Che Anita fosse irritata per il matrimonio di Ellen lo sapevo, ma si aspetta che tutti noi non parliamo nemmeno con Ellen? Con nostra figlia? — Temo che al momento sia solo sua figlia. Non sta prendendo la cosa in modo molto razionale. — Così pare. Be’, io non permetterò ad Anita di tagliare i miei ponti con Ellen. L’avrei chiamata anche prima, ma non sapevo dove rintracciarla. — Te lo dico io. La chiamo subito e tu puoi scriverti il numero. È… — Ferma! — la interruppi. — Non toccare quel terminale. Non vuoi che Anita lo sappia, no? — Te l’ho detto. È per questo che chiamo da qui. — E la chiamata sarà inclusa nel conto dell’hotel che tu pagherai con la carta di credito Davidson e… Anita controlla sempre tutti i conti di casa? — Sì. Oh, Marj, come sono stupida. — No, sei onesta. Anita non farà questioni per la spesa, ma noterà senz’altro un codice o uno stampato che indichino una chiamata oltremare. Andremo all’ufficio postale e telefoneremo da lì. Pagheremo in contanti. O forse è più facile usare la mia carta di credito. I miei conti non arrivano ad Anita. — Logico! Marj, saresti un’ottima spia. — Non io. È pericoloso. Ho fatto pratica imbrogliando mia madre. Rimbocchiamoci le maniche e facciamo un salto all’ufficio postale. Vickie, cos’è tutta questa faccenda del marito di Ellen? Ha due teste o cosa? — È un tongano. O lo sapevi già? — Certo che lo sapevo. Ma tongano non è una malattia. E la cosa riguarda solo Ellen. È un suo problema, se è un problema. Io non vedo come possa esserlo. — Anita ha reagito male. A cose fatte, l’unica tattica possibile è fare buon viso. Ma un matrimonio misto è sempre sfortunato, secondo me, specialmente se è la ragazza che sposa uno di livello inferiore come nel caso di Ellen. — Uno di livello inferiore! A me è stato detto solo che è un tongano. I tongani sono alti, belli, ospitali e con una carnagione castana più o meno come la mia. Esteriormente sono identici ai maori. Se questo giovanotto fosse stato maori… di buona famiglia, discendente di un’antica canoa… con un sacco di terra? — Sinceramente non credo che ad Anita avrebbe fatto piacere, Marj, però sarebbe andata al matrimonio e avrebbe dato il ricevimento. I matrimoni misti con maori hanno una lunga serie di precedenti. Bisogna accettarli. Ma non è detto che debbano piacere. Mischiare le razze è sempre una cattiva idea. (Vickie, Vickie, conosci un’idea migliore per salvare il mondo dal disastro in cui è finito?) — Davvero? Vickie, la mia abbronzatura perenne… Lo sai da dove viene? — Sicuro. Ce lo hai detto tu. Indiani d’America. Cherokee, hai detto. Marj! Ho ferito i tuoi sentimenti? Tesoro! Non è affatto come pensi! Lo sanno tutti che gli indiani d’America sono… Be’, identici ai bianchi. Altrettanto a posto. (Oh, certo, certo! E «Alcuni dei miei migliori amici sono ebrei». Però io non sono cherokee, per quanto ne so. Cara piccola Vickie, cosa penseresti se ti dicessi che sono una Pa? Sono tentata… ma non devo scioccarti.) — No, perché ho riflettuto sulla fonte. Tu non hai cognizione di causa. Non sei mai stata da nessuna parte e probabilmente hai succhiato il razzismo nel latte di tua madre. Vickie si imporporò. — Questo non è giusto! Marj, quando si è deciso se accettarti in famiglia, io sono stata dalla tua parte. Ho votato per te. — Avevo l’impressione che lo avessero fatto tutti. Se no non avrei accettato. Mi stai dicendo che il mio sangue cherokee è stato uno degli argomenti di discussione? — Be’, se ne è accennato. — Chi ne ha accennato, e a che scopo? — Uh… Marjie, quelle sono riunioni esecutive. Devono esserlo. Non possa parlarne. — Mmm. Capisco il tuo punto. C’è stata una riunione esecutiva per Ellen? Se è così, dovresti essere libera di parlarmene, visto che avrei avuto il diritto di partecipare e votare. — Non c’è stata nessuna riunione. Anita ha detto che non era necessaria. Ha detto che è contraria a incoraggiare i cacciatori di dote. Siccome aveva già detto a Ellen che non poteva portare Tom a conoscere la famiglia, non c’era niente da fare. — Nessuno di voi ha preso le difese di Ellen? Tu lo hai fatto, Vickie? Vickie arrossì un’altra volta. — Avrei solo fatto infuriare Anita. — Sto cominciando a incuriosirmi. Stando al codice familiare, Ellen è figlia tua e mia quanto è figlia di Anita, e Anita sbaglia nel rifiutare a Ellen il permesso di portare in casa il suo nuovo marito senza consultare gli altri. — Marj, non è andata così. Ellen voleva portare Tom a casa in visita. Una visita d’ispezione. Sai com’è. — Oh, sì. Lo so benissimo. Sono stata sotto il microscopio anch’io. — Anita voleva impedire a Ellen di fare un matrimonio sbagliato. Dopo di che, la prima cosa che tutti noi abbiamo saputo è stata che Ellen si era sposata. A quanto sembra, Ellen è corsa a sposarsi un minuto dopo aver ricevuto la lettera di Anita che le diceva di non farlo. — Mi venga un colpo! Comincio a vedere la luce. Ellen ha preso in contropiede Anita sposandosi di colpo, il che significa che Anita doveva pagare in contanti una somma pari a una quota della società familiare senza preavviso. Poteva essere difficile. Non sono pochi spiccioli. A me stanno occorrendo anni e anni per comperare la mia quota. — No, non è questo. Anita è semplicemente arrabbiata perché sua figlia, la sua preferita, lo sappiamo tutti, ha sposato un uomo che lei non approva. Anita non ha dovuto racimolare tutti quei soldi perché non era necessario. Nessuna clausola del contratto obbliga a rimborsare la quota… E Anita ha fatto presente che non esisteva l’obbligo morale di salassare il capitale di famiglia per fare un favore a un avventuriero. Mi sentii invadere da un’ira fredda. — Vickie, non riesco a credere alle mie orecchie. Che razza di vermi senza spina dorsale siete, per permettere che Ellen venga trattata in questo modo? — Inspirai a fondo, cercai di controllare la mia furia. — Non vi capisco. Non capisco nessuno di voi. Ma proverò a dare il buon esempio. Quando torneremo a casa farò due cose. In primo luogo mi metterò al terminale con tutti i presenti e chiamerò Ellen e inviterò lei e il marito a venirci a trovare. Per il prossimo weekend, perché devo riprendere il lavoro e non voglio perdere l’occasione di incontrare il mio nuovo genero. — Anita avrà un collasso circolatorio. — Vedremo. Poi convocherò una riunione di famiglia e proporrò che a Ellen venga pagata la sua quota con tutta la fretta possibile, naturalmente senza dover andare in rovina. — Aggiunsi: — Immagino che Anita si infurierà di nuovo. — Probabilmente. E senza scopo, perché la tua proposta sarà respinta. Marj, perché devi farlo? Le cose vanno già abbastanza male. — Può darsi. Ma è possibile che qualcuno di voi stia aspettando che qualcun altro prenda l’iniziativa per rovesciare la tirannia di Anita. Se non altro vedrò come andranno le votazioni. Vick, io ho firmato un contratto e ho già pagato più di settantamila dollari ennezeta alla famiglia, e mi è stato detto che il motivo per cui devo comperarmi il diritto al matrimonio è che a ognuno dei nostri figli verrà pagata la sua quota quando se ne andrà di casa. Non ho protestato: ho firmato. Ma in tutto questo è implicito un accordo, qualunque cosa ne dica Anita. Se è impossibile pagare Ellen oggi, insisterò perché i miei versamenti mensili vadano a Ellen finché Anita non troverà i fondi per il saldo definitivo. Questa proposta ti sembra equa? Lei prese tempo per rispondere. — Marj, non so. Non ho avuto tempo di pensarci. — Be’, allora trovalo. Perché, diciamo entro mercoledì, dovrai decidere se stare al gioco o ritirarti. Non permetterò che Ellen continui a subire queste ingiustizie. — Sorrisi e aggiunsi: — Ridi! Andiamo all’ufficio postale e cerchiamo di essere allegre per Ellen. Ma non andammo in posta; in quel viaggio non chiamammo mai Ellen. Continuammo invece a cenare e a discutere. Non so di preciso come sia saltato fuori l’argomento delle persone artificiali. Credo sia stato l’ennesima volta che Vickie cercò di «dimostrare» di essere perfettamente libera da pregiudizi razziali, mentre non faceva altro che esibire lo stesso atteggiamento irrazionale appena apriva bocca. I maori andavano benissimo e ovviamente anche gli indiani d’America, e come no anche gli indiani d’India, e senza dubbio i cinesi avevano prodotto il loro buon numero di geni; questo lo sapevano tutti, ma bisognava pur tracciare una linea di confine da qualche parte… Eravamo andate a letto e stavo cercando di escludere il suo cicaleccio quando qualcosa mi colpì. Mi misi a sedere. — Come faresti a saperlo? — Come farei a sapere cosa? — Hai detto: «È ovvio che nessuno sposerebbe una creatura sintetica». Come faresti a sapere che una persona è sintetica? Non tutte hanno i numeri di serie. — Eh? Andiamo, Marjie, non fare la stupida. Non si può scambiare una persona artificiale per un essere umano. Se tu ne avessi mai visto uno… — Ne ho visto uno. Ne ho visti molti! — Allora lo sai. — So cosa? — Che basta guardare uno di quei mostri per capire cos’è. — In che modo? Quali sono le stimmate che differenziano una persona artificiale da un’altra? Citamene una! — Marjorie, stai facendo un sacco di problemi solo per il gusto di irritarmi! Non è da te, tesoro. Stai trasformando la nostra vacanza in qualcosa di sgradevole. — Non io, Vick. Tu. Dici cose stupide, idiote e antipatiche senza il minimo argomento per sostenerle. — (E questa mia risposta dimostra che una persona super non è un superuomo, perché è esattamente il tipo di frase troppo vera e troppo crudele per usarla in una discussione familiare.) — Oh! Sei orribile! È completamente falso! Ciò che feci allora non può essere attribuito a un senso di solidarietà per le altre persone artificiali, perché le Pa non sentono la solidarietà di gruppo. Non esistono le basi. Ho sentito dire che i francesi sono pronti a morire per la belle France; ma potete immaginarvi qualcuno che combatte e muore per la Homunculi Unlimited, filiale Jersey sud? Immagino di averlo fatto esclusivamente per me, come tante delle decisioni più critiche della mia vita. Non sono mai riuscita ad analizzare il perché di quel gesto. Boss dice che io elaboro tutti i miei pensieri più importanti a livello inconscio. Forse ha ragione. Scesi dal letto, mi tolsi la camicia da notte, mi misi davanti a lei. — Guardami — ordinai. — Sono una persona artificiale? O no? In un caso o nell’altro, da cosa lo capisci? — Marjie, piantala di dare spettacolo! Lo sanno tutti che in famiglia hai il corpo più bello. Non hai bisogno di dimostrarlo. — Rispondimi! Dimmi cosa sono e dimmi come lo sai. Usa i test che preferisci. Prendi campioni per analisi di laboratorio. Ma dimmi cosa sono e quali segni lo indicano. — Sei una ragazza cattiva, ecco cosa sei. — Forse. Probabile. Ma di che tipo? Naturale? O artificiale? — Gesù! Naturale, è ovvio. — Sbagliato. Sono artificiale. — Oh, piantala di fare la cretina! Rimettiti la camicia da notte e torna a letto. Invece continuai a incalzarla. Le raccontai quale laboratorio mi aveva progettata, la data in cui mi avevano tolta dall’utero sintetico (il giorno della mia «nascita», anche se noi Pa veniamo lasciate in «cottura» un po’ più a lungo per accelerare la maturazione); la costrinsi ad ascoltare la descrizione della vita nell’asilo di un laboratorio di produzione. (Mi correggo: la vita nell’asilo dove sono cresciuta io; altri asili di laboratorio potrebbero essere diversi.) Le diedi un riassunto della mia vita dopo aver lasciato il laboratorio; quasi tutte bugie, perché non potevo compromettere i segreti di Boss. Ripetei semplicemente ciò che avevo detto tanto tempo prima alla famiglia, che ero una specie di commessa viaggiatrice confidenziale. Non c’era bisogno di accennare a Boss perché Anita aveva deciso, anni addietro, che io lavoravo per una multinazionale, che ero una diplomatica che viaggia sempre in incognito; un errore comprensibile che ero stata lieta di incoraggiare badando bene a non negare. Vickie disse: — Marjie, preferirei che non lo facessi. Una sfilza di bugie come questa potrebbe mettere in pericolo la tua anima. — Io non ho anima. È questo che ti sto dicendo. — Oh, smettila! Tu sei nata a Seattle. Tuo padre era un ingegnere elettronico, tua madre una pediatra. Li hai persi nel terremoto. Ci hai raccontato tutto di loro. Ci hai fatto vedere le foto. — Mia madre era una provetta; mio padre un bisturi. Vickie, potrebbero esistere un milione o più di persone artificiali i cui certificati di nascita sono andati distrutti nella distruzione di Seattle. Impossibile contarli. Nessuno mette mai in un unico mazzo le loro bugie. Dopo quello che è successo questo mese, cominceranno a esserci un’infinità di persone come me nate ad Acapulco. Dobbiamo trovare appigli del genere per non essere perseguitati da gente ignorante e piena di pregiudizi. — Il che significa che io sono ignorante e piena di pregiudizi! — Significa che sei una dolce ragazza che è stata drogata di menzogne dai suoi genitori. Sto cercando di correggere l’errore. Ma se trovi che queste scarpe ti vanno comode, continua a portarle. Chiusi il becco. Vickie non mi diede il bacio della buonanotte. Il sonno fu lento ad arrivare, per tutt’e due. Il giorno dopo, facemmo finta che la discussione non ci fosse mai stata. Vickie non parlò di Ellen; io non parlai di persone artificiali. Ma quella che era iniziata come un’allegra spedizione si guastò. Finimmo le compere e ripartimmo verso casa con lo shuttle della sera. Non feci ciò che avevo minacciato; non chiamai Ellen appena arrivata a casa. Non mi ero scordata di Ellen; speravo semplicemente che aspettare un po’ avrebbe migliorato la situazione. Un gesto vigliacco, immagino. All’inizio della settimana seguente, Brian mi invitò ad andare con lui a ispezionare un terreno per un cliente. Fu un viaggio lungo, piacevole. Consumammo il pasto a un hotel in campagna: una fricassea di presunto capretto, anche se quasi certamente era montone, innaffiata da ettolitri di birra leggera. Mangiammo sotto gli alberi. Dopo il dolce (un’ottima torta di mirtilli) Brian disse: — Marjorie, Victoria mi ha raccontato una storia molto strana. — Sì? E cosa? — Amore, credimi, non te ne parlerei se Vickie non fosse così sconvolta. — Si fermò. Io aspettai. — Sconvolta da cosa, Brian? — Dice che tu le hai raccontato di essere una creatura sintetica che si finge un essere umano. Mi spiace, ma ha detto proprio questo. — Sì, gliel’ho detto io. Non con queste parole. Non aggiunsi spiegazioni. Dopo un po’, Brian disse dolcemente: — Posso chiederti perché? — Brian, Vickie stava dicendo cose molto stupide sui tongani e io cercavo di farle capire che erano stupide e sbagliate, che stava facendo un torto a Ellen. Sono molto preoccupata per Ellen. Mi avete chiuso la bocca sull’argomento da che sono tornata a casa, e io sono rimasta buona, ma non potrò continuare a lungo. Brian, cosa facciamo per Ellen? È figlia tua, figlia mia. Non possiamo ignorare i torti che sta subendo. Cosa dobbiamo fare? — Non sono necessariamente dell’opinione che si debba fare qualche cosa, Marjorie. Ti prego, non cambiare discorso. Vickie è terribilmente a terra. Io voglio solo chiarire l’equivoco. Gli risposi: — Non ho cambiato discorso. Le ingiustizie nei confronti di Ellen sono il discorso, e non lo lascerò cadere. C’è qualcosa che renda inaccettabile il marito di Ellen? A parte i pregiudizi nei suoi confronti perché è tongano? — Che io sappia no. Anche se a mio giudizio Ellen ha sbagliato a sposare un uomo che non era nemmeno stato presentato alla sua famiglia. Mi sembra una mancanza di rispetto per le persone che l’hanno cresciuta e amata per tutta la sua vita. — Aspetta un momento, Brian. Stando a Vickie, Ellen ha chiesto di portarlo a casa per un’ispezione, come Douglas ha portato me, e Anita le ha rifiutato il permesso. Dopo di che Ellen lo ha sposato. Vero? — Be’, sì. Ma Ellen si è dimostrata testarda e frettolosa. Non credo avrebbe dovuto fare quello che ha fatto senza parlare coi suoi altri genitori. Io mi sono sentito profondamente ferito. — Ha cercato di parlare con te? E tu hai tentato di parlarle? — Marjorie, io lo sono venuto a sapere a cose fatte. — Così mi dicono. Brian, è da quando sono tornata a casa che spero che qualcuno mi racconti cosa è successo. Stando a Vickie, niente di questa faccenda è mai stato deciso in un consiglio di famiglia. Anita ha rifiutato a Ellen il permesso di portare a casa l’uomo che amava. Gli altri genitori di Ellen o non sapevano o non hanno interferito con la… crudeltà di Anita. Sì, crudeltà. Poi la piccola si è sposata. E poi Anita ha aggiunto alla sua crudeltà iniziale una grave ingiustizia. Ha rifiutato a Ellen ciò che le spetta per diritto di nascita, la sua parte delle ricchezze di famiglia. È tutto vero? — Marjorie, tu non c’eri. Il resto di noi, sei su sette, hanno agito nel modo migliore in una situazione difficile. Non mi sembra giusto che tu spunti a posteriori e critichi quello che abbiamo fatto. Parola mia, non mi sembra affatto giusto. — Amore, non volevo offenderti. Ma il punto è che sei di voi hanno fatto niente. Anita, da sola, ha fatto cose che mi appaiono crudeli e ingiuste, e voialtri vi siete tirati in disparte e le avete lasciato mano libera. Niente decisioni di famiglia. Solo decisioni di Anita. Se questo è vero, Brian, e correggimi se sbaglio, mi sento obbligata a chiedere una riunione esecutiva di tutti i mariti e le mogli per correggere la crudeltà invitando Ellen e suo marito a trovarci, e per correggere l’ingiustizia pagando a Ellen la sua giusta quota del capitale familiare, o per lo meno ammettendo l’esistenza del debito se non è possibile liquidarlo subito. Vuoi dirmi la tua opinione in merito? Brian tamburellò le dita sul tavolo. — Marjorie, il tuo è un modo semplicistico di vedere una situazione complessa. Ammetti che amo Ellen e che il suo benessere mi sta a cuore quanto a te? — Certo, amore. — Grazie. Convengo con te che Anita non avrebbe mai dovuto proibire a Ellen di portare in casa il suo giovanotto. Anzi, se Ellen lo avesse visto nell’ambiente della propria casa, con la sua gentilezza e le sue tradizioni, forse avrebbe deciso che l’uomo non faceva per lei. Anita ha costretto Ellen a un matrimonio stupido, e gliel’ho detto. Ma non si può rimediare immediatamente alla situazione invitandoli qui. Lo vedi da te. Ammettiamo pure che Anita dovrebbe accoglierli calorosamente e amorevolmente… ma è vero come Dio che non lo farà, se si trova la loro presenza infilata a forza in gola. Mi sorrise, e io fui costretta a rispondergli con un sorriso. Anita sa essere affascinante; e incredibilmente fredda e scortese, se le fa comodo. Brian continuò: — Invece, fra un paio di settimane avrò un buon motivo per fare un viaggio a Tonga, il che mi permetterà di studiare a fondo la situazione senza Anita alle costole… — Perfetto! Ci porti anche me? Per favore? — Darebbe fastidio ad Anita. — Brian, Anita mi ha molto più che infastidita. Non sarà questo che mi impedirà di andare a trovare Ellen. — Mmm… Eviteresti di fare qualcosa che possa danneggiare il benessere di tutti noi? — Se me lo facessero presente, sì. Però potrei chiedere spiegazioni. — Le avrai. Ma permettimi di passare al tuo secondo punto. È ovvio che Ellen avrà ogni centesimo che le spetta. Ma mi concederai che non c’è nessuna urgenza di pagarla. I matrimoni combinati in fretta spesso non durano molto. E, anche se non ho alcuna prova, è del tutto possibile che Ellen sia stata raggirata da un cacciatore di dote. Aspettiamo un po’ e vediamo se questo ragazzo è ansioso di mettere le mani sui suoi soldi. Non è prudente? Dovetti ammetterlo. Lui continuò: — Marjorie, amore, tu sei particolarmente cara a me e a tutti noi perché ti vediamo troppo poco. Ogni volta che torni a casa per tutti noi è come una nuova luna di miele. Ma tu sei quasi sempre via, e quindi non sai perché stiamo sempre così attenti a tenere calma Anita. — Be’, no, non lo so. Ma la cosa dovrebbe essere reciproca. — Occupandomi di legge e di persone ho scoperto un’enorme differenza fra il dovrebbe e l’è. Io sto con Anita da più tempo di tutti gli altri. Ho imparato ad accettare certi suoi modi. Quello che forse tu non capisci è che è lei la colla che tiene unita la famiglia. — In che modo, Brian? — C’è l’ovvia questione del suo ruolo di custode. Come manager delle finanze e degli affari di famiglia è praticamente insostituibile. Forse potrebbe farlo qualcun altro di noi, ma è certo che nessuno vuole quel lavoro, e personalmente ho il forte sospetto che nessuno di noi potrebbe raggiungere la sua competenza. Invece Anita è un dirigente forte, capace, anche al di là del denaro. Si tratti di interrompere un litigio fra i bambini o di prendere una delle mille decisioni che si presentano di continuo in una grande famiglia, Anita sa sempre cosa fare per impedire che tutto si fermi. Una famiglia di gruppo come la nostra deve avere un leader forte, capace. (Un tiranno forte e capace, borbottai sottovoce.) — Quindi, cara Marjie, puoi aspettare un po’ e dare al vecchio Brian il tempo di sistemare le cose? Sei convinta che amo Ellen quanto te? Gli battei sulla mano. — Certo, tesoro. — (Ma non metterci un’eternità!) — Va bene. Appena torniamo a casa, vai a cercare Vickie e dille che scherzavi, che ti spiace di averla sconvolta. Ti prego, amore. (Bum! Mi ero talmente persa a pensare a Ellen che avevo scordato da cosa fosse partita la conversazione.) — Aspetta un attimo, Brian. Io resterò calma ed eviterò di irritare Anita, se mi dici che non è necessario. Ma non farò da balia ai pregiudizi razziali di Vickie. — Non si tratta di questo. Nella nostra famiglia, non tutti la pensano allo stesso modo su queste cose. Io sono d’accordo con te, e scoprirai che lo è anche Liz. Vickie è un po’ sulla linea di confine. Vorrebbe trovare qualunque scusa per riportare Ellen in famiglia, e adesso che le ho parlato è pronta ad ammettere che i tongani sono esattamente come i maori, e che quella che va giudicata è la persona in sé. Ma è il tuo strano show personale che l’ha sconvolta. — Oh. Brian, una volta mi hai detto che ti eri quasi laureato in biologia, prima di passare a legge. — Sì. Ma forse quasi è un po’ troppo. — Allora sai che una persona artificiale è biologicamente identica a un normale essere umano. La mancanza dell’anima non risulta dai test. — Eh? Io sono solo un parrocchiano, amore. L’anima è una questione che riguarda i teologi. Ma senz’altro non è difficile individuare una creatura sintetica. — Non ho parlato di creature sintetiche. In questa definizione sono compresi anche i cani parlanti come Lord Nelson. Le persone artificiali sono strettamente limitate a forma e aspetto umani. Quindi, come puoi individuarle? Era questa la stupidaggine che Vickie diceva. Sosteneva di poterle sempre individuare. Prendi me, per esempio. Brian, tu conosci il mio corpo in modo piuttosto completo, e sono lieta di dirlo. Sono un normale essere umano? O una persona artificiale? Brian sorrise e si leccò le labbra. — Mia deliziosa Marjie, sono pronto a testimoniare davanti a qualunque tribunale che tu sei umana al novanta per cento… a parte i punti dove sei angelica. Devo specificare? — Conoscendo i tuoi gusti, tesoro, non credo sia necessano. Grazie. Ma cerca di essere serio. Presumi, per amore di discussione, che io sia una persona artificiale. Un uomo che venga a letto con me, come tu hai fatto stanotte e molte altre notti, da cosa potrebbe capire che sono artificiale? — Marjie, smettila. Non è divertente. (A volte gli umani mi esasperano oltre i limiti di sopportazione.) Dissi bruscamente: — Sono una persona artificiale. — Marjorie! — Non ti basta la mia parola? Te lo devo dimostrare? — Piantala di scherzare. Piantala immediatamente! Se no, il cielo mi aiuti, appena torniamo a casa ti sculaccio. Marjorie, non ho mai picchiato né te né un’altra delle mie mogli. Ma tu cominci a meritare una bella lezione. — Davvero? Lo vedi quell’ultimo pezzetto di torta sul tuo piatto? Adesso lo prendo. Metti le mani sopra il piatto e cerca di fermarmi. — Non fare la stupida. — Provaci. Non sarai mai tanto veloce da fermarmi. I nostri sguardi si incontrarono. Di colpo, lui cominciò a stringere le mani. Io entrai automaticamente in overdrive, presi la forchetta, la infilai nel pezzo di torta, alzai la forchetta in mezzo alle sue mani che si chiudevano, interruppi l’overdrive appena prima di portarmi il boccone alle labbra. (Quel cucchiaio di plastica del laboratorio non era una discriminazione. Serviva a proteggermi. La prima volta che usai una forchetta mi sforacchiai il labbro perché non avevo ancora imparato a rallentare i miei movimenti al ritmo delle persone normali.) Forse non esiste un termine per l’espressione sul viso di Brian. — Ti basta? — gli chiesi. — No, probabilmente no. Amore mio, dammi la mano. — Gli tesi la destra. Lui esitò, poi la prese. Lasciai che aggiustasse la stretta, poi cominciai, lentamente, a fare forza. — Non voglio farti male, amore — lo avvertii. — Dimmi quando devo fermarmi. Brian non è una femminuccia; sa sopportare il dolore. Stavo per fermarmi, perché non volevo rompergli qualche osso della mano, quando lui disse all’improvviso: — Basta! Gli lasciai andare immediatamente la mano e presi a massaggiarla con tutte e due le mie. — Farti del male non mi ha divertita, amore, ma dovevo dimostrarti che dico la verità. In genere sto attenta a non mostrare riflessi insoliti o una forza insolita. Però ne ho bisogno per il mio lavoro. La forza e la velocità super mi hanno salvato la pelle diverse volte. Sto particolarmente attenta a non usare nessuna delle due cose se non ci sono costretta. Devo darti qualche altra dimostrazione per provarti che sono quello che dico? Ho anche altre capacità particolari, ma forza e velocità sono le più facili da dimostrare. Lui rispose: — È ora di ripartire verso casa. Nel viaggio di ritorno non scambiammo dieci parole. Adoro il lusso delle carrozze trainate dai cavalli, ma quel giorno sarei stata felicissima di servirmi di un mezzo rumoroso e meccanico; e veloce! Nei giorni successivi, Brian mi evitò. Lo vidi solo a tavola. Un bel mattino, Anita mi disse: — Marjorie, tesoro, devo andare in città per qualche commissione. Vuoi venire a darmi una mano? — Ovviamente risposi di sì. Fece diverse fermate dalle parti di Gloucester Street e Durham. Il mio aiuto non le occorreva per niente. Conclusi che aveva solo bisogno di compagnia, e ne fui compiaciuta. Anita è una persona meravigliosa, se non le pesti i piedi. Terminate le commissioni, andammo a passeggiare in Cambridge Terrace, lungo le rive dell’Avon; poi a Hagley Park, nel giardino botanico. Lei scelse un posto al sole da dove potevamo guardare gli uccelli e tirò fuori il lavoro a maglia. Parlammo di niente in particolare per un po’, restando lì sedute. Eravamo al parco da una mezz’ora quando il suo telefono squillò. Lei lo tolse dalla borsa per la maglia, avvicinò il microfono all’orecchio. — Sì? — Poi aggiunse: — Grazie. Chiudo — e rimise via il telefono senza offrirsi di dirmi chi l’avesse chiamata. Un suo privilegio. Comunque, me ne parlò indirettamente. — Dimmi, Marjie, hai mai rimpianti? O sensi di colpa? — Sì, a volte. Perché, dovrei averli? Per cosa? — Frugai nel mio cervello, ma mi sembrava di avere fatto tutto il possibile per non irritare Anita. — Per come ci hai ingannati, imbrogliati. — Cosa? — Non fare l’innocente. In passato non ho mai avuto a che fare con una creatura estranea alla legge di Dio. Non ero certa che tu potessi capire il concetto di peccato e colpa. Non che questo importi, immagino, adesso che ti sei smascherata. La famiglia chiede l’annullamento immediato del contratto. Oggi stesso Brian, vedrà il giudice Ridgley. Mi tirai su sulla panchina. — E quale sarebbe l’accusa? Non ho fatto niente di sbagliato! — Oh, lo hai fatto. Hai dimenticato che in base alle nostre leggi un non-umano non può contrarre un contratto di matrimonio con esseri umani. 8 Un’ora dopo prendevo lo shuttle per Auckland, e avevo il tempo di riflettere sulla mia follia. Per quasi tre mesi, dalla sera in cui ne avevo discusso con Boss, per la prima volta mi ero sentita a mio agio nella condizione di «umano». Lui mi aveva detto che ero «umana quanto Madre Eva» e che potevo tranquillamente raccontare a chiunque di essere una Pa, perché non mi avrebbero creduto. Più o meno, Boss aveva ragione. Ma non aveva previsto che io mi sforzassi di dimostrare con tutta me stessa di non essere «umana» secondo i canoni della legge ennezeta. Il mio primo impulso era stato chiedere un’udienza davanti al consiglio di famiglia al completo; solo per scoprire che il mio caso era già stato discusso in camera e che ero stata sconfitta per sei voti contro zero. Non tornai nemmeno a casa. La telefonata che Anita aveva ricevuto al giardino botanico l’aveva informata che i miei effetti personali erano stati chiusi in valigia e trasferiti al bagagliaio della stazione degli shuttle. Avrei potuto insistere per una riunione di famiglia, invece di accettare la (dubbia) parola di Anita. Ma a che scopo? Per avere la meglio in una discussione? Per dimostrare un punto? O semplicemente per spaccare in due il capello? Mi occorsero cinque secondi interi per capire che il mio bene più caro e prezioso era svanito. Scomparso come un arcobaleno, scoppiato come una bolla di sapone. Non avevo più un posto «mio». Quei bambini non erano miei; non mi sarei più rotolata sul pavimento con loro. Stavo pensando a quello, con un dolore senza lacrime, e per poco non mi sfuggì l’informazione che Anita era stata «generosa» con me. Nel contratto che avevo firmato con la famiglia, una clausola a caratteri minuscoli mi obbligava a saldare immediatamente la somma dovuta, nel caso avessi infranto il contratto. Il fatto di non essere umana significava infrangerlo? Anche se non avevo mai saltato una sola rata? Guardando la cosa da un certo punto di vista, essere scacciata dalla famiglia significava per me un risparmio di almeno diciottomila dollari ennezeta; guardandola da un altro punto di vista, non solo mi sarebbe stata confiscata per diritto legale la parte di quota che avevo già pagato, ma ero in debito con loro di più del doppio della stessa cifra. Ma furono «generosi»: se fossi scomparsa in fretta e senza creare problemi, non avrebbero preteso che saldassi il debito. Non mi spiegarono cosa sarebbe successo se fossi rimasta lì e avessi creato uno scandalo. Scappai. Non ho bisogno di uno psichiatra per capire che mi ero fatta del male con le mie stesse mani; lo capii non appena Anita mi annunciò le brutte notizie. Un interrogativo che scende più in profondità è: Perché lo avevo fatto? Non per Ellen, e non potevo certo illudermi di averlo fatto per lei. Anzi, la mia follia mi aveva reso impossibile cercare di combinare qualcosa di buono per lei. Perché lo avevo fatto? Per rabbia. Non sapevo trovare una risposta migliore. Rabbia con l’intera razza umana per aver deciso che quelli come me non sono umani e quindi non hanno diritto allo stesso trattamento e alla stessa giustizia. Un risentimento che era cresciuto dal giorno in cui mi avevano fatto capire che i bambini umani godono di certi privilegi per il semplice fatto di essere nati, e che io non potevo goderne solo perché non ero umana. Fingersi umani dà diritto a godere di questi privilegi, ma non mette fine al risentimento per il sistema. La pressione cresce ancora di più perché non si può esprimere. E un certo giorno, per me fu più importante scoprire se la mia famiglia adottiva poteva accettarmi per ciò che realmente sono, una persona artificiale, che non tenere in vita un rapporto felice. Ed ebbi la mia risposta. Nessuno di loro si schierò con me, come nessuno di loro si era schierato con Ellen. Penso di aver capito che mi avrebbero rifiutata quando seppi che avevano rifiutato Ellen. Ma questo livello della mia mente è sepolto così in profondità che non lo conosco bene; è il luogo oscuro dove, stando a Boss, io penso sul serio. Arrivai ad Auckland in ritardo per l’Sb giornaliero per Winnipeg. Dopo aver prenotato un posto per il volo del giorno dopo e aver depositato tutto tranne la sacca, mi chiesi che cosa fare nelle ventun ore che avevo davanti; e subito pensai al mio lupo riccioluto, il capitano Ian. Da quello che aveva detto, c’era una probabilità su cinque di trovarlo in città; ma il suo appartamento, se era libero, sarebbe stato più simpatico di un hotel. Così trovai un terminale pubblico e battei il suo codice. Lo schermo si illuminò; apparve un viso femminile, giovane, allegro, piuttosto grazioso. — Ciao! Sono Torchy. Tu chi sei? — Sono Marj Baldwin — risposi. — Forse ho sbagliato codice. Sto cercando il capitano Tormey. — No, non hai sbagliato, tesoro. Resta in linea. Lo tiro fuori dalla gabbia. — Si girò e si allontanò dal ricevitore, strillando: — Ragazzo! Una pollastrella fantastica al telefono. Sa il tuo nome. Mentre la donna si allontanava, intravvidi seni nudi. Quando fu al centro dello schermo scoprii che non aveva addosso un solo straccio. Un bel corpo, forse un po’ largo alle fondamenta, ma con gambe lunghe, vita snella e mammelle all’altezza delle mie… E delle mie non si è mai lamentato nessuno. Bestemmiai fra me. Sapevo benissimo perché avevo chiamato il capitano: per dimenticare tre uomini fra le braccia di un quarto. Lo avevo trovato, ma pareva che fosse già occupato. Ian apparve, vestito ma non troppo; portava un lava-lava. Un’aria perplessa, poi mi riconobbe. — Ehi! La signorina… Baldwin! Sì. Splendido. Dove sei? — Al porto. Ho chiamato per salutarti, nel caso fossi in casa. — Resta lì dove sei. Non muoverti, non respirare. Sette secondi per mettermi calzoni e camicia e vengo a prenderti. — No, capitano. Solo un saluto. Aspetto una coincidenza, come l’altra volta. — Che coincidenza? Per dove? Quando parti? Accidenti e triplo accidenti. Non mi ero preparata le bugie. Be’, spesso è meglio la verità di una bugia maldestra. — Torno a Winnipeg. — Ah! Allora hai davanti il tuo pilota. Il volo di domani a mezzogiorno è mio. Dimmi dove ti trovi esattamente e sono da te fra, diciamo, quaranta minuti, se trovo un taxi in fretta. — Capitano, sei molto dolce e sei fuori di testa. Hai già tutta la compagnia che ti può servire. La ragazza che ha risposto al telefono. Torchy. — Torchy? Ah, vuoi dire mia sorella. Sempre con un nomignolo diverso, quella. Si chiama Betty e abita a Sydney, ma quando è qui si ferma da me. Forse te ne ho parlato. — Girò la testa e urlò: — Betty! Vieni qui a presentarti, ma in condizioni decenti. — È troppo tardi per mettersi in condizioni decenti — rispose la voce allegra della ragazza. La vidi, dietro le spalle del capitano, tornare verso l’apparecchio e aggiustarsi un lava-lava ai fianchi. L’operazione le provocò qualche difficoltà. Doveva aver alzato il gomito. — Oh, al diavolo! Mio fratello sta sempre a cercare di insegnarmi l’educazione. Mio marito ci ha rinunciato. Guarda tesoro, ho sentito quello che hai detto. Sono la sua sorellina sposata, troppo vero. A meno che tu non abbia intenzione di sposarlo, nel qual caso sono la sua fidanzata. Vuoi accalappiarlo. — No. — Bene. Allora puoi prenderlo. Sto per preparare il tè. Tu bevi gin? O whisky? — Quello che stavate bevendo tu e il capitano. — Lui non deve bere niente. Parte fra meno di ventiquattro ore. Ma tu e io ci sbronzeremo. — Berrò quello che bevi tu. Va tutto bene, a parte la cicuta. A quel punto convinsi Ian che era meglio che mi trovassi da sola una carrozza all’aeroporto, dove non c’erano problemi; chiamarne una, venire a prendermi e tornare indietro gli avrebbe creato difficoltà. Il numero 17 di Locksley Parade è un nuovo gruppo di appartamenti del tipo a doppie misure di sicurezza; entrare nell’appartamento di Ian fu come trovarsi sigillati in un’astronave. Betty mi accolse con un abbraccio e un bacio che mi confermarono che aveva bevuto; poi il mio lupo riccioluto mi accolse con un abbraccio e un bacio che mi informarono che non aveva bevuto ma si aspettava di portarmi a letto nell’immediato futuro. Non mi chiese dei miei mariti; io non offrii informazione sulla mia famiglia, la mia ex famiglia. Ian e io andavamo d’accordo perché capivamo tutti e due i segnali, li usavamo nel modo giusto, e non ci imbrogliavamo mai a vicenda. Mentre Ian e io eravamo impegnati in questa discussione senza parole, Betty lasciò la stanza e tornò con un lava-lava rosso. — Il nostro è un tè d’alta classe — annunciò, con un ruttino — quindi togliti quei vestitacci da strada e metti questo, tesoro. Un’idea di lei? O di lui? Di lei, decisi poco dopo. La lascivia di Ian era semplice, totale, chiara come un pugno alla mascella, ma lui era fondamentalmente un tipo squadrato. Betty no, era una fuorilegge ribelle. La cosa non m’importava, visto che procedeva nella direzione desiderata. I piedi nudi sono provocanti quanto i seni nudi, anche se molta gente pare non lo sappia. Una donna incartata solo in un lava-lava è molto più provocante di una completamente nuda. La festa stava prendendo una piega che mi piaceva, e al momento buono sarebbe dipeso da Ian sfuggire alla sorveglianza della sorella. Se fosse stato necessario. Non era impossibile che Betty si mettesse a vendere i biglietti. Il che non mi dava fastidio. Mi sbronzai. Con quanta cura e precisione lo scoprii solo il mattino dopo, quando mi svegliai a letto con un uomo che non era Ian Tormey. Per diversi minuti rimasi immobile e lo guardai russare mentre frugavo tra i miei ricordi annebbiati dal gin, per inserire quel tizio nel contesto. Sono convinta che una donna debba essere presentata a un uomo, prima di passare la notte con lui. Eravamo stati formalmente presentati? Anzi, ci eravamo conosciuti? Le informazioni tornarono a brandelli. Nome: professor Federico Farnese, chiamato o «Freddie» o «Chubbie». (Il che, in inglese, significherebbe, «Grassoccio», ma lui non era molto grassoccio; solo un po’ di pancia per la professione sedentaria.) Marito di Betty, cognato di Ian. Lo ricordavo vagamente dalla sera prima, ma in quel momento (il mattino dopo) non riuscivo a ricordare quando fosse arrivato, o perché fosse stato fuori casa… Se mai lo avevo saputo. Dopo averlo inquadrato, non fui particolarmente sorpresa di scoprire che avevo (sembravo avere) trascorso la notte con lui. Col mio stato d’animo della sera prima, nessun maschio sarebbe stato al sicuro da me. Ma una cosa mi preoccupava: avevo girato le spalle al mio ospite per dare la caccia a un altro uomo? Non è carino, Friday. Non è cortese. Scavai, più a fondo. No, per lo meno una volta non avevo girato le spalle a Ian. Con mio grande piacere. E anche con piacere di Ian, se i suoi commenti erano sinceri. Poi, sì, gli avevo girato le spalle, ma dietro sua richiesta. No, non ero stata scortese col mio ospite, e lui era stato gentilissimo con me, e proprio nel modo che mi occorreva per dimenticare che la gang di razzisti intolleranti di Anita mi aveva truffata e scacciata. Più tardi il mio ospite era stato aiutato dal nuovo arrivato, ora ricordavo. Non sorprende mai che una donna in preda a un subbuglio emotivo possa avere bisogno di essere calmata da più di un uomo; però non ricordavo come si fosse svolta la transazione. Uno scambio di partner? Non ficcare il naso, Friday! Una Pa non può provare o capire i diversi tabù umani legati alla copula; però io ne avevo mandato a memoria con estrema cura i molti, molti tipi durante l’addestramento di base come etera, e sapevo che questo è uno dei più forti, uno dei tabù che gli umani coprono anche quando tutto il resto è allo scoperto. Così decisi di evitare anche il minimo accenno d’interesse. Freddie smise di russare e aprì gli occhi. Sbadigliò e si stirò, poi mi vide e sembrò perplesso, poi all’improvviso sorrise e allungò le mani verso di me. Io risposi al sorriso e alle mani, pronta a collaborare di tutto cuore, quando entrò Ian. Disse: — Giorno, Marj. Freddie, mi ripugna interromperti, ma sotto c’è già un taxi che aspetta. Marj deve alzarsi e vestirsi. Partiamo subito. Freddie non mi mollò. Sghignazzò un attimo, poi recitò: Un uccellino con un biglietto giallo È venuto a svegliarmi al canto del gallo. Fissandomi con un occhio vivace ha chiesto: «Non ti vergoni, pigrone, di non essere desto?» — Capitano, il tuo senso del dovere e la preoccupazione per il benessere della nostra ospite ti fanno onore. Per quando devi essere al porto? Due ore prima del decollo? E parti al mezzogiorno di fuoco, al primo rintocco dell’orologio. No? — Sì, però… — Però Helen… ti chiami Helen?… Può benissimo presentarsi al cancello cosiddetto d’imbarco non più tardi dell’ora X meno trenta minuti. E a questo penserò io. — Fred, non voglio fare il rompiscatole, ma lo sai che trovare un taxi qui può richiedere un’ora. E sotto ce n’è uno che mi aspetta. — Com’è vero. I tassisti ci evitano; ai loro cavalli non piacciono le nostre colline. Per questo motivo, caro cognato in amore, la sera scorsa ho noleggiato un calesse, impegnando una borsa d’oro. In questo momento il vecchio e fedele Ronzinante si trova sotto questa casa in una delle stalle del custode, a recuperare le forze con pannocchiette di granturco per l’ardua prova che l’attende. Quando telefonerò giù, il suddetto custode, ben imbottito del mio denaro, aggiogherà la cara bestia e porterà calesse e cavallo all’ingresso. Dopo di che scorterò Helen al cancello non più tardi dell’ora X meno trentun minuti. Mi impegno solennemente sul grumo di carne più vicino al tuo cuore. — Il tuo cuore, vuoi dire. — Ho articolato la frase con la massima attenzione. — Allora… Marj? — Be’… A te va bene, Ian? Non ho voglia di lasciare il letto subito. Però non voglio nemmeno perdere la tua nave. — Non la perderai. Freddie è affidabile; è solo che non lo sembra. Però partite da qui alle undici. Se fosse necessario, potreste arrivare a piedi. Posso tenerti il posto prenotato anche dopo l’imbarco. Un capitano gode di qualche privilegio. Okay, riprendete quello che stavate facendo. — Ian guardò l’orologio da dito. — Le nove. Ciao. — Ehi! Il bacio dell’addio! — Perché? Ti rivedrò alla nave. E abbiamo un appuntamento a Winnipeg. — Baciami, porca miseria, o perderò la fottuta nave! — Allora sganciati da quel grassone di romano e stai attenta a non macchiare la mia uniforme immacolata. — Non correre rischi, vecchio mio. Bacerò io Helen per te. Ian si chinò e mi baciò con molta competenza, e io non gli sporcai la sua linda uniforme. Poi baciò la testa di Freddie al centro della pelata e disse: — Divertitevi, ragazzi. Ma portala al cancello in tempo. Ciao. — Betty diede un’occhiata in camera in quel momento; suo fratello la raccolse da terra con un braccio e la trascinò via. Io riportai l’attenzione su Freddie. Lui disse: — Helen, preparati. — Mi preparai, pensando allegramente che Ian e Betty e Freddie erano proprio quello che ci voleva a Friday per rimettersi in pari dopo aver vissuto tanto, troppo a lungo con quegli ipocriti puritani. Betty arrivò col tè del mattino al momento esatto, dal che dedussi che aveva origliato. Si mise nella posizione del loto sul letto e bevve una tazza con noi. Poi ci alzammo a fare colazione. Io presi porridge con panna, due magnifiche uova, prosciutto di Canterbury, una grossa braciola, patate fritte, tartine calde con marmellata di fragole e il miglior prosciutto del mondo, e un’arancia, il tutto annaffiato con tè nero forte e zucchero e latte. Se tutto il mondo facesse colazione come si fa in Nuova Zelanda, non ci sarebbero tensioni politiche. Freddie per mangiare si mise un lava-lava, ma Betty no, e quindi nemmeno io. Essendo cresciuta in un laboratorio, non ne saprò mai abbastanza di usanze umane ed etichetta, però so che un ospite di sesso femminile deve vestirsi o svestirsi, come la padrona di casa. Non sono abituata a starmene nuda in presenza di umani (il laboratorio era un altro paio di maniche), ma Betty mi metteva enormemente a mio agio. Chissà se mi avrebbe respinta, se avesse saputo che non ero umana. Probabilmente no, ma non ero ansiosa di fare la prova. Una colazione allegra. Freddie mi depositò nell’atrio passeggeri alle undici e venti, mandò a chiamare Ian e chiese una ricevuta. Ian gliela scrisse con solennità. Poi mi allacciò di nuovo la cintura della struttura antiaccelerazione, commentando piano: — L’altra volta non avevi nessun bisogno del mio aiuto, vero? — No — ammisi — però sono contenta di avere fatto finta. Mi sono divertita da matti! — E ci divertiremo anche a Winnipeg. Ho chiamato Janet durante il conto alla rovescia e l’ho informata che sarai da noi per cena. Mi ha detto di informarti che sarai da noi anche a colazione. Ha detto di dirti che è stupido lasciare Winnipeg nel mezzo della notte. Potresti fare una brutta fine. Ha ragione. Gli immigrati clandestini che ci arrivano dall’Impero potrebbero ucciderti per un tozzo di pane. — Ne discuterò con lei quando arriviamo. — (Capitano Ian, razza d’imbroglione, mi avevi detto che non ti sposerai mai perché hai «l’istinto del lupo solitario». Chissà se lo ricordi? Credo di no.) — È deciso. Forse Janet non si fida dei miei giudizi sulle donne. Dice che ho solo pregiudizi e istinti da porcellino. Però si fida di Betty e a quest’ora Betty le avrà telefonato. Conosceva Betty già prima di conoscere me; erano compagne di stanza alla McGill. È lì che io ho trovato Janet e Fred ha trovato la mia sorellina. Eravamo quattro sovversivi. Di tanto in tanto sganciavamo il mappamondo e appendevamo il polo nord all’ingiù. — Betty è un tesoro. Janet è come lei? — Sì e no. Janet era il capo delle nostre attività rivoluzionarie. Chiedo scusa, devo fare finta di essere un capitano. In realtà è il computer che guida questa bara di latta, ma la settimana prossima voglio imparare anch’io a farlo. — Se ne andò. Dopo la catarsi ristoratrice di una notte di ebbre follie con Ian e Freddy e Betty riuscivo a pensare in modo più razionale alla mia ex famiglia. Mi avevano davvero ingannata? Avevo firmato quello stupido contratto di mia volontà, compresa la clausola che mi aveva fregato. Avevo pagato per il sesso? No. Quello che avevo detto a Ian è vero: il sesso si trova dappertutto. Avevo pagato per il felice privilegio di appartenere. A una famiglia; specialmente per la delizia domestica di cambiare pannolini bagnati e lavare piatti e carezzare cuccioli. Per me il Signor Sottoipiedi era molto più importante di quanto lo fosse mai stata Anita, anche se non mi ero mai permessa di pensarlo. Avevo cercato di amarli tutti finché la storia di Ellen non aveva rischiarato gli angoli sporchi. Vediamo. Sapevo esattamente quanti giorni ero riuscita a trascorrere con la mia ex famiglia. Un pizzico di aritmetica mi disse che dal momento che mi avevano confiscato tutto, la tariffa giornaliera di quelle dolci vacanze a pensione completa era stata più di quattrocentocinquanta dollari ennezeta. Una bella tariffa anche per un albergo di lusso. Ma la vera spesa sostenuta dalla famiglia per tenermi in casa era meno di un quarantesimo di quella cifra. Tutti gli altri, su quali basi economiche erano entrati a fare parte della famiglia? Non lo avevo mai saputo. Era possibile che Anita, incapace di impedire agli uomini di invitarmi a unirmi al gruppo, avesse sistemato le cose in modo da non permettermi di lasciare il lavoro e vivere in casa, al tempo stesso legandomi alla famiglia con un accordo molto conveniente per la famiglia, cioè per Anita? E chi poteva dirlo? Sapevo così poco dei matrimoni fra esseri umani che non ero mai stata in grado di giudicare, e ancora non lo ero. Però una cosa l’avevo imparata: Brian mi aveva sorpreso mettendosi contro di me. Lo avevo giudicato il membro della famiglia più adulto, saggio, colto, l’unico che potesse accettare la realtà della mia origine biologica senza rifiutarla. Forse lo avrebbe fatto se per la mia dimostrazione avessi scelto qualche altra capacità, qualche abilità che non lo minacciasse. Ma lo aveva vinto in una prova di forza, un campo in cui il maschio nutre la ragionevole convinzione di primeggiare. Lo avevo colpito nel suo orgoglio virile. A meno che non abbiate intenzione di ucciderlo subito dopo, non prendete mai un uomo a calci nelle palle. Nemmeno simbolicamente. O forse soprattutto simbolicamente. 9 La caduta libera finì ed entrammo nelle sensazioni incredibilmente eccitanti del volo planato ipersonico. Il computer se la stava cavando bene nello smorzare la violenza, ma si sentivano ancora le vibrazioni nei denti; e io le sentivo in altre parti, dopo quella notte movimentata. Uscimmo dal transonico piuttosto bruscamente, poi restammo a lungo in subsonico, con l’urlo che continuava a crescere. Poi atterrammo e si accesero i retrorazzi, e dopo un po’ ci fermammo. E io respirai a pieni polmoni. Per quanto mi piacciano gli Sb, fra l’atterraggio e la sosta non sono mai rilassata. Eravamo partiti dall’Isola del Nord a mezzogiorno di giovedì, e così arrivammo quaranta minuti più tardi a Winnipeg il giorno prima (mercoledì), alle 19,40 di sera. (Non prendetevela con me; andate a guardarvi una carta geografica che riporti i fusi orari.) Aspettai di nuovo, fui l’ultimo passeggero a scendere. Di nuovo il capitano prese la mia sacca, ma questa volta mi scortò con la confidenza di un vecchio amico; e io mi sentii enormemente intenerita. Mi guidò a una porta laterale, poi superò con me Dogana, Sanità e Immigrazione, presentando per prima la sua borsa da viaggio. L’impiegato della Dsi non la toccò. — Ciao capitano. Oggi cosa contrabbandi? — La solita roba. Diamanti illegali. Segreti industriali. Progetti di armi. Droghe. — Tutto qui? Gesso sprecato. — L’uomo scarabocchiò qualcosa sulla borsa di Ian. — Lei è con te? — Mai vista in vita mia. — Io squaw pellirossa — intervenni. — Capo bianco promesso molta acqua di fuoco. Capo bianco no mantiene promesse. — Questo potevo dirvelo anch’io. Vi fermate molto? — Vivo nell’Impero. Sono di passaggio. Potrei fermarmi per una notte. Sono transitata qui il mese scorso. Andavo in Nuova Zelanda. Il mio passaporto. L’impiegato diede un’occhiata al passaporto, lo stampigliò, scarabocchiò sulla mia sacca senza aprirla. — Se decidete di fermarvi un po’ di più, vi offrirò acqua di fuoco. Ma non fidatevi del capitano Tormey. — Ce ne andammo. Appena superata la barriera, Ian lasciò cadere i bagagli, alzò da terra una donna per i gomiti (una dimostrazione del suo eccellente stato fisico; lei era più bassa solo di una decina di centimetri) e la baciò con entusiasmo. Poi la rimise giù. — Jan questa è Marj. (Se Ian aveva a casa quel bocconcino delizioso, perché sprecava tempo con le mie modeste doti? Perché io mi trovavo ad Auckland e lei no, senza dubbio. Ma adesso Ian era lì. Mia dolce signora, hai un buon libro da prestarmi?) Janet mi baciò e mi sentii meglio. Poi, continuando a tenermi abbracciata, mi scostò un poco da sé. — Non la vedo. L’hai lasciata sulla nave? — Lasciato cosa? Ho solo questa sacca. Il resto dei miei bagagli è al deposito automatico. — No, tesoro, la tua aureola. Betty mi ha fatto capire che dovevo aspettarmi un’aureola. Riflettei. — Sei sicura che abbia parlato di un’aureola? — Be’, ha detto che sei un angelo. Forse sono balzata alle conclusioni. — Forse. Non mi pare di aver avuto l’aureola, ieri sera. Non la porto mai, quando viaggio. Il capitano Ian disse: — Esatto. Ieri sera lei portava solo una sbronza, una grossa sbronza. Tesoro, odio dirlo ma Betty ha avuto una pessima influenza. Deplorevole. — Santo cielo! Allora è meglio fare subito un salto al gruppo di preghiera? Ti va, Marjorie? Tè e biscottini qui, e saltiamo la cena? L’intera congregazione pregherà per te. — Come vuoi tu, Janet. — (Dovevo accettare? Non so che etichetta sia prevista per i «gruppi di preghiera».) Il capitano Tormey disse: — Janet, forse è meglio portarla a casa e pregare per lei lì. Non credo che Marj sia abituata alla confessione pubblica dei peccati. — Marjorie, preferisci così? — Credo di sì. Grazie. — Allora va bene. Ian vuoi chiamare Georges? Georges era Georges Perreault. Per il momento non ebbi altre informazioni sul suo conto, a parte il fatto che guidava una pariglia di stalloni neri aggiogati a una carrozza Honda da ricconi. Che stipendio ha un capitano di Sb? Friday, non sono affari tuoi. Comunque era una vettura molto bella. E lo era anche Georges, a dire il vero. Bello, intendo. Alto, capelli scuri, abito scuro e cheppì; il ritratto del cocchiere perfetto. Ma Janet non lo presentò come un servo, e lui si chinò a baciarmi la mano. Un cocchiere fa il baciamano? Continuavo a incontrare usanze umane non previste dalla mia educazione. Ian andò a sedersi a cassetta con Georges. Janet mi fece salire nella carrozza con lei e distese una grossa coperta. — Ho pensato che non avessi niente per coprirti, venendo da Auckland — spiegò. — Infilati sotto. — Non le spiegai che non soffrivo mai il freddo; era un pensiero molto gentile, e andai sotto la coperta con lei. Georges si immise sull’autostrada e incitò i cavalli, che partirono a un trotto deciso. Ian prese una tromba delle molte che c’erano a cassetta e la suonò a tutto spiano. Non mi parve che ci fosse motivo di farlo; probabilmente aveva solo voglia di un po’ di rumore. Non entrammo nella città di Winnipeg. La loro casa si trovava a sud-ovest di una cittadina, Stonewall, a nord della città, nelle vicinanze del porto. Quando arrivammo era già buio, ma vidi bene una cosa: quella villa di campagna era in grado di resistere a qualunque attacco, a parte l’assedio di un esercito professionale. C’erano tre cancelli in fila, col cancello uno e due che facevano da recinto chiuso. Non vidi Occhi o armi comandate a distanza, ma ero sicurissima che ci fossero. La villa si stagliava nei raggi rossi e bianchi che avvertono i vascelli aerei di non provarci. Intravvidi solo vagamente le altre difese che completavano i cancelli. Troppo buio. Vidi un muro e due recinti, ma non mi fu chiaro se fossero dotati di armi e/o ordigni esplosivi, ed esitavo a chiedere. Comunque, nessuna persona normale spende così tanto per proteggere la casa per poi affidarsi solo a difese passive. Avrei voluto chiedere anche degli Shipstone, visto che alla fattoria Boss aveva perso lo Shipstone principale (sabotato da «zio Jim») e con esso tutte le sue difese; ma, di nuovo, non era la domanda più adatta per un ospite. Ancora di più mi chiesi cosa sarebbe successo se ci avessero assaliti prima di superare i cancelli del loro castello. Ma anche lì, col florido commercio di armi illegali che finiscono in mano a gente in teoria disarmata, era una domanda da non fare. Io di solito vado in giro disarmata, ma non credo lo facciano anche gli altri; la maggioranza della gente non possiede né le mie capacità super né il mio addestramento speciale. (Preferisco affidarmi al mio stato di «disarmata» che dipendere da congegni che ti possono essere sottratti a qualunque punto di controllo, o che puoi perdere, o che possono restare senza munizioni, o incepparsi, o essere scarichi quando servirebbero. Io non sembro armata, e questo mi dà un vantaggio. Ma altra gente, altri problemi; io sono un caso speciale.) Percorremmo un sentiero in salita, passammo sotto una tettoia e ci fermammo, e Ian suonò di nuovo la sua stupida tromba, ma questa volta con uno scopo preciso; le porte d’ingresso si aprirono. Ian disse: — Portala dentro, amore. Io vado a dare una mano a Georges coi cavalli. — Non mi serve aiuto. — Stai calmo. — Ian saltò giù e ci fece scendere, diede la mia sacca a sua moglie, e Georges ripartì. Ian semplicemente lo seguì a piedi. Janet mi accompagnò dentro, e io restai a bocca aperta. Dall’atrio vedevo una fontana luminosa programmata; cambiò forme e colori sotto i miei occhi. In sottofondo c’era una musica dolce che (forse) controllava la fontana. — Janet… Chi è il vostro architetto? — Ti piace? — Naturalmente! — Allora lo ammetto. L’architetto sono io, Ian è il tecnico, Georges ha supervisionato gli interni. È un artista multiforme. Un’altra ala della casa è il suo studio. E tanto vale ti dica subito che Betty mi ha ordinato di nascondere i tuoi vestiti finché Georges non avrà dipinto almeno un tuo nudo. — Betty ha detto questo? Ma io non ho mai fatto la modella, e devo tornare al mio lavoro. — Tocca a noi farti cambiare idea. A meno che… Ti vergogni? A Betty non sembrava probabile. Georges potrebbe accontentarsi di un ritratto vestito. Per cominciare. — No, non mi vergogno. Be’, forse un po’ per l’idea di posare. È una novità. Senti, non si può aspettare? Al momento mi interessa di più andare al gabinetto che posare. Non vedo una toilette da che ho lasciato l’appartamento di Betty. Dovevo pensarci al porto. — Scusa, tesoro. Non avrei dovuto tenerti qui a parlare dei dipinti di Georges. Mia madre mi ha insegnato anni fa che la prima cosa da fare per un ospite è mostrargli il bagno. — Mia madre mi ha insegnato la stessa identica cosa — mentii. — Per di qui. — Alla sinistra della fontana si apriva un corridoio; Janet mi ci guidò fino a una stanza. — La tua camera — annunciò, buttando la mia sacca sul letto — e il bagno è da quella parte. Lo dividerai con me. La mia stanza è il riflesso speculare di questa, sull’altro lato. C’era un’enormità di spazio da dividere: tre cubicoli, ognuno con wc, bidet, e lavandino; una doccia grande abbastanza per un comitato politico, con comandi su cui avrei dovuto chiedere informazioni; un tavolo per il massaggio e l’abbronzatura; una piscina (o era solo una vasca da bagno?) chiaramente progettata per sguazzare in compagnia; due mobiletti per il trucco con lavandino; un terminale; un frigorifero; una libreria con uno scaffale riservato alle cassette. — Nessun leopardo? — chiesi. — Te lo aspettavi? — Tutte le volte che ho visto questa stanza nei sensifilm l’eroina aveva un leopardo addomesticato. — Ah. Ti accontenti di un micio? — Certo. Tu e Ian siete gente da gatti? — Non proverei mai a mettere su casa senza un gatto. Anzi, in questo momento potrei farti un’offerta d’oro, se ti piacciono i micini. — Mi piacerebbe tenerne uno, ma non posso. — Ne discuteremo più tardi. Adesso accomodati. Vuoi fare la doccia prima di cena? Io ho intenzione di farne una. Ho perso troppo tempo a strigliare Black Beauty e Demon prima di partire per il porto, e non ne ho avuto il tempo. Ti sei accorta che puzzo di stalla? Ed è così che, a piccoli passi, dieci o dodici minuti dopo mi trovai con Georges che mi lavava il retro mentre Ian mi lavava il davanti e la padrona di casa si lavava da sola e rideva e offriva consigli che vennero ignorati. Se entrassi nei particolari, vedreste che ogni passo fu perfettamente logico e che quei gentili sibariti non fecero nulla per mettermi fretta. E non ci fu il minimo tentativo di sedurmi, né il più piccolo accenno al fatto che io avessi già violentato (di una violenza simbolica, se non altro) il padrone di casa la notte prima. Poi divisi con loro un festino sibaritico nel loro soggiorno (o salotto, o salone, come volete) davanti a un fuoco che era in realtà uno degli aggeggi di Ian. Indossavo un négligé di Janet; il concetto di Janet di un négligé adatto a una cena l’avrebbe fatta finire in galera, a Christchurch. Ma non provocò avance da parte dei due uomini. Arrivati al caffè e al brandy, io ero un tantino alticcia per i drink prima di cena e il vino a cena. Dietro richiesta, mi tolsi il négligé preso a prestito e Georges mi mise in cinque o sei pose diverse, prese stereo e olo della sottoscritta in ogni posa, discutendo di me come se fossi un quarto di manzo. Continuai a insistere che dovevo ripartire il mattino dopo, ma le mie proteste diventarono deboli e formali; Georges non vi prestò la minima attenzione. Disse che avevo «belle masse»: forse era un complimento, di certo non era un’avance. Però scattò immagini meravigliose della sottoscritta, specialmente una in cui me ne stavo sdraiata su un divanetto con cinque micini che mi passeggiavano su petto e gambe e pancia. Chiesi se potevo averla, e saltò fuori che Georges possedeva l’attrezzatura per fare copie. Poi Georges ne scattò un po’ a me e a Janet assieme, e di nuovo io chiesi la copia di una foto perché facevamo un bel contrasto e Georges era capace di farci apparire meglio di ciò che eravamo. Poi cominciai a sbadigliare e Janet disse a Georges di smetterla. Io presentai le mie scuse, dicendo che avere sonno era del tutto imperdonabile, visto che nel fuso orario da cui ero partita quel giorno erano le prime ore della sera. Janet espresse sdegno. Secondo lei, avere sonno non c’entrava niente con gli orologi e i fusi orari: signori, si va a letto. Mi portò via. Ci fermammo in quel bagno meraviglioso e lei mi circondò con le braccia. — Marjie, vuoi compagnia o vuoi dormire sola? So da Betty che hai avuto una notte movimentata. Forse preferiresti una notte di pace da sola. O forse no. Dillo tu. Le risposi sinceramente che non sceglievo mai di dormire da sola. — Nemmeno io — ammise lei — ed è bello sentirtelo dire, senza girarci attorno e fare la commedia come certi bacchettoni. Chi vuoi nel tuo letto? Tesoro, tu hai tutti i diritti di questo mondo su tuo marito, la sera che torna a casa. — Forse bisogna girare la domanda. Chi vuole dormire con me? — Be’, ma tutti quanti, ne sono certa. Oppure due soli. O uno. Fai tu. Strizzai gli occhi, chiedendomi quanto avessi bevuto. — Quattro persone in un solo letto? — Ti va? — Non ci ho mai provato. Sembra divertente, ma il letto finirebbe piuttosto intasato. Credo. — Non sei stata in camera mia. Il letto è molto grande. Perché tutti e due i miei mariti scelgono spesso di dormire assieme con me… e c’è tutto lo spazio per accogliere un ospite. Sì, avevo bevuto; per due sere di fila, e molto più del solito. — Due mariti? Non sapevo che il Canada Britannico avesse adottato le tecniche australiane. — Il Canada Britannico no; i suoi abitanti, sì. A migliaia e migliaia, per lo meno. I cancelli sono chiusi, sono solo affari nostri. Vuoi provare il letto grande? Se ti viene sonno, puoi scappare nella tua stanza. È il motivo che mi ha spinta a organizzare così queste due camere. Allora, tesoro? — Be’… Sì. Però potrei vergognarmi un po’. — Ti passerà. Andiamo… Fu interrotta da un campanello del terminale. Janet disse: — Oh, accidenti, accidenti! Novanta su cento significa che vogliono Ian al porto, anche se è appena tornato da un volo. — Raggiunse il terminale, lo accese. — …Causa di allarme. Il confine con l’Impero di Chicago è stato chiuso e si stanno isolando i profughi. L’attacco da parte del Québec è piuttosto serio ma potrebbe essere l’errore di un comandante locale; non c’è stata dichiarazione di guerra. È stato dichiarato lo stato d’emergenza, per cui non scendete in strada, mantenete la calma, e tenetevi sintonizzati su questa lunghezza d’onda per le notizie e le istruzioni ufficiali. Era iniziato il Giovedì Rosso. 10 Immagino che tutti abbiano più o meno in mente la stessa immagine del Giovedì Rosso e di ciò che seguì. Ma per spiegarmi (per spiegare a me stessa, se è possibile!) debbo dirvi come l’ho visto io, compresi la confusione totale e i dubbi. Noi quattro finimmo nel letto grande di Janet in cerca di compagnia e mutuo conforto, non di sesso. Tutti quanti tenemmo le orecchie aperte alle notizie, gli occhi incollati allo schermo del terminale. Più o meno, vennero ripetute di continuo le stesse informazioni: attacco abortito dal Québec, il presidente dell’Impero di Chicago ucciso a letto, il confine con l’Impero chiuso, rapporti di sabotaggio non verificati, non scendete in strada, mantenete la calma; ma per quanto venissero ripetute sempre le stesse cose, tutti noi chiudevamo il becco e ci mettevamo in ascolto, in attesa di una notizia che desse un senso alle altre notizie. Invece le cose continuarono a peggiorare tutta la notte. Alle quattro del mattino sapevamo che omicidi e sabotaggi si stavano svolgendo nel mondo intero; all’alba giungevano rapporti incontrollati di guai a Elle-Cinque, a Base Tycho, a Stazione Stazionaria, e (messaggio interrotto) a Cerere. Impossibile indovinare se la catastrofe avesse raggiunto Alpha Centauri o Tau Ceti… Ma una voce ufficiale dal terminale tirò a indovinare rifiutandosi di tirare a indovinare e invitando tutti a non lanciarsi in pericolose speculazioni. Verso le quattro, Janet, con un po’ d’aiuto da me, preparò panini e servì il caffè. Mi svegliai alle nove perché Georges si muoveva. Scoprii che stavo dormendo con la testa sul suo petto e un braccio avvinghiato attorno a lui. Ian era dall’altra parte del letto, sdraiato-seduto sui cuscini, con gli occhi ancora attaccati allo schermo; però gli occhi erano chiusi. Janet era scomparsa: fuggita nella mia stanza, si era infilata in quello che teoricamente era il mio letto. Scoprii che, muovendomi con estrema lentezza, potevo districarmi e scendere dal letto senza svegliare Georges. Lo feci, e scivolai in bagno, dove mi sbarazzai dei residui di caffè e mi sentii meglio. Con un’occhiata nella «mia» camera vidi la padrona di casa svanita. Era sveglia; agitò le dita nell’aria, poi mi fece cenno di entrare. Si spostò e io mi coricai con lei. Mi baciò. — Come stanno i ragazzi? — Dormono tutti e due. O dormivano tre minuti fa. — Bene. Hanno bisogno di sonno. Tendono tutti e due a preoccuparsi. Io no. Ho deciso che presentarmi all’Armageddon con occhi iniettati di sangue era inutile, così mi sono trasferita qui. Tu dormivi, mi pare. — Può darsi. Non so a che ora mi sono addormentata. Ho l’impressione di aver sentito le stesse brutte notizie un migliaio di volte. Poi mi sono svegliata. — Non ti sei persa niente. Ho abbassato l’audio, ma ho lasciato acceso il televideo. Hanno continuato a ripetere la solita brutta storia. Marjorie, i ragazzi si aspettano che cadano le bombe. Secondo me non ci sarà nessuna bomba. — Spero che tu abbia ragione. Ma perché no? — Chi sgancia bombe H su chi? Chi è il nemico? Tutti i maggiori blocchi di potere sono nei guai, da quanto intuisco dalle notizie. Però, a parte quello che sembra uno stupido errore di un generale del Québec, nessuna forza militare è entrata in azione. Omicidi, incendi, esplosioni, sabotaggi di ogni tipo, rivolte, terrorismo di tutti i generi, ma senza uno schema preciso. Non è l’Est contro l’Ovest o il marxismo contro il fascismo o i neri contro i bianchi. Marjorie, se qualcuno fa partire i missili, vuol dire che il mondo intero è impazzito. — E non è quello che sembra? — Secondo me, no. Il senso di questa faccenda è che non c’è nessun senso. I bersagli sono dappertutto. Tutti quanti i governi, allo stesso modo, sono un obiettivo. — Anarchici? — suggerii. — Nichilisti, forse. Ian apparve con gli occhi cerchiati, la barba di un giorno, un’espressione preoccupata, e un vecchio accappatoio troppo corto per lui. Aveva le ginocchia molli. — Janet, non riesco a mettermi in contatto con Betty e Freddie. — Tornavano a Sydney? — Non è questo. Non posso parlare né con Sydney né con Auckland. Mi risponde sempre quella maledetta voce sintetica di computer. «Al-momento-non-ci-sono-circuiti-disponibili. Vi-preghiamo-di-riprovare-più-tardi-e-grazie-per-la-vostra-comprensione.» Hai presente? — Ahi. Altri sabotaggi? — Può darsi. Ma forse anche peggio. Dopo quella solfa ho chiamato il controllo traffico del porto e ho chiesto che diavolo avesse il collegamento via satellite Winnipeg-Auckland. Alla fine, sfruttando il mio grado, mi sono fatto passare il supervisore. Mi ha detto che i problemi col telefono sono niente. Loro sì sono nei guai sul serio. Tutti gli Sb sono bloccati a terra, perché due sono stati sabotati in volo. Il Winnipeg-Buenos Aires delle venti e nove e il Vancouver-Londra dell’una. — Ian! — Tutti e due distrutti. Nessun superstite. Spolette a pressione, senza dubbio. Le esplosioni si sono verificate appena lasciata l’atmosfera. Jan, la prossima volta che parto ispezionerò tutto di persona. Fermerò il conto alla rovescia con la scusa più idiota. — Aggiunse: — Però non ho idea di quando sarà. Non si può decollare su un Sb quando le comunicazioni col porto d’arrivo sono interrotte… E il supervisore ha ammesso che hanno perso l’intera rete di satelliti. Janet scese dal letto, si alzò, lo baciò. — Adesso smetti di preoccuparti! Smettila. Immediatamente. È chiaro che controllerai tutto tu stesso finché non prenderanno i sabotatori. Ma al momento togliti questa cosa dalla testa perché non ti chiederanno di decollare prima che i circuiti di comunicazione siano ristabiliti. Quindi farai festa. In quanto a Betty e Freddie è un peccato non poter parlare con loro, però sanno badare a se stessi, e lo sai. Senz’altro anche loro si staranno preoccupando per noi e non dovrebbero. Io sono contenta che sia successo adesso che sei a casa e non dall’altra parte del mondo. Sei qui e sei al sicuro ed è l’unica cosa che mi importi. Ce ne staremo qui felici e caldi finché questa fesseria sarà finita. — Io devo andare a Vancouver. — Uomo, tu non devi fare niente, a parte pagare le tasse e morire. Non infileranno creature sintetiche sulle navi se nessuna nave decolla. — Creature sintetiche — sbottai, e me ne pentii. Ian parve vedermi per la prima volta. — Ciao, Marj. Buongiorno. Non devi preoccuparti di nulla, e mi spiace che sia successo questo casino mentre eri nostra ospite. Jan alludeva a un’idea folle della nostra direzione. Si sono messi in testa che una creatura sintetica progettata per la navigazione possa fare il mio lavoro meglio di un vero uomo. Io sono della commissione interna di Winnipeg, quindi oppormi è compito mio. Domani a Vancouver c’è un incontro fra direzione e sindacato. — Ian — disse Jan — chiama il segretario generale. È stupido andare a Vancouver senza prima controllare. — Okay, okay. — Però non essere accomodante. Insisti col segretario perché prema sulla direzione per rimandare l’incontro finché non sarà cessata l’emergenza. Voglio che tu resti qui e mi salvi dal pericolo. — O viceversa. — O viceversa — ammise lei. — Ma sverrò fra le tue braccia, se sarà necessario. Cosa vuoi per colazione? Niente di troppo complicato, se non invocherò l’applicazione del tuo impegno formale. Io non ascoltavo più. Le parole creatura sintetica avevano fatto scattare qualcosa in me. Ian (e anche tutti gli altri, a dire il vero, nelle zone alte e basse del mio cervello) mi aveva dato l’impressione di essere tanto civile e colto da considerare la mia razza alla stessa stregua degli umani. E adesso scoprivo che era impegnato a rappresentare il suo sindacato in un conflitto direzione-dipendenti per impedire alla mia razza di competere con gli umani. (Secondo te cosa dovremmo fare, Ian? Tagliarci la gola? Non abbiamo chiesto noi di essere prodotti, come tu non hai chiesto di nascere. Forse non siamo umani ma condividiamo l’antico fato degli uomini: siamo stranieri in un mondo non costruito da noi.) — Allora, Marj? — Scusa. Mi ero persa. Cosa hai detto, Jan? — Ti ho chiesto cosa vuoi per colazione, tesoro. — Oh, fa lo stesso. Mangio tutto quello che sta fermo e persino quello che si muove lentamente. Posso venire a darti una mano? Per favore. — Speravo che me lo offrissi. Perché Ian serve a poco in cucina, nonostante l’impegno che ha firmato. — Sono un cuoco coi fiocchi! — Sì, amore. Ian si è impegnato per iscritto a prepararmi i pasti ogni volta che glielo chiedo. E lo fa; non ha cercato di sottrarsi alle sue responsabilità. Ma devo avere una fame mostruosa per fargli tenere fede all’accordo. — Marj, non stare a sentirla. Ignoro ancora se Ian sappia cucinare, ma di certo Janet ci sa fare (e anche Georges, come appresi in seguito). Janet ci servì, con un aiuto marginale da parte mia, omelette al formaggio dolce soffici e leggere, circondate da tenere frittelle con zucchero a velo e marmellata arrotolate all’europea e guarnite di pancetta ben rosolata. Più succo d’arancia ottenuto da frutti spremuti di fresco; spremuti a mano, non ridotti in poltiglia da una macchina. Più caffè forte ricavato da chicchi macinati di fresco. (Il cibo della Nuova Zelanda è ottimo, ma la cucina della Nuova Zelanda praticamente non è cucina.) Georges apparve con la perfetta scelta di tempi di un gatto; in questo caso di mamma gatta, che seguì Georges precedendolo. I micini vennero espulsi per editto di Janet, perché Jan era troppo indaffarata per stare attenta a non pestarli. Inoltre Janet decretò che mentre mangiavamo avrebbe escluso il notiziario e che l’emergenza non sarebbe stata argomento di conversazione a tavola. L’idea mi andava benissimo, perché quegli eventi strani e cupi avevano continuato a ronzarmi nel cervello da che erano iniziati, anche mentre dormivo. Come fece notare Janet mentre dettava quell’ordine, solo una bomba H poteva penetrare le nostre difese, e dell’esplosione di una bomba H non ci saremmo accorti; quindi, rilassiamoci e godiamoci la colazione. Io me la godetti, e anche mamma gatta, che si mise a pattugliare ai nostri piedi in senso antiorario, informandoci a turno quando era il momento di darle un po’ di pancetta. Credo che la pancetta l’abbia mangiata quasi tutta lei. Dopo che io ebbi lavato i piatti (recuperati anziché riciclati; in certe cose Janet era all’antica) e Janet ebbe preparato un’altra brocca di caffè, lei riaccese il terminale e noi sedemmo a guardare e discutere le notizie; in cucina invece che nel salone dove avevamo cenato, perché la cucina era de facto il loro soggiorno. Janet possedeva quella che si chiama «cucina di campagna», anche se nessun campagnolo ne ha mai avuta una così bella: un grosso camino, una tavola rotonda per i pasti della famiglia con robuste sedie di legno, grandi sdraio molto comode, un sacco di pavimento libero e nessun problema di traffico perché la preparazione del cibo avveniva al lato opposto della stanza. I micini furono riammessi, il che mise fine alle loro proteste; entrarono tutti code e attenzione. Ne presi uno, un affarino morbido e bianco, con macchie nere; le sue fusa erano più grosse di lui. Chiaramente, la vita amorosa di mamma gatta non era stata limitata da nessun codice; non c’erano due cuccioli identici. La maggioranza delle notizie erano vecchie, ma nell’Impero si era verificato un nuovo sviluppo. I democratici venivano arrestati, giudicati da corti marziali riunite all’aperto (tribunali militari, le chiamavano) e giustiziati sul posto: laser, fucilate, qualche impiccagione. Dovetti costringermi a un rigoroso controllo mentale per guardare. Le condanne a morte colpivano fino a quattordici anni di età. Vedemmo una famiglia in cui i due genitori, già condannati, insistevano a sostenere che il figlio aveva solo dodici anni. Il presidente della corte, un caporale della Polizia Imperiale, mise fine alla discussione togliendo la pistola dal fodero, sparando al ragazzo, e poi ordinando ai suoi uomini di finire i genitori e la sorella maggiore del ragazzo. Ian tolse il video, passò ai soli flash in audio, e abbassò il volume. — Ho visto tutto quello che voglio vedere — ringhiò. — Credo che chiunque sia al potere dopo la morte del presidente stia liquidando tutti quelli che sono sulla lista dei sospetti. Si morse il labbro, con aria cupa. — Marj, sei ancora della stupida idea di tornare subito a casa? — Non sono una democratica, Ian. Sono apolitica. — Credi che quel ragazzo avesse opinioni politiche? Quei cosacchi ti ucciderebbero solo per divertimento. Comunque, non puoi andartene. Il confine è chiuso. Non gli dissi che ero certa di poter superare qualunque confine del globo. — Credevo fosse chiuso solo per chi cerca di trasferirsi al Nord. Non lasciano tornare a casa i sudditi dell’Impero? Lui sospirò. — Marj, non hai più cervello del gattino che tieni in grembo? Non capisci che le ragazzine carine possono farsi male, se insistono a giocare coi ragazzi cattivi? Se fossi a casa, sono sicuro che tuo padre ti direbbe di non uscire. Ma ti trovi qui in casa nostra, e questo dà a Georges e me l’obbligo morale di proteggerti. Eh, Georges? — Mais oui, mon vieux! Certainement! — E io ti proteggerò da Georges. Jan, vuoi convincere questa bambina che sarà la benvenuta finché vorrà restare? Credo sia il tipo deciso di donna che cerca sempre di pagare il conto. — Non è vero! Janet disse: — Marjie, Betty mi ha detto di prendermi cura di te. Se pensi di approfittare troppo, puoi fare un’offerta alla Croce rossa del Canada Britannico. O a una casa di riposo per gatti indignati. Ma si dà il caso che noi tre guadagnamo tutti cifre assurde, e non abbiamo figli. Tenerti qui ci sarà di peso quanto tenere un altro micino. Allora, ti fermi? Oppure devo nasconderti i vestiti e sculacciarti? — Non voglio essere sculacciata. — Peccato, ci speravo. La questione è sistemata, gentili signori. Lei resta, Marj, ti abbiamo truffata. Georges ti chiederà di posare per un numero insopportabile di ore, è un bruto, e ti avrà per una manciata di cibo invece delle tariffe sindacali che deve sborsare di solito. Ci speculerà su. — No — disse Georges. — Non ci speculerò. Ci guadagnerò. Perché la scaricherò sulla nota spese, Jan, tesoruccio mio. Ma non alle tariffe sindacali minime. Vale di più. Una volta e mezzo? — Come minimo. Io direi il doppio. Sii generoso, visto che in ogni caso non la pagherai. Non vorresti averla al campus? Nel tuo laboratorio, intendo. — Una prospettiva notevole! Che avevo già in un angolo della mente… E grazie, nostro dolce tesoro, per averla portata allo scoperto. — Georges si rivolse a me: — Marjorie, mi venderesti un uovo? Mi lasciò esterrefatta. Cercai di fingere di non aver capito. — Io non ho uova. — Sì che ne hai! A dozzine, in effetti. Molte più di quante te ne possano mai occorrere per i tuoi scopi. L’ovulo umano è l’uovo di cui sto parlando. Il laboratorio paga gli ovuli molto più dello sperma. Semplice aritmetica. Sei scioccata? — No. Sorpresa. Credevo fossi un artista. Intervenne Janet. — Marj amore, te l’ho detto che Georges è un artista poliedrico. È la verità. Da un lato è un professore mendeliano di teratologia all’Università di Manitoba… ed è anche primo tecnologo dell’annesso laboratorio di produzione, e credimi, questo richiede arte sublime. Ma è anche bravo con vernici e tele. O con un monitor di computer. — Esatto — convenne Ian. — Georges è un artista in tutto ciò che tocca. Ma voi due non avreste dovuto fare questa rivelazione alla nostra ospite. C’è gente che viene sconvolta dalla semplice idea della manipolazione genetica, specialmente dei suoi geni. — Marj, ti ho sconvolta? Mi spiace. — No, Jan. Non sono una che si sconvolge solo all’idea delle creature sintetiche o delle persone artificiali o che altro. Alcuni dei miei migliori amici sono esseri artificiali. — Cara, cara — disse dolce Georges — non esagerare. — Perché lo dici? — Cercai di evitare i toni taglienti. — Io posso vantarmi di una cosa del genere, perché lavoro in quel campo e sono orgoglioso di dire che ho per amici molte persone artificiali. Ma… Lo interruppi. — Credevo che una Pa non potesse conoscere i suoi progettisti. — Questo è vero, e io non ho mai infranto la regola. Però ho molte occasioni di conoscere creature sintetiche e persone artificiali… non sono la stessa cosa… e di conquistarmi la loro amicizia. Però, scusami, cara Marjorie, a meno che tu non lavori nel mio settore… È così? — No. — Solo un ingegnere genetico o qualcuno addentro a questa industria possono vantarsi di avere amici fra le persone artificiali. Perché, mia cara, contrariamente al mito popolare, all’uomo comune non è possibile distinguere una persona artificiale da una naturale… e a causa degli orribili pregiudizi di gente ignorante, una persona artificiale non arriva quasi mai ad ammettere spontaneamente la propria origine. Sarei tentato di dire mai. Così, mentre mi delizia scoprire che l’idea di creature artificiali non ti dà la pelle d’oca, sono costretto a prendere la tua affermazione come un’iperbole tesa a dimostrare che non nutri pregiudizi. — Be’… Okay. Prendila così. Non riesco a capire perché le Pa debbano essere considerate di seconda categoria. Per me è ingiusto. — Lo è. Ma qualcuno si sente minacciato. Chiedilo a Ian. Partirà lancia in resta per Vancouver per impedire che le persone artificiali possano diventare piloti. Ha… — Caaaalma! Un accidenti. Prenderò questa posizione perché l’hanno votata i colleghi del sindacato. Ma non sono un idiota, Georges. Vivere e parlare con te mi ha fatto capire che dovremmo arrivare a un compromesso. Noi non siamo più piloti. Non lo siamo dall’inizio del secolo. È il computer che fa tutto. Se il computer si guasta, io tenterò con vero spirito da boy scout di riportare a terra il mio bus volante. Ma non scommettere che ci riesca! Velocità e situazioni d’emergenza hanno scavalcato da anni i tempi umani di reazione. Oh, ci proverei! Come farebbero tutti i miei colleghi. Però, Georges, se tu riesci a progettare una persona artificiale talmente veloce di mani e di cervello da poter affrontare un imprevisto in fase d’atterraggio, me ne andrò in pensione. E comunque è solo per questo che lottiamo. Se la compagnia ci sostituisce con Pa, vogliamo pensioni e stipendio e indennità pieni. Ammesso che tu riesca a progettarle. — Oh ci arriverò, prima o poi. Quando ne avrò ottenuta una, se mi daranno il permesso di clonare, voi piloti potrete andarvene tutti quanti a pescare. Ma non può trattarsi di una Pa; dovrà essere una creatura sintetica. Se devo cercare di produrre un organismo che sia davvero un pilota a prova di bomba, non posso accettare la limitazione di dargli un aspetto identico a quello umano. — Non farlo! I due uomini rimasero stupiti, Janet si tese; e io avrei tanto voluto non aver aperto bocca. — Perché? — chiese Georges. — Perché… Perché io non salirei mai su una nave del genere. Mi sentirei molto più al sicuro con Ian. Ian disse: — Grazie, Marj, ma hai sentito quello che ha detto Georges. Sta parlando di un pilota artificiale che saprà cavarsela meglio di me. È possibile. Al diavolo, succederà! I coboldi hanno sostituito i minatori, e anche la mia categoria scomparirà. Non è detto che questo debba piacermi, però capisco che accadrà. — Georges, tu hai lavorato con computer intelligenti? — Certo, Marjorie. L’intelligenza artificiale è un campo vicinissimo al mio. — Sì. Allora saprai che gli scienziati del settore hanno annunciato diverse volte di essere sul punto di arrivare al computer pienamente autocosciente. Ma nessun tentativo è mai riuscito. — Già. Terribile. — No. Inevitabile. Nessun tentativo riuscirà mai. Un computer può diventare autocosciente, sicuro. Portiamolo al livello umano di complicazione ed è autocosciente. Poi scopre di non essere umano. Poi si rende conto che non potrà mai essere umano; che può solo starsene lì a prendere ordini dagli umani. Dopo di che, impazzisce. Scrollai le spalle. — È un dilemma insolubile. Non può essere umano, non potrà mai essere umano. Forse Ian non riuscirà a salvare i suoi passeggeri, ma tenterà. Invece un essere artificiale, non umano, senza il minimo attaccamento per la razza umana, potrebbe schiantarsi con la nave per puro e semplice piacere. Perché si è stancato di essere trattato da non umano. No, Georges. Io volerò sempre con Ian. Non con la tua creatura sintetica che potrebbe imparare a odiare gli umani. — Non la mia creatura, cara signora — ribatté dolcemente Georges. — Non hai notato in che modo ho discusso del progetto? — Forse no. — Al condizionale, con molti se. Perché niente di quello che hai detto tu mi giunge nuovo. Non ho mai promesso di impegnarmi in questa impresa, e non lo farò. Io posso progettare un pilota perfetto. Ma non mi è possibile inserire in questa creatura l’impegno etico che è l’essenza del mestiere di Ian. Ian era molto pensoso. — Forse nell’incontro con la direzione dovrei esigere a ogni costo che si misuri l’impegno etico di un eventuale pilota artificiale. — E come lo misuri Ian? Io non ho modo di programmare l’impegno etico nel feto, e Marj ha già spiegato perché anche l’addestramento non servirebbe a nulla. Che prove si potrebbero usare? Georges si girò verso di me. — Da studente ho letto diverse storie classiche sui robot umanoidi. Racconti affascinanti e molti erano imperniati sulle cosiddette leggi della robotica. Il concetto fondamentale era che in questi robot veniva programmata l’esigenza assoluta di non fare del male agli esseri umani, né direttamente né per inazione. Una trovata letteraria fantastica… Ma nella pratica com’era possibile? Cosa può dare il senso di lealtà per gli uomini a un essere autocosciente, non umano, intelligente, sia elettronico o organico? Io non so come fare. Gli specialisti di intelligenza artificiale mi sembrano allo stesso punto morto. Georges si esibì in un sorrisetto cinico. — Si potrebbe quasi definire l’intelligenza come il livello a cui un essere cosciente si chiede: «Io cosa ci guadagno?» — Continuò: — Marj, forse per la faccenda di vendermi un tuo uovo dovrei cercare di spiegarti cosa ci guadagnerai tu. — Non starlo a sentire — invitò Janet. — Ti farà coricare su un tavolo gelato e guarderà nel tuo tunnel dell’amore senza la minima intenzione romantica. Io lo so. Mi sono lasciata convincere tre volte. E non mi ha nemmeno pagata. — Come posso pagarti se abbiamo la comunione dei beni? Marjorie, mia dolce signora, il tavolo non è gelato ed è imbottito e si può leggere o guardare un terminale o fare quello che si vuole. È un grosso miglioramento rispetto alle procedure di una generazione fa, quando perforavano la parete addominale e spesso rovinavano un’ovaia. Se tu… — Zitti! — disse Ian. — C’è qualcosa di nuovo sul video. — Alzò il volume. — …Consiglio per la Sopravvivenza. Gli eventi delle ultime dodici ore sono un monito per i ricchi e i potenti. I loro giorni sono terminati e la giustizia deve trionfare. Gli omicidi e altre salutari lezioni continueranno finché le nostre giuste richieste non saranno accettate. Restate sintonizzati sul vostro canale locale d’emergenza… 11 Tutti coloro che quel giorno erano troppo giovani per aver sentito l’annuncio avranno senz’altro letto a scuola. Ma io devo sintetizzarlo per spiegare come cambiò me e la mia strana vita. Questo cosiddetto «Consiglio per la Sopravvivenza» sosteneva di essere una società segreta di «uomini giusti» dediti a correggere le miriadi di errori sulla Terra e sui molti pianeti e luoghi dove viveva l’umanità. Era questo l’impegno solenne delle loro vite. Ma per prima cosa pensavano di immolare le vite di parecchia altra gente. Dissero che avevano compilato elenchi dei veri padroni e signori di ogni luogo, della Terra e fuori; elenchi separati per ogni stato territoriale, più una grande lista di leader mondiali. Quelli erano i loro bersagli. Il Consiglio rivendicò i primi omicidi e promise di uccidere ancora, e ancora, e ancora, finché le sue richieste non fossero state accolte. Dopo aver nominato i leader mondiali, la voce che arrivava a noi cominciò a recitare l’elenco del Canada Britannico. Dalle espressioni e dal pensoso annuire vidi che i padroni e la padrona di casa erano d’accordo su molte scelte. Nell’elenco compariva il vice primo ministro, ma non il primo ministro stesso, una donna; con mia sorpresa, ma forse per lei fu una sorpresa ancora maggiore. Come vi sentireste voi se dopo aver dedicato l’intera esistenza alla politica, dopo esservi arrampicati in vetta, vedeste arrivare un furbone che dice che non siete nemmeno tanto importanti da essere assassinati? Un po’ come sparire dietro un gatto! La voce promise che non ci sarebbero state altre morti per dieci giorni. Se la situazione non fosse cambiata, uno su dieci dei nomi restanti sarebbe stato estratto a sorte per l’esecuzione. I condannati a morte non sarebbero stati avvertiti; li avrebbero semplicemente uccisi. Dieci giorni più tardi, altra estrazione di uno su dieci. E così via, fino a che i superstiti non avessero raggiunto l’utopia. La voce spiegò che il Consiglio non era un governo e non avrebbe sostituito alcun governo; era un semplice guardiano della morale, la coscienza pubblica dei potenti. I potenti sopravvissuti sarebbero rimasti al potere; ma potevano sopravvivere solo facendo giustizia. Erano avvertiti di non provare a dimettersi. — Questa è la voce della Sopravvivenza. Il paradiso in Terra è imminente! — Stop. Ci fu una lunga pausa dopo la fine del nastro, prima che sullo schermo apparisse un commentatore in diretta. Janet spezzò il silenzio con: — Sì, però… — Sì però cosa? — chiese Ian. — Non c’è dubbio, quell’elenco comprende quasi tutti i potenti della nazione. Ammettiamo che uno sia sull’elenco e se la faccia sotto dalla paura, al punto di essere pronto a tutto per non rischiare l’omicidio. Cosa fa? Cos’è la giustizia? («Cos’è la verità?» chiese Ponzio Pilato, e si lavò le mani. Non avevo risposte, per cui restai zitta.) — Mia cara, è semplice — rispose Georges. — Cavoli! In che senso? — Hanno semplificato tutto loro. Ogni padrone o capo o tiranno in teoria sa cosa dovrebbe fare, e adesso deve farlo. Se fa ciò che deve, tutto bene. Se sbaglia, la sua attenzione viene richiamata sull’errore… dal dottor Guillotine. — Georges, sii serio! — Amore mio, non sono mai stato più serio. Se il cavallo non riesce a saltare l’ostacolo, sparagli. Continua a farlo, e alla fine troverai un cavallo che riuscirà a saltare… Se non avrai finito i cavalli. È il tipo di pseudologica plausibile che molta gente usa nelle questioni politiche. C’è da chiedersi se l’umanità sia capace di essere ben governata da un qualunque sistema di governo. — Il governo è un affare sporco — ringhiò Ian. — Vero. Ma l’omicidio è ancora più sporco. Questa discussione politica potrebbe continuare ancora oggi, se il terminale non fosse tornato a illuminarsi. Ho notato che le discussioni politiche non si concludono mai; vengono semplicemente interrotte da un fattore esterno. Un’annunciatrice vera, in diretta, riempì lo schermo. — Il nastro che avete appena ascoltato — comunicò — è stato consegnato a mano a questa stazione. L’ufficio del primo ministro ha già respinto il nastro e ha ordinato a tutte le stazioni che non lo hanno ancora trasmesso di non farlo, pena le sanzioni previste dall’Atto di Salute Pubblica. È palese che la censura preventiva costituita da quest’ordine è anticostituzionale. La Voce di Winnipeg continuerà a tenervi informati su tutti gli sviluppi. Vi esortiamo a mantenere la calma e a restare in casa. Uscite solo se la vostra presenza è necessaria per servizi pubblici essenziali. Poi ripresero a trasmettere le notizie già sentite, per cui Janet tolse il video e lasciò sullo schermo solo i flash scritti. Io dissi: — Ian, supponendo che io debba restare qui finché le cose nell’Impero non si sistemeranno… — Non è un’ipotesi. È un fatto. — Sissignore. Allora ho urgenza di chiamare il mio datore di lavoro. Posso usare il vostro terminale? Con la mia carta di credito, ovviamente. — Senza la tua carta. Chiamerò io e pagheremo noi. Mi sentii vagamente seccata. — Ian, apprezzo la generosa ospitalità che voi, tutti voi, mi dimostrate. Ma se insisti a voler pagare anche le cose che un ospite deve pagare da sé, dovresti registrarmi come tua concubina e assumerti la responsabilità dei miei debiti. — Ragionevole. Che stipendio chiedi? — Aspetta! — intervenne Georges. — Io pago meglio. Lui è uno scozzese taccagno. — Non dare retta a quei due — mi consigliò Janet. — Georges pagherebbe di più, ma in cambio dello stipendio si aspetterebbe di farti posare e rubarti un uovo. Io invece ho sempre voluto una schiava d’harem. Tesoro, tu saresti un’odalisca perfetta anche senza un gioiello nell’ombelico. Ma sai grattare la schiena? e come canti? Adesso arriviamo alla domanda chiave: che sentimenti provi per le donne? Magari puoi sussurrarmi all’orecchio. Io dissi: — Forse è meglio che esca e rientri e ricominci da capo. Voglio solo fare una telefonata. Ian, posso usare la mia carta di credito per chiamare il mio boss? È una MasterCard, credito tripla A. — Emessa dove? — Banca Imperiale di Saint Louis. — Deduco da questo piccolo particolare che non hai sentito un annuncio precedente. Oppure vuoi che la tua carta di credito venga annullata? — Annullata? — C’è l’eco? La ReteCredito del Canada Britannico ha annunciato che le carte di credito emesse nell’Impero e in Québec hanno valore zero per l’intera durata dell’emergenza. Per cui, se la infili nella fessura, il puzzo di plastica bruciata ti insegnerà le meraviglie dell’era del computer. — Oh. — Parla. Mi è sembrato di sentirti dire «Oh». — Infatti. Ian, posso presentare le più umili scuse? E poi chiamare il mio boss a vostre spese? — Sicuro che puoi… se Janet ti autorizza. È lei che manda avanti la casa. — Janet? — Non hai risposto alla mia domanda, cara. Sussurrami all’orecchio. Così le sussurrai all’orecchio. Lei sgranò gli occhi. — Prima la telefonata. — Le diedi il codice e lei lo batté per me, usando il terminale della sua stanza. Le scritte si fermarono e prese a lampeggiare un annuncio: misura di sicurezza — nessun circuito per l’Impero di Chicago. Lampeggiò per dieci secondi, poi si spense. Io lanciai una bestemmia molto sincera, e sentii Ian alle mie spalle: — Cattiva, cattiva. Le brave ragazzine e le signore non dicono certe cose. — Non sono nessuna delle due. E sono frustrata! — Lo sapevo già. Avevo visto quell’annuncio prima. Ma sapevo anche che dovevi provarci, se no non ci avresti creduto. — Sì. Avrei insistito. Ian, non sono solo frustrata. Sono finanziariamente a zero. Ho un credito sterminato alla Banca Imperiale di Saint Louis e non posso toccarlo. Ho un paio di dollari ennezeta e qualche spicciolo. Ho cinquanta corone imperiali. E una carta di credito sospetta. Non si era parlato di un contratto di concubinaggio? Potresti assumermi per due soldi. Il mercato è in mano a chi compera. — Dipende. Le circostanze cambiano le situazioni, e forse adesso io potrei non offrire più di vitto e alloggio. Cos’è che hai sussurrato a Janet? Potrebbe capovolgere le cose. Janet rispose: — Mi ha sussurrato Honi soit qui mal y pense. — Non era vero. — Un sentimento che ti raccomando, mio buon uomo. Marjorie, tu non stai peggio di un’ora fa. Continui a non poter tornare a casa finché le cose non si saranno sistemate… e quando accadrà, il confine e le linee di comunicazione saranno riaperti, e la tua carta di credito verrà di nuovo onorata… se non qui, dall’altra parte del confine, a meno di un centinaio di chilometri di distanza. Quindi incrocia le braccia e aspetta… — «Con cuore calmo e mente tranquilla.» Sì, fai così — convenne Ian — e Georges passerà il tempo a dipingerti. Perché anche lui è nelle stesse rogne. Siete tutti e due estranei pericolosi e verrete internati se uscite di casa. — Ci siamo persi un altro annuncio? — chiese Janet. — Sì. Anche se è una replica. Georges e Marjorie dovrebbero presentarsi alla più vicina stazione di polizia. Non ve lo raccomando. Georges lo ignorerà, farà l’indiano. Dirà che non credeva la cosa riguardasse anche i residenti abituali. Naturalmente potrebbero rimettervi in libertà sulla parola. Oppure potreste trascorrere tutto l’inverno in baraccamenti militari provvisori. In questa stupida emergenza, niente garantisce che fra una settimana sarà terminata. Ci pensai sopra. Colpa della mia stupidità. In missione non viaggio mai con una sola carta di credito, e porto sempre una bella riserva di contanti. Ma avevo presunto, sciaguratamente, che una vacanza non richiedesse la cinica regola di tanti malloppetti di denaro nelle diverse valute. Con un bel po’ di soldi, un non iniziato può comperarsi l’ingresso alla riunione di una società segreta, e uscirne senza che gli abbiano torto un capello. Ma senza soldi? Era dai tempi dell’addestramento di base che non provavo a vivere delle mie sole risorse naturali. Forse sarei stata costretta a scoprire se l’addestramento era servito a qualcosa. Grazie a Dio il clima era caldo! Georges stava urlando: — Alzate il volume! O venite qui! Corremmo a raggiungerlo. — …Del Signore! Non prestate ascolto alle sciocche vanterie dei peccatori! Noi soli siamo responsabili dei segnali apocalittici che vedete attorno a voi. I servi di Satana hanno cercato di usurpare la Sacra opera degli strumenti scelti da Dio e di distorcerla per i loro malvagi fini. Per questo ora vengono puniti. Nel frattempo, i signori terreni degli affari mondani quaggiù hanno l’ordine di eseguire le seguenti Opere Sacre. «Ponete fine a ogni incursione nel regno celeste. Se il Signore avesse voluto che l’uomo volasse nello spazio gli avrebbe dato le ali. «Non permettete che le streghe vivano. La cosiddetta ingegneria genetica si fa beffe degli obiettivi più cari al Signore. Distruggete gli orridi covi in cui si svolgono questi riti. Uccidete i morti viventi evocati in quei pozzi oscuri. Impiccate le streghe che praticano queste arti abominevoli.» (— Dio — disse Georges. — Credo che parlino di me. — Io non commentai: sapevo che parlavano di me.) — Gli uomini che si giacciono con gli uomini, le donne che si giacciono con le donne, chiunque si giaccia con le bestie: tutti costoro morranno lapidati. Come le donne sorprese in adulterio. «Papisti e saraceni e infedeli ed ebrei e tutti coloro che si prostrano davanti a immagini di idoli: gli Angeli del Signore vi dicono: Pentitevi poiché l’ora è vicina! Pentitevi o assaggerete le veloci spade degli strumenti scelti dal Signore. «Pornografi e prostitute e donne di facili costumi, pentitevi! O dovrete subire l’ira terribile del Signore! «Peccatori di ogni sorta, restate sintonizzati su questo canale per ricevere le istruzioni che vi permetteranno di vedere la Luce. «Per ordine del Primo Generale degli Angeli del Signore.» Il nastro terminò e ci fu un’altra pausa. Ian disse: — Janet, ricordi la prima volta che abbiamo visto gli Angeli del Signore? — Come potrei dimenticarlo? Ma non mi sarei mai aspettata una cosa tanto ridicola. Io dissi: — Sono davvero Angeli del Signore? Non solo un altro incubo concretizzato sullo schermo? — Uhm. È difficile mettere in rapporto gli Angeli che Ian e io abbiamo visto con questa storia. Alla fine di marzo o ai primi di aprile ero andata al porto a prendere Ian. L’atrio era pieno di Hare Krishna: tuniche arancioni e teste rapate che saltellavano su e giù chiedendo soldi. Un gruppo di Scientologi stava uscendo dal cancello per gli affari propri. Se non sbaglio c’era un raduno delle sezioni nordamericane. E quando i due gruppi hanno cominciato a fondersi sono spuntati gli Angeli del Signore. Cartelli fatti in casa, tamburelli e clave. «Marj, è stata la zuffa più colossale che io abbia mai visto. A distinguere le tre parti non c’erano problemi. Gli Hare Krishna sembravano pagliacci, inconfondibili. Gli Angeli e gli Hubbarditi non portavano tuniche, ma si capiva benissimo chi fosse chi. Gli Scientologi erano ordinati e puliti e coi capelli corti; gli Angeli parevano letti sfatti. E puzzavano come fogne. Mi è arrivata una zaffata al naso e mi sono spostata subito controvento. «Gli Scientologi, si sa, hanno dovuto lottare molte volte per i loro diritti. Combattevano con disciplina, si difendevano, si disimpegnavano in fretta, e si ritiravano portando con sé i feriti. I Krishna lottavano come galline starnazzanti e si lasciavano dietro i feriti. Ma gli Angeli del Signore combattevano come pazzi, e secondo me lo sono. Si buttavano nella mischia agitando clave e pugni e non si fermavano finché non piombavano a terra immobilizzati. Per fermarli ci sono voluti tanti poliziotti a cavallo quanti erano gli Angeli… e di solito ne basta uno solo per sedare una rissa. «Pare che gli Angeli sapessero dell’arrivo degli Hubbarditi, e si sono presentati lì per assalirli. Gli Hare Krishna ci sono finiti in mezzo per caso. Erano al porto semplicemente perché è un buon posto per mettere sotto il naso della gente le loro scatolette per le offerte. Però, quando gli Angeli si sono accorti che non riuscivano a picchiare per bene gli Scientologi, hanno deciso di dare una buona lezione ai Krishna.» Ian era d’accordo. — Io ho visto la battaglia dall’altra parte della barricata. Gli Angeli erano completamente fuori di testa. Probabilmente erano tutti fatti, però non avrei mai creduto che un simile ammasso di straccioni puzzolenti potesse diventare una minaccia per tutto il pianeta. Accidenti, non ci credo nemmeno adesso. Secondo me stanno cercando di arraffare crediti altrui, come gli psicotici pronti a confessare ogni delitto spettacolare. — Però non vorrei trovarmeli davanti — aggiunse Janet. — Giusto. Sarebbe meglio affrontare un branco di cani selvatici. Però non vedo come dei cani potrebbero rovesciare un governo, o un mondo intero. Nessuno di noi immaginava che potessero presentarsi altri pretendenti; ma due ore più tardi si fecero vivi gli Stimolatori. — Vi parla un portavoce autorizzato degli Stimolatori. Siamo stati noi a dare il via alle prime esecuzioni e a scegliere con cura i bersagli. Non abbiamo avviato le sommosse o commesso le atrocità che si sono verificate in seguito. Abbiamo ritenuto necessario interrompere alcune comunicazioni, che verranno ripristinate non appena la situazione lo permetterà. Gli eventi ci hanno spinti a modificare il nostro piano sostanzialmente innocuo e non violento. Opportunisti che si definiscono Consiglio per la Sopravvivenza nei paesi di lingua inglese, oppure Eredi di Trotsky o altre sigle assurde in altre nazioni, hanno cercato di impadronirsi del nostro programma. Li si può individuare grazie al fatto che non hanno alcun loro programma. «Ancora peggio sono i fanatici religiosi che si fanno chiamare Angeli del Signore. Il loro cosiddetto programma è un’accozzaglia senza senso di slogan anti-intellettuali e perfidi pregiudizi. Non possono vincere, ma la loro dottrina d’odio può facilmente mettere il fratello contro il fratello, il vicino contro il vicino. È necessario fermarli. «Decreto d’emergenza numero uno: tutte le persone che si definiscono Angeli del Signore sono condannate a morte. Le autorità di ogni luogo eseguiranno questa sentenza immediatamente, ovunque e appena ne venga scoperto uno. I privati cittadini, sudditi o residenti, sono tenuti a consegnare questi cosiddetti Angeli all’autorità più vicina, arrestandoli personalmente, e sono autorizzati a ricorrere alla forza quando sia necessario per eseguirne l’arresto. «Aiutare, sostenere, soccorrere o nascondere un appartenente a questo gruppo proscritto rappresenta un delitto capitale. «Decreto d’emergenza numero due: accreditarsi il merito o la responsabilità di una qualunque azione degli Stimolatori, o accreditarsi il merito di un’azione eseguita per ordine degli Stimolatori, rappresenta un delitto capitale. Le autorità di ogni luogo hanno l’ordine di considerarlo tale. Questo decreto si applica al, ma non è limitato al, gruppo di individui che si fanno chiamare Consiglio per la Sopravvivenza. «Programma di riforma. Le misure di riforma che seguono hanno validità immediata. I leader politici, economici e industriali hanno la responsabilità, a livello sia individuale sia collettivo, di rendere operante ogni misura di riforma, pena la morte. «Riforme immediate: tutti i salari, prezzi e affitti sono congelati. Tutte le ipoteche su immobili occupati dai proprietari sono annullate. Tutti gli interessi sono fissati al sei per cento. «In ogni paese, le industrie attive sono nazionalizzate nella misura in cui già non lo erano. I medici devono ricevere uno stipendio pari a quello degli insegnanti di scuole superiori; gli infermieri saranno pagati agli stessi livelli degli insegnanti delle scuole inferiori; tutto il rimanente personale paramedico e ausiliario riceverà stipendi di entità affine. Ogni retta per cliniche e ospedali è abolita. Tutti i cittadini, sudditi o residenti, riceveranno in ogni momento un’assistenza sanitaria ai massimi livelli. «Tutte le industrie e i servizi attualmente attivi resteranno in attività. Dopo il periodo di transizione, mutamenti d’impiego saranno permessi e richiesti laddove questi cambiamenti favoriscano il benessere generale. «Le prossime esecuzioni dimostrative si svolgeranno fra dieci giorni da oggi, più o meno due giorni. L’elenco di funzionari e leader a rischio emanato dal cosiddetto Consiglio per la Sopravvivenza non viene né confermato né negato. «Ognuno di voi deve scrutare nel proprio cuore e nella propria coscienza e chiedersi se sta facendo o no il meglio per gli altri membri della razza umana. Se la risposta è sì, state tranquilli. Se la risposta è no, potreste appartenere al prossimo gruppo scelto per dare lezioni esemplari a tutti coloro che hanno trasformato il nostro bel pianeta in un inferno di ingiustizie e privilegi. «Decreto speciale: la produzione di pseudopersone cesserà immediatamente. Tutte le cosiddette persone artificiali e/o le creature sintetiche si terranno pronte a consegnarsi, dietro nostro ordine, alla più vicina autorità di riforma. Per il momento, mentre si preparano piani per fare in modo che questi quasi-individui vivano la propria vita senza ulteriore danno alla gente e in circostanze che non creino più ingiuste competizioni, queste creature continueranno a lavorare, ma trascorreranno in casa tutto il resto del tempo. «Tranne nelle circostanze che seguono, alle autorità locali è proibito uccidere queste…» L’annuncio si interruppe. Poi sullo schermo apparve un viso: maschile, sudato e preoccupato. — Sono il sergente Malloy e vi parlo a nome del capo della polizia Henderson. Queste trasmissioni sovversive non saranno più permesse. Riavranno inizio i normali programmi. Ma restate sintonizzati su questo canale per gli annunci d’emergenza. — Sospirò. — È un brutto momento, ragazzi. Abbiate pazienza. 12 Georges disse: — Eccoci qua, miei cari. Scegliete voi. Una teocrazia retta da gente che brucia le streghe. O un socialismo fascista progettato da ragazzini ritardati. O un branco di pragmatisti duri che preferiscono la politica di sparare al cavallo che non salta. Fatevi avanti! Un solo articolo per ogni cliente. — Basta, Georges — gli disse Ian. — Non c’è da scherzare. — Fratello, io non scherzo. Piango. Una gang ha deciso di spararmi a vista, un’altra semplicemente di mettere fuori legge la mia arte e protezione, e la terza che minaccia senza specificare mi sembra ancora più paurosa. Nel frattempo, a meno di non trovare conforto in un rifugio meramente fisico, questo munifico governo, alma mater di tutta la mia vita, mi dichiara straniero e nemico degno solo di essere distrutto. Cosa devo fare? Scherzare? O versare lacrime sul tuo collo? — Puoi piantarla di essere così maledettamente gallo, ecco cosa puoi fare. Il mondo ci sta impazzendo intorno. Sarebbe meglio cominciare a pensare a cosa possiamo fare. — Piantatela tutti e due — disse Janet, ferma ma dolce. — Una cosa che tutte le donne sanno e solo pochi uomini imparano è che in certi momenti l’unica mossa saggia è fare nulla e aspettare. Vi conosco, voi due. Vorreste correre all’ufficio reclutamento, arruolarvi per l’intero periodo di emergenza, e consegnare le vostre coscienze ai sergenti. Questa tattica andava bene per i vostri padri e nonni, e mi spiace molto che non vada bene per voi. La nostra nazione è in pericolo e con lei il nostro stile di vita, questo è chiaro. Ma se qualcuno ha un’idea migliore del restarsene seduti qui ad aspettare, parli pure. Se no, non mettiamoci a rincorrerci la coda. Si sta avvicinando quella che dovrebbe essere l’ora del pranzo. Qualcuno riesce a pensare a qualcosa di meglio da fare? — Abbiamo fatto colazione molto tardi. — E pranzeremo tardi. Quando avrai messo il cibo in tavola, mangerai, e mangerà anche Georges. Una cosa possiamo farla. In caso la situazione peggiori ancora di più, Marj dovrebbe sapere dove trovare rifugio dalle bombe. — O da che altro. — O da che altro. Sì, Ian. Per esempio dalla polizia che cerca nemici stranieri. Voi due uomini grandi e coraggiosi avete deciso cosa fare se bussassero alla porta? — Ci ho riflettuto — rispose Georges. — Per prima cosa tu consegni Marj ai cosacchi. Questo li distrarrà e mi darà il tempo di trasferirmi molto, molto lontano. È un piano. — Infatti — convenne Janet. — Ma vorresti lasciare intendere di averne un altro? — Non dotato della semplice eleganza del primo. Comunque sì, per quello che può valere, ho un secondo piano. Io mi consegno alla Gestapo, il che ci permette di decidere se io, distinto ospite e integerrimo contribuente che non ha mai mancato di contribuire al fondo di assistenza per la polizia e al ballo dei pompieri, posso essere o no chiuso in carcere per nessunissimo motivo. Mentre io mi sacrifico per ragioni di principio, Marj si può infilare nel nascondiglio e starsene buona. Quelli non sanno che è qui. Disgraziatamente sanno che ci sono io. È meglio, incommensurabilmente meglio… — Non essere tanto nobile, amore. Non ti si addice. Fonderemo i due piani. Se, no, quando verranno a cercare uno di voi o tutti e due, vi infilate nel rifugio e ci restate tutto il tempo necessario. Giorni. Settimane. Quello che è. Georges scosse la testa. — Non io. Umido. Insalubre. — E poi — aggiunse Ian — ho promesso a Marj che l’avrei protetta da Georges. Che senso ha salvarle la pelle se poi la consegni a un maniaco sessuale franco-canadese? — Non credergli, tesoro. Sono i liquori il mio debole. — Amore, vuoi essere protetta da Georges? Risposi, in tutta sincerità, che forse era Georges a dover essere protetto da me. Non offrii spiegazioni. — In quanto alle tue lamentele sull’umidità, Georges, il buco ha esattamente la stessa umidità del resto della casa, una confortevole u.r. di quarantacinque. L’ho progettata io così. Se sarà necessario ti infileremo nel buco, ma non ti consegneremo alla polizia. — Janet si girò verso di me. — Vieni, amore. Ci facciamo un giretto. Piuttosto bagnato. Mi portò alla stanza che mi avevano dato, raccolse la mia sacca. — Cosa hai qui dentro? — Non molto. Un paio di mutandine di ricambio e qualche calza. Il passaporto. Una carta di credito inutile. Un po’ di soldi. Carta d’identità. Un taccuino. I miei veri bagagli sono al deposito del porto. — Tanto meglio. Perché tutte le tracce della tua presenza finiranno nella mia camera. In fatto di vestiario, tu e io abbiamo più o meno la stessa taglia. — Frugò in un cassetto e tirò fuori un busta di plastica infilata a una cintura: una comune cintura di portamonete per donne. La riconobbi anche se non ne avevo mai usata una; nella mia professione non servono. Troppo ovvie. — Metti qui dentro tutto quello che non puoi permetterti di perdere, poi infilati la cintura. La sigilleremo. Perché ti ritroverai umida dalla testa ai piedi. Ti dà fastidio bagnarti i capelli? — Santo cielo, no. Li asciugherò con una salvietta e li scuoterò un po’. Oppure li ignorerò. — Bene. Riempi la busta e spogliati. Inutile bagnare i vestiti. Però se dovessero arrivare i gendarmi, tuffati vestita. Farai asciugare tutto nel buco. Qualche attimo più tardi eravamo nella grande vasca da bagno. Io indossavo la cintura sigillata, Janet solo un sorriso. — Tesoro — disse, puntando l’indice — guarda sotto il sedile là in fondo. Mi spostai un po’. — Non vedo bene. — L’ho progettata io così. L’acqua è chiara e si vede il fondo dappertutto. Ma nell’unico punto dove si riuscirebbe a vedere sotto il sedile, la luce si riflette sull’acqua e ti arriva negli occhi. Sotto il sedile c’è un tunnel. Non puoi vederlo da nessun punto, ma se ti ficchi a testa in giù nell’acqua lo sentirai tastando con le mani. È largo poco meno di un metro, alto circa mezzo metro, e lungo sei metri. Ti trovi a tuo agio nei posti chiusi? Hai problemi di claustrofobia? — No. — Benissimo. Perché l’unico modo per arrivare nel buco è riempirsi i polmoni d’aria, tuffarsi, e infilarsi nel tunnel. Spingersi avanti è abbastanza facile; sul fondo ci sono scanalature sporgenti. Però devi credere che non è troppo lungo, che riemergerai all’aperto prima che la tua scorta di fiato si esaurisca, e che ti basterà rimetterti in piedi per tornare a respirare. Sarai al buio, ma la luce si accende in fretta; è un interruttore a radiazioni termiche. Questa volta ti precederò io. Pronta a seguirmi? — Penso di sì. Sì. — Si parte. — Janet scese dal sedile, si spostò sul fondo della vasca. L’acqua le arrivava alla vita o un poco più sopra. — Un respiro profondo! — Si riempì i polmoni di aria, sorrise, scomparve sott’acqua e sotto il sedile. Io scesi in acqua, mi iperventilai, e la seguii. Non vedevo il tunnel ma fu facile trovarlo al tatto, facile avanzare, grazie alle scanalature sul fondo spesse un dito. Però mi parve che il passaggio fosse parecchie volte più lungo di sei metri. All’improvviso una luce si accese davanti a me. Tesi le braccia, mi tirai su; Janet mi diede una mano, mi aiutò a uscire dall’acqua. Mi trovai in una stanza molto piccola, col soffitto a non più di due metri dal pavimento in cemento. Era più carina di un loculo, ma non troppo. — Girati cara. Di qui. «Di qui» era una pesante porta d’acciaio alta sopra il pavimento che partiva dal soffitto; la attraversammo tirandoci a sedere sulla soglia e buttando i piedi dall’altra parte. Janet la chiuse alle nostre spalle; ci fu un soffio cupo, come fosse la porta di una cripta. — È a sovrappressione — spiegò lei. — Se una bomba cadesse nelle vicinanze, le onde d’urto farebbero arrivare l’acqua fin qui attraverso il tunnel. La porta la fermerebbe. Ovviamente, se ci centrassero in pieno… Non ce ne accorgeremmo nemmeno, per cui non ho preso precauzioni particolari. — Aggiunse: — Guardati in giro, ambientati. Ti cerco una salvietta. Eravamo in una stanza lunga, stretta, col soffitto ad arco. Lungo la parete destra c’erano brandine, un tavolo con sedie e un terminale più indietro, e in fondo, sulla destra, una piccola galleria e una porta che evidentemente conduceva a un bagno, visto che Janet vi entrò e ne uscì subito con una grande salvietta. — Stai buona e lasciati asciugare da mamma — disse. — Qui non ci sono apparecchi ad aria calda. Tutto è il più semplice e meno automatizzato possibile, e perfettamente funzionale. Mi sfregò fino a farmi diventare rossa la pelle, poi presi io la salvietta e ripetei l’operazione su di lei. Fu un piacere, perché Janet è proprio un bel pezzo di donna. Alla fine lei disse: — Basta amore. Adesso ti faccio fare in tutta fretta il giro turistico da cinque dollari. Qui non ci tornerai più, a meno che non sia costretta a usarlo come rifugio… E potresti essere sola, sì, potrebbe succedere, e la tua vita potrebbe dipendere dal sapere tutto di questo posto. «Per prima cosa, vedi quel libro appeso a una catena alla parete sopra il tavolo? Contiene le istruzioni e l’inventario e la catena non l’ho messa per scherzo. Con quel libro non hai bisogno del giro da cinque dollari. Lì dentro c’è scritto tutto. Aspirina, munizioni, o succo di mela, lì c’è tutto. Però mi concesse, in fretta, un giro come minimo da tre dollari e novantacinque: scorte di cibo, frigorifero, scorte d’aria, pompa a mano per l’acqua nel caso dovesse mancare la pressione, abiti, medicinali, eccetera. — L’ho costruito — mi disse — per tre persone per tre mesi. — Come fai per il ricambio delle scorte? — Tu come faresti? Riflettei. — Svuoterei la vasca di tutta l’acqua. — Sì, esatto. C’è un serbatoio d’accumulo che non appare sulla pianta della casa. Niente di tutto questo è riportato sulla pianta. Ovviamente parecchie cose si possono bagnare o si possono portare qui in contenitori a tenuta stagna. Tra parentesi, la busta con le tue cose è intatta? — Credo di sì. Ho fatto uscire tutta l’aria prima di sigillarla. Jan, questo posto non è un semplice rifugio antibomba, se no non avresti impiegato tanta fatica e soldi per nasconderne l’esistenza. Lei si rannuvolò. — Amore, sei molto acuta. No, non mi sarei mai preoccupata di costruirlo se fosse un semplice rifugio antibomba. Se dovesse cadere una pioggia di bombe H, non avrei nessun’ansia particolare di sopravvivere. L’ho costruito in primo luogo per proteggerci da quelli che vengono pittorescamente definiti disordini civili. Continuò: — I miei nonni mi raccontavano sempre di un’epoca in cui la gente era buona, cortese, e nessuno aveva paura di uscire di sera, e spesso non si chiudevano nemmeno le porte a chiave, e tanto meno si recingevano le case con steccati e mura e filo spinato e laser. Può darsi che sia vero; non sono tanto anziana da poterlo ricordare. Personalmente ho l’impressione che in vita mia le cose non abbiano fatto che peggiorare. Il mio primo lavoro, appena finita l’università, è stato progettare difese segrete per vecchi edifici da ristrutturare. Ma le attrezzature usate allora, e guarda che non sono passati tanti anni! sono già obsolete. All’epoca l’idea era quella di fermare e spaventare l’intruso. Oggi si usano difese a due livelli. Se il primo livello non ferma l’intruso, il secondo lo ucciderà. È del tutto illegale, e chiunque possa permetterselo fa così. Marj, cosa non ti ho mostrato? Non guardare nel libro, non lo troveresti. Guarda nella tua testa. Qual è la caratteristica essenziale del buco che non ti ho fatto vedere? (Voleva davvero che glielo dicessi?) — A me sembra completo… Basta che mi mostri gli Shipstone e gli Shipstone ausiliari. — Pensaci, tesoro. La casa sopra di noi è ridotta in briciole. O magari è occupata da invasori. O dalla nostra stessa polizia che cerca te e Georges. Che altro ci occorre? — Be’… Tutte le cose che vivono sottoterra, le volpi, i conigli, i roditori, hanno un’uscita di sicurezza. — Brava! Dov’è? Finsi di guardarmi attorno per cercarla. Ma in realtà una specie di prurito che senza dubbio risaliva all’addestramento intermedio (Non rilassatevi finché non avrete individuato la via di fuga) mi aveva spinta già prima a fare indagini. — Se si può scavare in quella direzione, direi che l’uscita di sicurezza dovrebbe essere in quell’armadio. — Non so se congratularmi con te o riflettere su come avrei potuto nasconderla meglio. Sì, si entra nell’armadio e si gira a sinistra. Le luci si accendono alle radiazioni a trentasette gradi, come quando siamo emerse dal tunnel. Hanno un loro Shipstone e in pratica dovrebbero durare per l’eternità, però credo sia meglio portarsi una torcia elettrica e sai dove si trovano. Il tunnel è piuttosto lungo perché sbuca a una distanza notevole da casa nostra, in un ammasso di cespugli. C’è una porta camuffata, molto pesante, ma basta dare una spinta e poi si richiude da sola. — Perfettamente studiato. Però, Jan, se qualcuno trovasse la porta ed entrasse di lì? O se lo facessi io? Sono praticamente un’estranea. — Tu non sei un’estranea. Sei una vecchia amica che conosciamo da molto. Sì, esiste la vaga possibilità che qualcuno scopra la nostra porta, nonostante il posto in cui si trova e il modo com’è nascosta. Per prima cosa, un orribile allarme risuonerebbe in casa. Dopo di che guarderemmo coi monitor nel tunnel e vedremmo l’immagine su uno dei nostri terminali. A quel punto potremmo prendere diverse misure; la più mite è il gas lacrimogeno. Ma se non fossimo in casa al momento in cui la nostra porta viene scoperta, be’, mi spiacerebbe molto per Ian o Georges, o per tutti e due. — Perché la metti così? — Perché non sarebbe necessario dispiacersi per me. Avrei un attacco improvviso di travolgente debolezza femminile. Non mi sbarazzerò mai di cadaveri, soprattutto di cadaveri che hanno avuto interi giorni a disposizione per marcire. — Mmm… Sì. — Anche se quel corpo non sarebbe morto, se il suo proprietario avesse tanto cervello da pisciare sottovento. Ricorda che sono progettista professionista di difese, Marj, e tieni presente l’attuale politica dei due livelli. Immaginiamo che qualcuno si arrampichi come un verme su per una riva scoscesa, veda la nostra porta, e si rompa le unghie per aprirla. A quel punto non è ancora morto. Se è uno di noi, concepibile ma improbabile, farà scattare un interruttore nascosto appena dietro la porta. Dovrò farti vedere dov’è. Se è un intruso, vedrebbe immediatamente un cartello: PROPRIETÀ PRIVATA — VIETATO FUMARE. Lui lo ignora ed entra e dopo pochi metri una voce ripete lo stesso avvertimento e aggiunge che la proprietà possiede difese attive. L’idiota continua ad avanzare. Sirene e luci rosse, e quello insiste… Dopo di che, il povero Georges o il povero Ian devono trascinare fuori dal tunnel quella spazzatura puzzolente. Non all’esterno comunque, e nemmeno in casa. Se qualcuno si fa ammazzare perché vuole a tutti i costi superare le nostre difese, il suo corpo non verrà ritrovato. Scomparirà. Senti il bisogno di sapere come? — Sono sicurissima di non avere nessun bisogno di saperlo. — (Un tunnel laterale camuffato, Janet, e un pozzo di calce viva; e chissà quanti corpi ci sono già dentro. Janet pare dolce come l’alba dalle rosee dita… e se qualcuno sopravvivrà a questi anni folli, lei sarà uno dei pochi. È tenera di carattere più o meno quanto un Medici.) — Lo penso anch’io. Vuoi vedere altro? — Credo di no, Jan. Soprattutto perché è improbabile che debba mai usare il tuo fantastico rifugio. Torniamo? — Fra un po’. — Superò lo spazio che ci divideva, mi mise le mani sulle spalle. — Cosa mi hai sussurrato? — Mi pareva che avessi sentito. — Sì, ho sentito. — Mi attirò a sé. Il terminale sul tavolo si illuminò. — Pranzo in tavola! Jan era disgustata. — Rompiscatole! 13 Il pranzo fu delizioso. Un assortimento di cibi freddi (sottaceti, formaggi, panini, conserve di frutta, noccioline, ravanelli, scalogno, sedano e simili) circondava una pentola che bolliva su un fornelletto da tavola. Croccanti crostini di pane all’aglio grondavano burro. Georges distribuì la zuppa con la dignità di una maître d’hotel, versandola in grandi fondine. Appena mi fui seduta, Ian mi allacciò al collo un tovagliolo gigante. — Tuffatici come un porcellino — consigliò. Assaggiai la zuppa. — Volentieri! — e aggiunsi: — Janet, devi aver passato tutta la giornata di ieri a curare la zuppa. — Sbagliato! — ribatté Ian. — La nonna ha lasciato questa zuppa in eredità a Georges. — Esagerato — obiettò Georges. — È stata la mia cara mamma, che il buon Dio le conceda gioia, a dare il via a questa zuppa il giorno che sono nato. Mia sorella maggiore ha sempre sperato di riceverla, ma ha sposato un uomo di rango inferiore, un anglo-canadese, così la zuppa è passata a me. Io ho cercato di tenere viva la tradizione, anche se mi sembra che il sapore e il bouquet fossero migliori quando la faceva mia madre. — Non sono pratica di queste cose — dissi. — So solo che questa zuppa non ha mai visto una lattina. — La cottura l’ho cominciata io la settimana scorsa — disse Janet. — Poi Georges ha preso in mano la situazione e l’ha curata lui. Capisce le zuppe meglio di me. — L’unica cosa che capisco della zuppa è che bisogna mangiarla, e spero che in quella pentola ci sia un dividendo anche per me. — Possiamo sempre — mi assicurò Georges — buttare dentro un altro topo. — Ci sono novità, nei notiziari? — chiese Janet. — Che fine ha fatto il tuo ordine di non parlarne a tavola? — Ian, amore mio, tu meglio di chiunque dovresti sapere che i miei ordini riguardano gli altri, non me. Rispondimi. — In generale, nessun cambiamento. Non sono stati segnalati altri omicidi. Se si sono fatti vivi altri pretendenti al titolo di grandi organizzatori del disastro, il nostro governo paternalista ha deciso di non informarci. Porca miseria, odio questo atteggiamento da papà saputello. Papà non sa un accidente di niente, se no non ci troveremmo in questo caos. L’unica cosa che sappiamo è che il governo sta usando la censura. Il che significa che sappiamo niente. Mi viene voglia di sparare a qualcuno. — Di sparatorie ce ne sono già state abbastanza. O vuoi arruolarti negli Angeli del Signore? — Sorridi quando dici cose del genere. O hai voglia di un bel labbro gonfio? — Ricordi com’è andata l’ultima volta che hai cercato di sculacciarmi? — È per questo che ho parlato di un labbro. — Tesoro, ti prescrivo tre drink robusti o un Miltown. Mi spiace vederti sconvolto. La situazione non piace nemmeno a me, ma non credo ci sia altro da fare che aspettare che passi. — Jan, a volte sei di una saggezza quasi irritante. La cosa che mi rovescia veramente lo stomaco è il grande buco nelle notizie, un buco senza alcuna spiegazione. — Cioè? — Le multinazionali. Si è parlato solo di stati territoriali, e non una parola sugli stati societari. Eppure, chiunque sia in grado di contare fino a dieci sulle punte delle dita sa dove sta il vero potere al giorno d’oggi. Quei buffoni assetati di sangue non lo sanno? Georges disse dolcemente: — Vecchio mio, forse è proprio per questo motivo che le multinazionali non sono state indicate come bersagli. — Sì, però… — lan si interruppe. Io dissi: — lan, il giorno che ci siamo conosciuti mi hai fatto notare che è impossibile colpire uno stato societario. Mi hai parlato anche dell’Ibm e della Russia. — Non ho detto questo, Marj. Ho detto che la forza militare è inutile contro una multinazionale. Di solito, quando combattono fra loro, i giganti usano soldi e procure e altre manovre a base di avvocati e banchieri, non di violenza. Oh, a volte, combattono con eserciti prezzolati, però non lo ammettono e non è il loro stile abituale. Ma i buffoni che si sono scatenati adesso usano esattamente le armi adatte per colpire e ferire una multinazionale, l’assassinio e il sabotaggio. È talmente evidente che mi preoccupa non sentirne parlare. Mi viene da chiedermi cosa stia succedendo senza che ce ne informino. Masticai un grosso crostino di pane che avevo intinto in quella zuppa celestiale, poi dissi: — Ian, esiste la vaga possibilità che sia una o più delle multinazionali a condurre lo show, servendosi di fantocci? Ian si rizzò di scatto sulla sedia, così in fretta da rovesciare la zuppa e sporcarsi il bavaglino. — Marj, mi sconcerti. All’inizio ti ho scelta in mezzo alla folla per motivi che non avevano nulla a che vedere col tuo cervello… — Lo so. — …Ma tu insisti ad avere un cervello. Hai intuito subito l’errore nell’idea della compagnia di assumere piloti artificiali, e userò il tuo argomento a Vancouver. Adesso hai preso questo assurdo puzzle di notizie e ci hai incastrato l’unico pezzo che dà senso a tutto. — Non sono certa che abbia senso — ribattei. — Però, stando ai notiziari, ci sono stati omicidi e sabotaggi su tutto il pianeta e sulla Luna e addirittura su Cerere. Questo richiede centinaia di uomini, più probabilmente migliaia. Omicidi e sabotaggi sono lavori da specialisti; richiedono addestramento. Dei dilettanti, anche ammesso di poterli reclutare, sbaglierebbero tutto sette volte su dieci. Insomma, questa storia significa soldi. Un mucchio di soldi. Non basta un’organizzazione politica strampalata o una setta di fanatici religiosi. Chi ha i soldi per una dimostrazione del genere a livello mondiale, che coinvolge l’intero sistema? Non lo so. Ho solo buttato lì una possibilità. — Credo che tu abbia risolto l’enigma. Resta solo da scoprire il chi. Marj, cosa fai quando non te ne stai con la tua famiglia nell’Isola del Sud? — Non ho più famiglia nell’Isola del Sud, Ian. I miei mariti e le mie sorelle di gruppo hanno chiesto il divorzio. (Restai scioccata quanto lui.) Ci fu silenzio in ogni angolo. Poi Ian deglutì e disse piano: — Mi spiace molto, Marj. — Non è necessario, Ian. È stato corretto un errore. Ormai è storia vecchia. Non tornerò in Nuova Zelanda. Però un giorno o l’altro mi piacerebbe fare un salto a Sydney, a trovare Bettie e Freddie. — Sono sicuro che ne sarebbero felici. — Io lo sarei senz’altro. E mi hanno invitata tutti e due. Ian, Freddie cosa insegna? Non me lo avete mai detto. Rispose Georges. — Federico è un mio collega, cara Marjorie… Una lieta circostanza che mi ha condotto qui. — Vero — convenne Janet. — Chubbie e Georges tagliavano geni assieme alla McGill, e tramite quell’amicizia Georges ha conosciuto Betty. Betty lo ha lanciato nella mia direzione e io l’ho preso al volo. — Così Georges e io abbiamo stretto un patto — aggiunse Ian — visto che nessuno dei due riusciva a tenere testa a Jan da solo. Giusto, Georges? — Hai ragione, fratello mio. Ammesso che assieme riusciamo a tenere testa a Janet. — Sono io che ho problemi con voi due — commentò Jan. — Dovrei convincere Marj a firmare come mia assistente. Marj? Non presi sul serio quella quasi-offerta perché ero certa che non fosse seria. Tutti quanti stavano chiacchierando a vuoto per coprire la bomba che io avevo fatto cadere. Lo sapevamo bene. Ma nessuno, a parte me, si era accorto che l’argomento non era più il mio lavoro? Sapevo cosa era successo; ma perché mai la parte profonda della mia mente aveva deciso di cambiar discorso in modo così melodrammatico? Non avrei mai svelato i segreti del Boss! All’improvviso, avvertii il desiderio urgente di comunicare con Boss. Era coinvolto in quegli strani eventi? Se sì, da che parte stava? — Ancora un po’ di zuppa, cara signora? — Non darle altra zuppa finché non avrà risposto. — Ma Jan, non dicevi sul serio. Georges, se prendo dell’altra zuppa mangerò altro pane all’aglio. E diventerò grassa. No. Non tentarmi. — Altra zuppa? — Be’… solo un pochino. — Sono serissima — insistette Jan. — Non sto cercando di metterti le manette, anche perché probabilmente avrai il dente avvelenato col matrimonio. Però potresti provarci, e fra un anno potremmo discuterne. Se ne avrai voglia. Nel frattempo, ti terrò come mio cagnolino… E permetterò a quei due caproni di restare nella stessa stanza con te solo se sarò soddisfatta di come si comporteranno. — Aspetta uri minuto! — Protestò Ian. — Chi l’ha portata qui? Io. Marj è il mio dolce amore. — Il dolce amore di Freddie, stando a Betty. Tu l’hai portata qui per delega di Betty. In ogni caso, questo accadeva ieri, e oggi lei è il mio dolce amore. Se uno di voi due vuole parlarle, dovrete venire da me e farvi punzonare il biglietto. Giusto, Marjorie? — Se lo dici tu, Jan. Ma la questione è puramente teorica, perché io devo assolutamente andarmene. Avete in casa una carta a scala grande del confine? Il confine a sud, intendo. — Abbiamo un’ottima carta. Richiamala sul computer. Se vuoi uno stampato, usa il terminale del mio studio, a destra della camera da letto. — Non voglio interferire coi notiziari. — Non interferirai. Possiamo scollegare qualunque terminale dagli altri. È necessario in una casa di individualisti indemoniati. — Specialmente Jan — convenne Ian. — Marj, perché vuoi una carta del confine dell’Impero? — Preferirei tornare a casa in sotterranea. Ma non posso. Visto che non posso, devo trovare qualche altro modo. — Come pensavo. Tesoro, dovrò nasconderti le scarpe. Non ti rendi conto che se cerchi di attraversare quel confine possono spararti? Poco ma sicuro, in questo momento le guardie su tutti e due i lati avranno il grilletto facile. — Ehm… Posso almeno studiarmi la carta? — Sicuro. Se prometti di non tentare di passare dall’altra parte del confine. Georges disse dolcemente: — Fratello mio, non si dovrebbe mai indurre una persona cara a mentire. — Georges ha ragione — decise Jan. — Niente promesse forzate. Fai pure Marj. Sparecchio io. Ian, ti sei offerto volontario per darmi una mano. Trascorsi le due ore seguenti al terminale del computer, nella stanza presa a prestito. Memorizzai il confine nel suo insieme, poi passai all’ingrandimento massimo e imparai alcune zone nei minimi particolari. Nessun confine può davvero essere chiuso al cento per cento, nemmeno le impervie mura con cui alcuni stati totalitari circondano i loro sudditi. Di solito le rotte migliori sono nei paraggi dei porti d’ingresso custoditi; in quei punti, spesso, le vie di contrabbando filano lisce come l’olio. Ma io non avrei seguito una rotta già nota. Non lontano c’erano molti porti d’ingresso: Emerson Junction, Pine Creek, South Junction, Gretna, Maida, eccetera. Studiai anche il Roseau River, ma pareva scorrere nella direzione sbagliata, verso nord fino a immettersi nel Red River (la carta non era chiara). C’è una bizzarra fetta di terreno che si protende nel Lake of the Woods a est-sudest di Winnipeg. I colori della mappa la rappresentavano come una parte dell’Impero, e non c’era nulla che impedisse di superare il confine in quel punto; purché si fosse disposti ad affrontare diversi chilometri di terreno paludoso. Io non sono una superdonna; potrei fare una brutta fine in una palude; ma quel pezzetto non sorvegliato di confine mi tentava. Alla fine lo lasciai perdere perché, anche se legalmente la fetta di terreno faceva parte dell’Impero, era separata dall’Impero vero e proprio da ventun chilometri d’acqua. Rubare una barca? Ero pronta a scommettere che qualunque barca viaggiasse su quelle acque avrebbe interrotto un raggio-spia. Dopo di che, in mancanza di risorse adeguate, un laser avrebbe scavato un foro grande abbastanza da lasciar passare un cane. Io non discuto coi laser: non puoi comperarli, non puoi corromperli. Lasciai perdere l’idea. Avevo appena smesso di studiare la carta e stavo dando al mio cervello il tempo di assorbire le immagini, quando dal terminale uscì la voce di Janet: — Marjorie, vieni in soggiorno. Spicciati! Mi trasferii molto in fretta. Ian stava parlando a qualcuno sullo schermo. Georges era spostato di lato, fuori campo. Janet fece cenno anche a me di non entrare in campo. — Polizia — mi disse piano. — Ti suggerisco di sparire immediatamente nel buco. Aspetta che ti chiami io quando se ne saranno andati. Anch’io sottovoce le risposi: — Sanno che sono qui? — Non lo sappiamo ancora. — Assicuriamoci. Se sanno che sono qui e non mi trovano, voi sarete nei guai. — I guai non ci fanno paura. — Grazie. Sentiamo un po’. Ian stava dicendo al viso sullo schermo: — Mel piantala. Georges non è uno straniero nemico e lo sai benissimo. In quanto a questa… signorina Baldwin, hai detto?… perché la cerchi qui? — Ha lasciato il porto con te e tua moglie ieri sera. Se non è più con voi, saprete senz’altro dove è andata. In quanto a Georges, oggi come oggi ogni cittadino del Québec è uno straniero nemico, a prescindere dagli anni che ha vissuto qui o dai club a cui è iscritto. Immagino preferiate farlo arrestare da un vecchio amico che da un agente qualsiasi. Spegni la tua antiarea. Sto per atterrare. Janet sussurrò: — Sì, un vecchio amico! È dalle superiori che cerca di venire a letto con me. Sono anni che gli ripeto di no. È viscido. Ian sospirò: — Mel, è un momento piuttosto balordo per parlare d’amicizia. Se Georges fosse qui, sono certo che preferirebbe essere arrestato da un agente qualsiasi, non farsi portare via da un presunto amico. Per cui torna indietro e fai le cose a dovere. — Ah è così, eh? Molto bene. Vi parla il tenente Dickey. Sono qui per operare un arresto. Disattivate l’antiarea. Sto atterrando. — Ian Tormey, proprietario della casa. Ho ricevuto la comunicazione. Tenente, avvicinate il mandato d’arresto allo schermo in modo che possa verificarlo e fotografarlo. — Ian, sei completamente fuori di testa. È stato dichiarato lo stato di emergenza. Non occorre nessun mandato. — Non ti sento. — Forse adesso mi sentirai. Attracco alla tua antiaerea e la carbonizzo. Se incidentalmente dovessi dare fuoco a qualcosa, be’, mi dispiace tanto. Ian aprì le mani a ventaglio, disgustato, poi combinò qualcosa con la tastiera. — Antiaerea disattivata. — Mise il ricevitore in attesa e si girò verso di noi. — Voi due avete tre minuti circa per infilarvi nel buco. Non potrò trattenerlo molto alla porta. Georges ribatté, tranquillo: — Non mi nasconderò in un buco nel terreno. Insisterò perché mi siano garantiti i miei diritti. Se mi saranno negati, appena possibile farò causa a Melvin Dickey e lo ridurrò in mutande. Ian scrollò le spalle. — Canadese pazzo. Però ormai sei cresciuto. Marj, mettiti al sicuro, amore. Non ci vorrà molto a sbarazzarmi di lui. Non è sicuro che tu sia qui. — Se sarà necessario scomparirò nel buco. Ma non potrei semplicemente aspettare nel bagno di Janet? Quello potrebbe andarsene. Sintonizzerò il terminale su quello che succede qui. Va bene? — Marj, stai facendo la difficile. — Allora convinci anche Georges a scappare nel buco. Se lui resta, potreste avere bisogno di me. Per aiutare lui e voi. — Di che diavolo parli? Nemmeno io sapevo di preciso di cosa stessi parlando. Però non mi sembrava degno del mio addestramento passare la mano e andarmi a nascondere in un buco sottoterra. — Ian, questo Melvin Dickey secondo me ha brutte intenzioni per Georges. Gliel’ho sentito nella voce. Se Georges non vuole venire con me nel buco, dovrei andare con lui per controllare che Dickey non gli faccia niente. Chiunque finisca nelle mani della polizia ha bisogno di un testimone a suo favore. — Marj, non potresti mai impedire a… — Risuonò una nota profonda di gong. — Porca miseria! È alla porta. Sparisci! E ficcati nel buco! Sparii. Non mi ficcai nel buco. Corsi nel grande bagno di Janet, accesi il terminale, poi col selettore portai sullo schermo il soggiorno. A volume alzato, era quasi come essere presente di persona. Entrò un galletto tronfio. Il corpo di Dickey non era piccolo: era piccola l’anima. Dickey possedeva un ego taglia dodici in un’anima taglia quattro, in un corpo grande quasi quanto quello di Ian. Apparve nella stanza con Ian, vide Georges, esclamò trionfante: — Eccoti qui! Perreault, ti arresto con l’accusa di non esserti presentato di tua spontanea volontà alla più vicina stazione di polizia, in ossequio al Decreto d’Emergenza, paragrafo sei. — Non ho ricevuto nessun ordine. — Oh, balle! I notiziari non parlano d’altro. — Non ho l’abitudine di seguire i notiziari. Non conosco alcuna legge che mi obblighi a farlo. Posso vedere una copia dell’ordine che dovrebbe autorizzarti ad arrestarmi? — Non cercare di fare il furbo con me, Perreault. Operiamo in condizioni di emergenza nazionale, e io obbedisco. Potrai leggere l’ordine alla stazione. Ian, ti nomino mio vice. Mi occorre aiuto. Prendi qua. — Dickey frugò dietro la schiena con una mano e trovò un paio di manette. — Mettigliele. Mani dietro la schiena. Ian non si mosse. — Mel, non fare l’idiota più del necessario. Non hai nessuna giustificazione per mettere le manette a Georges. — Col cavolo! Siamo a corto di personale e devo eseguire questo arresto senza assistenza. Non posso correre il rischio che mi combini qualche scherzo mentre torniamo indietro. Sbrigati a mettergli le manette! — Non puntare quella pistola su di me! Io non stavo più guardando. Uscivo dal bagno, superavo due porte, percorrevo un lungo corridoio e arrivavo in soggiorno; il tutto con la sensazione di un movimento immobile che provo sempre quando entro in overdrive. Dickey stava cercando di tenere sotto tiro con la pistola tre persone, e una di loro era Janet. Non avrebbe dovuto farlo. Lo raggiunsi, lo disarmai, e gli ruppi il collo. Le ossa emisero quello sgradevole scricchiolio che emettono sempre, così diverso dal crack secco di una tibia o un radio che si spezzano. Lo depositai sul tappeto e gli misi accanto la pistola, e mi accorsi che era una Raytheon cinque-zero-cinque, tanto potente da fermare un mastodonte. Ma perché gli uomini con l’anima piccola devono avere grosse armi? Dissi: — Janet, sei ferita? — No. — Sono arrivata il più in fretta possibile. Ian, era questo che intendevo quando ho detto che poteva servirti aiuto. Ma avrei dovuto restare qui. Un soffio, e sarei stata in ritardo. — Non ho mai visto nessuno muoversi così in fretta. Georges disse piano: — Io sì. Lo guardai. — Sì, certo Georges, vuoi aiutarmi a spostare questo? — Indicai il cadavere. — E sai guidare un Vma della polizia? — Se proprio ci sono costretto, posso provarci. — Più o meno sono allo stesso livello anch’io. Sbarazziamoci del corpo. Janet mi ha accennato a dove finiscono i cadaveri anche se non ho visto niente. Un pozzo a lato del tunnel d’emergenza, giusto? Mettiamoci in moto. Ian, appena ci saremo liberati di questo, Georges e io possiamo andarcene. Oppure Georges può restare e aspettare che passi. Sparito il corpo e il veicolo, tu e Jan potete fare gli indiani. Non ci sono prove. Voi non lo avete mai visto. Però dobbiamo sbrigarci, se no si accorgono della sua scomparsa. Jan era in ginocchio a fianco del defunto tenente di polizia. — Marj, lo hai ucciso. — Sì. È stato lui a mettermi fretta. Comunque l’ho ucciso volontariamente, perché con un poliziotto è molto più sicuro ammazzare che ferire. Jan, non doveva puntarti addosso l’arrostitore. Se non lo avesse fatto, forse lo avrei semplicemente disarmato. Lo avrei ucciso solo se voi lo aveste giudicato necessario. — Sei stata veloce, come no. Un secondo prima non eri qui, poi c’eri, e Mel cadeva… Se era necessario ucciderlo? Non lo so, ma non piangerò. È un topo di fogna. Era un topo da fogna. Ian disse, lentamente: — Marj, forse non ti rendi conto che uccidere un poliziotto è una faccenda seria. È l’unico delitto capitale ancora previsto nel Canada Britannico. Quando la gente dice queste cose, non la capisco; un poliziotto non è un essere speciale. — Ian per me è una faccenda seria puntare una pistola sui miei amici. Puntarne una su Janet è un delitto capitale. Scusa se ti ho buttato all’aria. La realtà è che al momento dobbiamo sbarazzarci di un cadavere e di una Vma. Posso aiutarvi. Oppure posso sparire. Dite voi, ma decidete alla svelta. Non sappiamo fra quanto verranno a cercare lui e noi due. Sappiamo solo che verranno. Mentre parlavo, cominciai a perquisire il cadavere. Niente borsello, per cui dovetti frugargli nelle tasche, stando ben attenta a quelle dei calzoni: gli sfinteri si erano aperti, come succede sempre. Non troppo, grazie a Dio: si era appena bagnato i pantaloni, e non puzzava ancora. Almeno non molto. Le cose importanti erano nelle tasche della giacca: portafoglio, cercapersone, documenti, soldi, carte di credito, tutto il baraccone portatile che assicura all’uomo moderno di essere vivo. Presi il portafoglio e la Raytheon; il resto era spazzatura. Raccolsi da terra quelle stupide manette. — Avete modo di far sparire il metallo? O devono andare a tenere compagnia al cadavere? Ian si stava ancora mordendo il labbro. Georges disse dolcemente: — Ian, ti consiglio di accettare l’aiuto di Marjorie. È chiaro che è un’esperta. Ian smise di gingillarsi: — Georges, prendilo per i piedi. — Gli uomini trasportano il cadavere in bagno. Io corsi avanti buttai sul mio letto la pistola, le manette e il portafoglio di Dickey; Janet aggiunse il berretto. Volai in bagno, spogliandomi lungo la strada. I nostri uomini, col loro carico, erano appena arrivati. Ian, mentre metteva giù il corpo, disse: — Marj è inutile che ti spogli. Lo portiamo sotto Georges e io. E ce ne liberiamo. — Va bene — accettai. — Però lasciatelo lavare a me. So cosa bisogna fare. È meglio se sono nuda. Basterà una doccia per ripulirmi. Ian restò perplesso, poi disse: — Al diavolo, teniamocelo sporco. — Se lo dici tu… Però ti passerà la voglia di usare la vasca o anche semplicemente di andare e venire dal buco, se prima non avete cambiato l’acqua e ripulito tutto il fondo. Secondo me si fa prima a lavare il cadavere. A meno che… — Janet era appena entrata. — Jan, mi ha detto che la vasca si può svuotare in un serbatoio. Quanto tempo occorre? Ciclo completo, svuotamento e riempimento. — Un’ora circa. La pompa è piccola. — Ian, io posso ripulire il cadavere in dieci minuti, se lo spogli e lo infili sotto la doccia. E i vestiti? Finiscono nel vostro pozzo dell’oblio o come lo chiamate, o avete un altro modo per distruggerli? Devono passare nel tunnel per il buco? A quel punto, le cose si misero in moto. Ian collaborò al massimo, e tutti quanti mi permisero di guidare il ballo. Anche Jan si spogliò e insistette per darmi una mano a lavare il cadavere, mentre Georges dava in pasto gli abiti del poliziotto alla lavanderia di casa e Ian si infilava nel tunnel per fare qualche preparativo. Non avrei voluto che Janet mi aiutasse perché io conosco le tecniche del controllo mentale, e lei no. Comunque, tecniche o non tecniche, è un tipo duro. Arricciò il naso un paio di volte, ma quello fu tutto. E, naturalmente, col suo aiuto si fece molto più in fretta. Georges tornò coi vestiti, gocciolanti. Janet li mise in un sacco di plastica e lo premette per togliere l’aria. Ian riapparve nella vasca con l’estremità di una corda. Gli uomini passarono la corda sotto le ascelle del cadavere, che dopo un po’ svanì. Venti minuti più tardi eravamo asciutti e puliti, e in casa non c’era più una sola traccia del tenente Dickey. Janet era entrata nella «mia» stanza mentre io trasferivo nella borsa portamonete che mi aveva dato certe cose trovate nel portafoglio del poliziotto; soprattutto soldi e due carte di credito, l’American Express e la Maple Leaf. Non disse frasi idiote tipo «Non si ruba ai cadaveri»; e se le avesse dette, non sarei stata a sentirla. Oggi come oggi, è impossibile operare senza una carta di credito valida e/o contanti. Jan uscì, tornò col doppio del denaro che avevo recuperato. Io lo accettai, e le dissi: — Lo sai che non ho idea di quando potrò restituirteli. — Certo che lo so. Marj, io sono ricca. Lo erano i miei nonni, e io lo sono sempre stata. Senti, tesoro, un uomo mi ha puntato una pistola addosso, e tu lo hai fatto fuori a mani nude. Come potrò mai ripagarti di questo? I miei mariti erano presenti tutti e due, ma sei stata tu a sistemare Dickey. — Non prendertela con gli uomini, Jan. Non hanno il mio addestramento. — Me ne sono accorta. Un giorno o l’altro mi piacerebbe sapere qualcosa di questo tuo addestramento. C’è qualche possibilità che tu vada nel Québec? — Una scelta eccellente, se Georges decide di partire. — L’ho pensato anch’io. — Mi offrì altro denaro. — Non tengo molti franchi del Québec in casa. È tutto quello che ho. A quel punto entrarono gli uomini. Io guardai il mio indice, poi la parete. — Sono passati quarantasette minuti da quando l’ho ucciso, per cui ha interrotto i contatti con la centrale da un’ora, più o meno. Georges, adesso tenterò di pilotare un Vma della polizia. Ho le chiavi qui. A meno che tu non voglia venire con me e farmi da pilota. Vieni? O ti fermi qui e aspetti che cerchino di arrestarti un’altra volta? In ogni caso, io parto subito. Janet saltò su a dire: — Partiamo tutti. Le sorrisi. — Perfetto! Ian disse: — Vuoi farlo sul serio, Jan? — Ecco… — Lei si bloccò depressa. — Non posso. Mamma gatta e i suoi piccoli. Black Beauty e Demon e Star e Red. Sicuro, potremmo chiudere la casa. Basta un generatore secondario per farle superare l’inverno. Ma occorrerebbero almeno uno o due giorni per i preparativi per il resto della famiglia. Abbiamo anche un maiale! Non posso piantarli qui. Proprio non posso. Non c’era niente da dire, quindi non dissi niente. Gli abissi più gelidi dell’inferno sono riservati a chi abbandona gli animali. Boss dice che sono una stupida sentimentale, e sono sicura che ha ragione. Uscimmo. Cominciava a fare buio, e all’improvviso mi resi conto che ero entrata in quella casa da meno di un giorno. Sembrava un mese. Dio del cielo, appena ventiquattro ore prima ero in Nuova Zelanda, il che mi appariva assurdo. L’auto della polizia era posata sull’orto di Ian, cosa che spinse Janet a usare un linguaggio che non mi sarei aspettata da lei. Aveva la solita tozza forma a ostrica di un veicolo antiG non progettato per lo spazio, e all’incirca le stesse dimensioni del carro della mia ex famiglia ennezeta. No, questo non mi rese triste; Jan e i suoi uomini, e Betty e Freddie, avevano sostituito nel mio cuore la famiglia Davidson. La donna è mobile: il mio ritratto. Adesso desideravo con tutta me stessa tornare da Boss. La figura paterna? Probabile; ma non mi interessano le teorie degli strizzacervelli. Ian disse: — Fatemi dare un’occhiata prima che partiate. Voi due piccoli potreste perdervi nel bosco. — Aprì la portiera, salì; dopo un po’ ridiscese. — Potete usarlo, se decidete di farlo. Però statemi a sentire. Ha un risponditore di identificazione. Quasi certamente ha anche un raggio attivo, ma non riesco a trovarlo. Lo Shipstone ha un’autonomia del trentuno per cento, per cui se pensavate al Québec potete scordarvelo. L’auto resterà sigillata, ma al di sopra dei dodicimila metri non potrete mantenere la pressione in cabina. Peggio di tutto, il terminale sta chiamando il tenente Dickey. — E con ciò? Lo ignoriamo. — Ovvio, Georges. Però, dopo i processi a Ortega dell’anno scorso, hanno installato congegni di autodistruzione radiocomandati sulle macchine della polizia. Ne ho cercato tracce. L’avessi trovato, lo avrei disattivato. Non l’ho trovato. Il che non significa che non ci sia. Scrollai le spalle. — Ian, i rischi necessari non mi preoccupano mai. Gli altri cerco di evitarli. Comunque la prima cosa che dobbiamo fare è liberarci di questo ammasso di latta. Dobbiamo portarlo da qualche parte. Abbandonarlo. Ian disse: — Non così in fretta, Marj. Gli aggeggi a motore sono affare mio. Questo qui… Sì, ha l’autopilota militare standard Ag. Quindi gli facciamo fare un giretto. Dove? Verso est, magari? Dovrebbe precipitare prima di arrivare in Québec, e questo potrebbe spingerli a presumere che tu ti sia diretto a casa, Georges, mentre te ne starai al sicuro nel buco. — Non mi interessa, Ian. Non mi nasconderò nel buco. Ho accettato di partire perché Marjorie ha bisogno di qualcuno che pensi a lei. — E più probabile che sia lei a prendersi cura di te. Hai visto come ha ripulito quel verme? — D’accordo. Ma io non ho parlato di prendermi cura di lei. Ho detto che le occorre qualcuno che pensi a lei. — Stessa cosa. — Non starò a discutere. Dobbiamo farlo partire? Intervenni io. — Ian, l’auto ha energia a sufficienza per raggiungere l’Impero a sud? — Sì. Però usarla sarebbe pericoloso. — Non intendevo questo. Mettila in rotta verso sud ad altitudine massima. Probabilmente la faranno fuori le guardie al vostro confine, o forse quelle dell’Impero. O forse passerà e la faranno esplodere col radiocomando. Oppure potrebbe restare all’improvviso senza energia e precipitare dall’altitudine massima. In ogni caso ce ne saremo sbarazzati. — Fatto. — Ian balzò a bordo, si diede da fare con la tastiera; l’auto si alzò e lui saltò a terra da tre o quattro metri d’altezza. Gli tesi una mano. — Tutto a posto? — Tutto perfetto. Guardala! — La macchina della polizia stava svanendo rapidamente sopra di noi, diretta a sud. All’improvviso uscì dalle ombre che si stavano ammassando e si stagliò contro l’ultimo residuo di sole, luminosissima. Diventò sempre più piccola e poi scomparve. 14 Eravamo di nuovo in cucina, con mezzo occhio sul terminale e tutta quanta la nostra attenzione l’uno sull’altro e sugli highball che Ian aveva servito. Discutevamo se fare qualcosa, e cosa. Ian stava dicendo: — Marj, se tieni duro qui questo periodo di pazzia finirà e potrai tornartene a casa tranquillamente. Se ricevessimo altre visite potresti nasconderti nel buco. Al massimo dovrai restare chiusa in casa. Intanto Georges potrà ritrarti nuda, come ha ordinato Betty. Okay, Georges? — Sarebbe molto piacevole. — Allora, Marj? — Ian, se raccontassi al mio capo che non sono tornata quando dovevo perché una linea di confine lunga duemilacinquecento chilometri era teoricamente chiusa non mi crederebbe mai. — (Spiegare che sono un corriere professionista? Non ce n’è bisogno. O non ancora.) — Cosa farai? — Credo di avervi già dato abbastanza guai. — (Ian, tesoro, secondo me sei ancora sotto shock per aver visto uccidere un uomo nel tuo soggiorno. Anche se poi ti sei ripreso e hai reagito da professionista.) — Adesso so dove si trova la vostra porta sul retro. Domattina, quando vi alzerete, è possibile che io non sia più qui. A quel punto potrete dimenticare un elemento di disturbo nella vostra vita. — No! — Jan, quando sarà passato questo caos, ti chiamerò. Se mi vorrai ancora, verrò a trovarti appena avrò un periodo di ferie. Ma adesso devo lasciarti e tornare al mio lavoro. Lo avevo detto fin dall’inizio. Janet, semplicemente, non voleva accettare l’idea che io tentassi di attraversare il confine da sola (e io avevo bisogno di qualcun altro come un serpente ha bisogno di scarpe). Però aveva un piano. Fece notare che Georges e io potevamo usare i loro passaporti: io avevo la stessa corporatura di Jan, più o meno, e peso e altezza di Georges corrispondevano a quelli di Ian. Le facce non erano identiche, però con differenze minime; e chi sta più a guardare le foto sui passaporti, al giorno d’oggi? — Potreste usarli e rispedirceli per posta, ma forse non è il metodo più semplice. Potreste arrivare a Vancouver e poi passare nella Confederazione Californiana con le carte turistiche, però spacciandovi per noi. Con le carte di credito potete spostarvi fino a Vancouver. Superato il confine per la California, non dovrebbero più esserci problemi. Marj, la tua carta di credito dovrebbe essere valida, dovresti riuscire a telefonare al tuo boss, e i poliziotti non cercheranno di arrestare nessuno dei due. Ti sembra accettabile? — Sì — ammisi. — Credo che il trucco delle carte turistiche sia più sicuro che cercare di usare i vostri passaporti. Più sicuro per tutti. Se arrivo in un posto dove la mia carta di credito è valida, i miei guai dovrebbero essere finiti. — (Ritirerò immediatamente dei soldi e farò in modo che non accada mai più di trovarmi bloccata lontano da casa senza denaro. Coi soldi si aggiusta tutto. Specialmente in California, che è piena di arraffoni, mentre a volte i funzionari pubblici del Canada Britannico sono di un’onestà sconcertante.) Aggiunsi: — A Bellingham le cose non potranno andarmi peggio di qui… E se ci fossero ostacoli, ho tutto il territorio fino allo stato della Stella Solitaria per cercare di attraversare. Hanno raccontato qualcosa di Texas e Chicago? Si parlano ancora? — Per adesso tutto bene, da quello che ho visto nei notiziari — rispose Ian. — Devo chiedere un approfondimento al computer? — Sì, per favore, prima che parta. Se ci fossi costretta, potrei passare dal Texas a Vicksburg. Coi soldi si può sempre risalire il fiume. C’è un traffico continuo di contrabbandieri. — Prima che noi partiamo — mi corresse dolcemente Georges. — Georges, sono convinta che questo percorso funzionerebbe, per me. Per te non farebbe altro che allontanarti sempre di più dal Québec. Non hai detto che la McGill è la tua seconda base? — Mia cara signora, non ho alcun desiderio di raggiungere la McGill visto che la polizia mi crea difficoltà qui, nella mia vera patria, la prospettiva migliore è mettermi in viaggio con te. Appena raggiungeremo la provincia californiana di Washington potrai cambiare il tuo nome da signora Tormey a signora Perreault. Ho la certezza che tutte e due le mie carte, la Maple Leaf e la Québec Crédit, verranno accettate. (Georges, sei un amore di gentiluomo… E quando io cerco di combinare una delle mie imprese ho bisogno di un amore di gentiluomo quanto di uno stivale dell’Oregon. E a qualche trucco dovrò ricorrere, tesoro. Nonostante quello che ha detto Janet, i miei problemi non finiranno tanto in fretta.) — Georges, è una prospettiva deliziosa. Non posso dirti che devi restartene a casa, però devo dirti che sono un corriere professionista e che ho viaggiato sola per anni, su tutto il pianeta, più di una volta fino alle colonie spaziali, e fino alla Luna. Non ancora a Marte o Cerere, ma potrebbero ordinarmelo da un momento all’altro. — Stai dicendo che preferisci non essere accompagnata da me. — No, no! Sto semplicemente dicendo che se decidi di partire con me sarà solo per amore di compagnia. Per il tuo e il mio piacere. Ma devo aggiungere che quando io arriverò nell’Impero dovrò proseguire da sola, perché rientrerò immediatamente in servizio. Ian disse: — Marj, se non altro lascia che Georges ti porti via di qui, in un territorio dove nessuno ha la stupida idea di arrestarti e la tua carta di credito è valida. Janet aggiunse: — Quello che conta è sfuggire a questa folle prospettiva dell’arresto. Marj, puoi sfruttare la mia carta Visa per tutto il tempo necessario; io userò quella della Maple Leaf. Ricordati solo che sarai Jan Parker. — Parker? — La Visa ha il mio nome da ragazza. Prendi. — Accettai la carta di credito, pensando che l’avrei usata soltanto se ci fosse stato qualcuno alle mie spalle a controllarmi. Appena possibile, avrei messo tutto in conto al defunto tenente Dickey, il cui credito poteva restare aperto per giorni, forse settimane. Ci furono altre chiacchiere, e alla fine io dissi: — Io parto, Georges, vieni con me? Ian disse: — Ehi, non stasera! Domattina presto. — Perché? La sotterranea funziona tutta la notte, no? — (Sapevo che era così.) — Sì, però da qui alla stazione più vicina sono più di venti chilometri. E c’è più buio che in un mucchio di carbone. (Non era il momento per discutere della mia visione super.) — Ian, posso percorrere quella distanza entro mezzanotte. Se a mezzanotte c’è una capsula che parte, praticamente posso dormire per tutta la notte a Bellingham. Se il confine tra California e Impero è aperto, domattina mi presenterò al mio boss. È meglio, no? Pochi minuti dopo partimmo tutti, in carrozza. Ian non era molto contento di me; non ero stata la creatura dolce, tenera e arrendevole che gli uomini prediligono. Ma si fece passare l’irritazione e mi baciò con molta dolcezza quando ci depositarono all’incrocio fra Perimeter e McPhillips, di fronte alla stazione della sotterranea. Georges e io ci infilammo nella capsula delle ventitré, poi facemmo il giro fino all’altro lato del continente in piedi. Però arrivammo a Vancouver per le ventidue (ora del Pacifico; mezzanotte a Winnipeg), prendemmo i moduli di richiesta per le carte turistiche salendo sullo shuttle per Bellingham, li compilammo in viaggio, li offrimmo in pasto al computer della stazione d’arrivo pochi minuti dopo, scesi dallo shuttle. L’operatore umano non alzò nemmeno gli occhi quando la macchina sputò fuori le nostre carte. Mormorò solo. — Spero che vi divertiate — e tornò a leggere. A Bellingham, la stazione shuttle sbuca nell’atrio inferiore del Bellingham Hilton. Davanti a noi, nell’aria, fluttuava un’insegna luminosa. THE BREAKFAST BAR BISTECCHE-STUZZICHINI–COCKTAIL SERVIAMO LA COLAZIONE VENTIQUATTRO ORE SU VENTIQUATTRO Georges disse: — Signora Tormey, amore mio, mi sovviene che abbiamo scordato di cenare. — Signor Tormey, hai perfettamente ragione. Facciamo fuori un orso. — La cucina della Confederazione non è né esotica né sofisticata. Però ha un suo piglio robusto e può essere piuttosto soddisfacente, soprattutto quando si ha una fame del diavolo. Ho già mangiato in questo posto. A dispetto del nome, ci si trovano un’infinità di piatti. Ma se vuoi accettare il menù della colazione e permettere a me di ordinare, credo di poterti garantire che il tuo appetito sarà soddisfatto in modo gradevole. — Georges, cioè Ian, ho mangiato la tua zuppa. Puoi ordinare per me quando vuoi! Era davvero un bar; niente tavoli. Però gli sgabelli avevano lo schienale ed erano imbottiti e arrivavano al banco senza massacrare le ginocchia. Comodissimo. Quando ci sedemmo ci misero di fronte due aperitivi al succo di mela. Georges ordinò, poi sgattaiolò via; andò al banco della reception in cerca di una stanza. Tornò e disse: — Adesso puoi chiamarmi Georges, e tu sei la signora Perreault. Ho dato questi nomi al computer. — Alzò l’aperitivo: — Santé, ma chère femme. Io presi il mio. — Merci. Et à la tienne, mon cher mari. — Il succo di mela era gelido, e dolce come il sentimento che provavo. Non avevo nessuna intenzione di farmi un altro marito, però Georges sarebbe stato perfetto, sia per finzione, come in quel momento, sia nella realtà. Comunque, mi era stato semplicemente prestato da Janet. Arrivò la nostra «colazione». Succo di mela Yakima ghiacciato. Fragole dell’Imperial Valley con crema Sequim. Due uova, a tuorlo in su e sapientemente arrostite, deposte su bistecche così tenere che si potevano tagliare con la forchetta (Uova a dorso di cavallo). Grandi biscotti caldi a base di burro Sequim, salvia e miele. Caffè Kona in tazzone giganti. Caffè, succo di frutta e biscotti riapparvero in continuazione; ci offrirono una seconda porzione di uova e bistecche, ma dovemmo rifiutare. Il livello di frastuono e la sistemazione a sedere non incoraggiavano la conversazione. In fondo al bar c’era uno schermo per i piccoli annunci. Ogni annuncio restava visibile solo il tempo sufficiente per leggerlo; ma come sempre, a ogni annuncio era abbinato un numero che il cliente poteva battere sulla tastiera del terminale al banco per rileggersi con comodo quello che gli interessava. Mi scoprii a leggere distrattamente mentre mangiavo. La nave libera Jack Pot recluta membri di equipaggio al Centrolavoro di Vegas. Premio per i veterani di guerra. Una nave pirata poteva fare un annuncio tanto sfacciato? Anche nello Stato Libero di Vegas? Difficile crederlo; ma era ancor più difficile interpretarlo in altro modo. Fumate il Pane di Gesù! spinelli dell’angelo Garantiti non cancerogeni Il cancro non mi preoccupa, ma spinelli e nicotina non fanno per me; la bocca di una donna deve essere dolce. DIO ti aspetta all’appartamento 1208, Lewis and Clark Towers. Non fare che sia Lui a venirti a prendere. Non ti piacerebbe. A me non piaceva già. ANNOIATI? Stiamo per lasciare un gruppo di pionieri su un pianetavergine di tipo T-13. Garantita proporzione di sessi 50-40-10 ± 2 %. Età biologica media 32 ± 1. Non sono richiesti test attitudinali. Niente capitale. - Niente contributi. - Niente soccorsi. System Expansion Corporation Divisione di Demografia ed Ecologia. Luna City, Posta Centrale, Cassetta postale DEMO. Telefono 800-2300 Richiamai quell’annuncio e lo rilessi. Come sarebbe stato domare un mondo nuovo a fianco di tanti compagni, di persone che non avrebbero saputo nulla della mia origine? O che non ci avrebbe badato? Le mie doti super potevano fare di me, anziché un mostro, una persona rispettata; purché non le sfoggiassi per esibizionismo. — Georges, guarda qui, per favore. Lui guardò. — Sì? — Potrebbe essere divertente, no? — No! Marjorie, nel gruppo T tutti i pianeti superiori all’otto richiedono forti disponibilità di capitale, attrezzature eccellenti e coloni addestrati. Un tredici è una via esotica per il suicidio, tutto qui. — Oh. — Leggi questo — propose lui. W.K. - Prepara il testamento. Hai solo una settimana di vita. Acb Lo lessi. — Georges, è davvero una minaccia di morte per quel W.K.? In un annuncio pubblico? Con tutti che potrebbero rintracciarne la fonte? — Non so. Forse non sarebbe facile rintracciarla. Mi chiedo cosa leggeremo domani. Ci sarà scritto sei giorni? E poi cinque giorni? W.K. sta aspettando che gli cada la mannaia sul collo? Oppure è una promozione pubblicitaria? — Non lo so. — Riflettei sulla frase in rapporto alla nostra situazione. — Georges, è possibile che tutte queste minacce di cui continuiamo a sentir parlare siano una specie di truffa terribilmente complessa? — Stai suggerendo che non è stato ucciso nessuno e che tutte le notizie erano false? — Guarda, non so cosa sto suggerendo. — Marjorie, una truffa c’è, sì. Nel senso che tre gruppi diversi si attribuiscono la responsabilità, e quindi due gruppi stanno cercando di truffare il mondo. Personalmente non credo che le notizie degli omicidi siano false. Come per le bolle di sapone, anche per le truffe esistono limiti di dimensioni, sia nel numero di persone coinvolte che nella durata. Questa faccenda è troppo grossa, e ci sono di mezzo troppa gente e troppi posti, per essere una truffa. Se no a quest’ora sarebbero già arrivate valanghe di smentite. Altro caffè? — No, grazie. — Qualcos’altro? — Niente. Un altro biscotto al miele e scoppio. Da fuori era semplicemente la porta di una stanza d’hotel: 2100. Appena dentro, dissi: — Georges! Perché? — Una sposa deve avere un appartamento nuziale. — È bellissimo. È fantastico. È delizioso. E tu non dovevi buttare via i soldi. Hai già trasformato un viaggio noioso in un picnic. Ma se ti aspetti che stanotte io mi comporti da sposina non dovevi farmi mangiare le uova a dorso di cavallo e un quintale di biscotti caldi. Adesso sono gonfia come una rana, amore. Ho perso il mio fascino. — Sei affascinante. — Accidenti! Georges, non scherzare con me, ti prego. Mi hai smascherata quando ho ucciso Dickey. Sai cosa sono. — So che sei una signora dolce e coraggiosa e galante. — Hai capito benissimo. Tu sei del mestiere. Mi hai vista. Mi hai presa con le mani nel sacco. — Hai capacità super. Sì, ho visto. — Allora sai cosa sono. Lo ammetto. È una verità che ho accettato da anni. Sono diventata piuttosto brava a nasconderla, ma quel bastardo non doveva puntare la pistola su Janet! — No, non doveva. E io ti sarò sempre debitore per quello che hai fatto. — Dici sul serio? Ian pensava che non avrei dovuto ucciderlo. — La prima reazione di Ian è sempre convenzionale. Poi gli passa. Ian è un pilota nato. Ragiona coi muscoli. Però, Marjorie… — Non mi chiamo Marjorie. — Eh? — Tanto vale che ti dica il mio vero nome. Il nome di laboratorio. Io sono Friday. Niente cognome, è ovvio. Quando me ne occorre uno, uso uno dei cognomi standard del laboratorio. Jones, in genere. Ma il mio vero nome è Friday. — Vuoi che ti chiami così? — Sì. Credo di sì. È il nome che uso quando non ho bisogno di coperture. Quando sto con gente di cui mi fido. Ed è meglio che mi fidi di te. No? — Ne sarei lusingato e compiaciuto. Cercherò di meritarmi la tua fiducia. Visto che sono enormemente in debito con te. — In che senso, Georges? — Credevo fosse chiaro. Quando ho visto cosa stava facendo Mel Dickey, ho deciso di consegnarmi immediatamente per non fare correre rischi agli altri. Ma quando ha minacciato Janet con l’arrostitore, mi sono promesso che più avanti, appena fossi tornato libero, lo avrei ucciso. — Georges sorrise a denti stretti. — Avevo appena finito di prometterlo a me stesso quando tu sei apparsa dal nulla come un angelo vendicatore e hai dato corpo alle mie intenzioni. Così adesso ti sono in debito. — Di un altro omicidio? — Se è questo che desideri, sì. — Ecco, probabilmente no. Come hai detto tu, io ho doti super. Di solito sono riuscita a provvedere da sola quando è stato necessario. — Tutto ciò che vorrai, cara Friday. — Be’, al diavolo, Georges, non voglio che tu ti senta in debito con me. Anch’io a modo mio, amo Janet. Quel bastardo si è messo la corda al collo minacciandola con un’arma. Non l’ho fatto per te. L’ho fatto per me. Per cui non mi devi niente. — Cara Friday, hai le stesse deliziose doti di Janet. Lo sto imparando. — Senti, perché non mi porti a letto, così potrò ripagarti per un’infinità di cose. So di non essere umana e non mi aspetto che mi ami come ami la tua moglie umana. Anzi, non devi amarmi affatto. Però mi sembra di piacerti, e non mi tratti come… come ha fatto la mia famiglia ennezeta. Come quasi tutti gli uomini trattano le Pa. E io posso ripagarti dei tuoi sforzi. Sul serio. Non sono mai arrivata al diploma di etera, però ho seguito il corso di addestramento… E ci provo. — Amore mio! Chi ti ha fatto tanto male? — A me? Io sto benissimo. Ti stavo solo spiegando che so come va il mondo. Non sono più una bambina che impara a tirare avanti senza le stampelle del laboratorio. Una persona artificiale non si aspetta l’amore vero da un maschio umano. Lo sappiamo tutti e due. Tu lo capisci molto meglio di un profano. Sei del mestiere. Io ti rispetto e mi piaci sinceramente. Se mi permetti di venire a letto con te, farò del mio meglio per divertirti. — Friday! — Sì, signore? — Tu non verrai a letto con me per divertirmi. All’improvviso mi sentii le lacrime agli occhi; una cosa che succede molto di rado. — Signore, mi spiace — dissi, costernata. — Non volevo offendervi. Non volevo presumere troppo di me. — Porcaccio mondo, PIANTALA! — Signore? — Piantala di chiamarmi signore. Piantala di comportarti da schiava! Chiamami Georges. Se poi vuoi aggiungere tesoro o amore come a volte hai fatto in passato, fai pure. Se ti va, insultami. Ma trattami da amico. Questa dicotomia fra umano e non umano è stata creata da profani ignoranti. Chiunque faccia il mio lavoro sa che è una stupidaggine. I tuoi geni sono geni umani, selezionati con la massima cura. Forse questo ti rende superumana; non può renderti inumana. Sei fertile? — Sterilità reversibile. — In dieci minuti, con l’anestesia locale, potrei modificare la situazione. Dopo di che potrei fecondarti. Nostro figlio sarebbe umano? O non umano? O umano a metà? — U… umano. — Puoi scommetterci la pelle! Per fare un bambino umano ci vuole una madre umana. Non scordartelo mai. — Non lo scorderò. — Avvertii dentro uno strano formicolio. Sesso, ma diverso da tutto ciò che avevo mai provato in passato, anche se vado in calore come una gatta. — Georges? Vuoi farlo? Fecondarlo? Lui restò molto stupito. Poi mi si avvicinò, mi tirò su il viso, e mi baciò. Su una scala da uno a dieci, gli avrei dato otto e mezzo, forse nove; impossibile fare di meglio in posizione verticale e vestiti. Poi mi raccolse da terra, raggiunse una poltrona, sedette con me sulle ginocchia, e cominciò a spogliarmi, allegramente e dolcemente. Janet aveva voluto a tutti i costi prestarmi i suoi abiti; avevo cose più interessanti di una semplice tuta da farmi togliere. La Superpelle, lavata e stirata da Janet, era nella mia sacca da viaggio. Georges, slacciando cerniere e bottoni e altre cose, disse: — Quel lavoretto di dieci minuti dovrei effettuarlo in laboratorio, dopo di che bisognerebbe aspettare un altro mesetto per il tuo primo ciclo di fertilità, e questo insieme di circostanze ti risparmierà un pancione… Perché una frase come quella che hai appena detto fa ai maschi umani lo stesso effetto che la cantaride fa ai tori. Quindi sei al sicuro dalla tua pazzia. Invece ti porterò a letto e sarò io a cercare di divertirti… Anche se a mia volta devo confessare di non essere mai arrivato al diploma. Comunque qualcosa ci verrà in mente, cara Friday. — Mi mise in piedi e gettò a terra il mio ultimo indumento. — Sei bella. Hai un buon odore. Toccarti è una delizia. Vuoi andare in bagno tu per prima? Io devo fare la doccia. — No, preferisco andarci per seconda. Non ho nessuna intenzione di correre. Ci misi parecchio tempo; non scherzavo quando gli avevo detto di essere gonfia come una rana. Ho un’ampia pratica di viaggi, e sto sempre attenta a evitare gli inconvenienti che possono colpire chi si trasferisce in continuazione da un posto all’altro. Ma il digiuno, seguito da un’enorme «colazione» a mezzanotte, aveva un tantino sfasato i miei ritmi. Se stavo per avere un dolce peso sul petto, e sul ventre, dovevo liberarmi di tutto ciò che mi gonfiava. Erano le due passate quando uscii dal bagno; lavata, sgonfiata, con la bocca fresca e l’alito profumato, pronta e allegra e disponibile come nei migliori momenti della mia vita. Niente profumo; non solo non ne porto mai con me, ma gli uomini preferiscono la fragrantia foeminae a ogni altro afrodisiaco, anche quando non lo sanno; però non la vogliono rancida. Georges infilato sotto il copriletto, dormiva profondamente. Così, con estrema cautela, scivolai nel letto e riuscii a non svegliarlo. Ve lo giuro, non restai delusa; non sono poi il tipo così egocentrico. Cullavo la felice certezza che mi avrebbe svegliata rinvigorito, e che sarebbe andata meglio per tutti e due: era stata una giornata pesante. 15 Avevo ragione. Non voglio rubare Georges a Janet… Però aspetto con ansia, nuovi, allegri incontri, e se mai un giorno lui dovesse decidere di annullare la mia sterilità, partorire come una gatta potrebbe starmi bene, se si tratterà di fare un figlio per Georges. Non capisco perché Janet non si sia ancora decisa. La terza o la quarta volta venni risvegliata da un profumo delizioso. Georges stava scaricando piatti dal carrello portavivande. — Hai ventuno secondi per entrare e uscire dal bagno — disse. — La pappa è pronta. Hai avuto una colazione regolare nel cuore della notte, per cui adesso avrai un pranzo del tutto irregolare. Immagino sia irregolare mangiare granchi freschi a colazione, ma è un’irregolarità che mi piace. Vennero preceduti da fette di banane e fiocchi di granturco alla panna, cose che mi sembrano perfettamente adatte a una colazione, e accompagnati da fette di pane biscottato e insalata mista. Io chiusi con caffè di cicoria corretto con un bicchierino di brandy di champagne. Georges è un adorabile libertino e un ghiottone patentato e uno chef di prim’ordine e un dolce medico dell’anima; riesce a far credere a una persona artificiale di essere umana, o per lo meno le dà l’impressione che le sue origini non contino. Domanda: come mai tutti e tre i membri della famiglia sono così magri? Ho la certezza che non si dedichino né a diete né a ginnastiche masochiste. Una volta un medico mi ha detto che chiunque può fare a letto tutta la ginnastica che gli serve. Sarà per questo? Quelle più sopra sono le buone notizie. In quanto alle cattive… Il Corridoio Internazionale era chiuso. Era possibile raggiungere Deseret cambiando a Portland, ma nulla garantiva che la sotterranea Slc-Omaha-Gary funzionasse. L’unica rotta internazionale lungo cui le capsule continuavano a viaggiare regolarmente era la San Diego-Dallas-Vicksburg-Atlanta. San Diego non era un problema, visto che la sotterranea per San José era in funzione da Bellingham a La Jolla. Però Vicksburg non è l’Impero di Chicago; è solo un porto fluviale da cui, avendo soldi e tenacia, si può raggiungere l’Impero. Cercai di chiamare Boss. Dopo quaranta minuti, provavo per le voci sintetiche quello che gli umani provano per i miei simili. Chi ha avuto l’idea di programmare la «cortesia» nei computer? Sentire una macchina che ti dice: «Grazie per la vostra comprensione» può farti piacere per la prima volta, ma alla terza ti torna in mente che è solo una voce sintetica, e quaranta minuti di questa zuppa senza mai udire una voce vera possono mettere a dura prova la pazienza di un guru. Non costrinsi mai quel terminale ad ammettere che era impossibile il collegamento telefonico con l’Impero. Quel ritardato di disastro digitale non era programmato per dire di no; era programmato per essere cortese. Sarebbe stato un sollievo se, dopo un certo numero di tentativi inutili, lo avessero programmato a dire: «Piantala, sorella. Sei fregata.» Poi tentai di chiamare l’ufficio postale di Bellingham per informarmi sul servizio postale per l’Impero: parole in carne e ossa scritte su carta, alle tariffe di un pacco, non un facsimile o un postagramma o altra roba elettronica. Ricevetti un allegro sermone sulla necessità di spedire per tempo gli auguri di Natale. Considerato che mancava metà anno a Natale, la cosa mi parve men che urgente. Ritentai. Mi fecero la predica sui codici di avviamento postale. Tentai una terza volta, e ottenni il servizio clienti di Macy e una voce: — Tutti i nostri cortesi impiegati al momento sono occupati e grazie per la vostra comprensione. Io non compresi niente. Comunque non volevo telefonare o spedire una lettera; volevo fare rapporto a Boss di persona. Quindi mi occorrevano soldi. Quel terminale oltraggiosamente cortese ammise che l’ufficio locale della MasterCard si trovava nella sede centrale di Bellingham della TransAmerica Corporation. Così battei sulla tastiera e una voce dolce (registrata, non sintetica) mi disse: — Grazie per aver chiamato la MasterCard. Nell’interesse dell’efficienza e per il massimo risparmio dei nostri milioni di soddisfatti clienti, tutti i nostri uffici della Confederazione Californiana fanno oggi capo alla sede centrale di San José. Per un servizio rapido vi preghiamo di usare il segnale a chiamata gratuita sul dorso della vostra tessera MasterCard. — La voce dolce lasciò il posto alle prime note di Trees. Le feci smettere subito. La mia MasterCard, emessa a Saint Louis, non aveva il segnale a chiamata gratuita per San José, ma solo il segnale per la Banca Imperiale di Saint Louis. Così, senza troppe speranze, provai quel numero. Mi rispose Dite-Una-Preghiera-Con-Noi. Mentre un computer mi insegnava l’umiltà, Georges leggeva l’edizione Olympic del Los Angeles Times e aspettava che la smettessi di gingillarmi. La smisi e gli chiesi: — Georges, cosa dice il giornale dell’emergenza? — Quale emergenza? — Eh? Prego? — Friday, amore mio, l’unica emergenza di cui parli questo giornale è il monito del Sierra Club sul pericolo che corre la specie in via d’estinzione Rhus diversiloba. Poi c’è in programma un picchettaggio contro la Dow Chemical. A parte questo, tutto tranquillo sul fronte occidentale. Aggrottai la fronte per stimolare la memoria. — Georges, non so molto della politica californiana… — Tesoro, nessuno sa molto della politica californiana, compresi gli uomini politici californiani. — …Però mi sembra di ricordare la notizia di almeno una dozzina di omicidi eccellenti nella Confederazione. Era solo un imbroglio? — Ripensai al tempo trascorso, ai fusi orari: quante ore prima? Trentacinque, trentasei? — Ho trovato i necrologi di diverse signore e signori di primo piano di cui si è parlato nel penultimo notiziario, ma non risultano assassinati. Uno è «vittima accidentale di una sparatoria». Un altro è morto «dopo lunga malattia». Un altro ancora è scomparso per un «inspiegabile incidente» a un Vma privato, e il procuratore generale della Confederazione ha ordinato un’inchiesta. Se non sbaglio, però, anche il procuratore generale è finito morto ammazzato. — Georges, cosa sta succedendo? — Friday, non lo so. Comunque suggerisco che indagare troppo da vicino potrebbe essere pericoloso. — Non indagherò. La politica non mi ha mai interessato e non m’interesserà mai. Mi trasferirò nell’Impero appena possibile. Però per farlo mi occorrono soldi, perché il confine è chiuso, qualunque cosa ne dica il L.A. Times. Odio l’idea di dissanguare Janet sfruttando la sua carta Visa. Potrei usare la mia, ma per concludere qualcosa devo andare a San José. Qui fanno difficoltà. Vuoi venire a San José con me? O tornare da Jan e Ian? — Dolce signora, tutti i miei beni terreni sono ai tuoi piedi. Ma mostrami la via per San José. Perché ti dà tanto fastidio portarmi nell’Impero? Non è possibile che il tuo principale possa servirsi dei miei talenti? Al momento non posso tornare a Manitoba per ragioni che conosciamo tutti e due. — Georges, non è che mi dia fastidio portarti con me, ma il confine è chiuso… Il che potrebbe costringermi a trasformarmi in Dracula e spiccare il volo da una fessura. O qualcosa di irragionevolmente simile. Io sono addestrata a queste cose, però ci riesco bene da sola. Tu sei del mestiere, lo puoi capire. Per di più, anche se non sappiamo come stiano le cose all’interno dell’Impero, dai notiziari si capisce che la situazione è brutta. Una volta dentro l’Impero, forse sarò costretta a correre come una matta semplicemente per salvare la pelle. E sono addestrata anche a questo. — E hai doti super che io non ho. Sì, capisco. — Georges! Tesoro, non voglio ferire i tuoi sentimenti. Senti, appena mi sarò presentata al boss ti chiamerò. Qui, a casa tua, o dove vuoi. Se a quel punto potrai attraversare il confine senza problemi, lo saprò. — (Georges che chiede un lavoro a Boss? Impossibile! Oppure no? Forse a Boss poteva servire un ingegnere genetico con una grossa esperienza. A essere sincera, non avevo idea delle necessità di Boss, a parte il limitato settore in cui lavoravo io.) — Dicevi sul serio? Vuoi chiedere un lavoro al mio boss? Cosa devo riferirgli? Georges uscì in quel suo dolce mezzo sorriso che usa per coprire i suoi pensieri, come io uso l’espressione della foto sul passaporto. — Come faccio a saperlo? Del tuo principale so solo che sei riluttante a parlarne e che si può permettere di usare come messaggero un individuo del tuo calibro. Però, Friday, forse io mi rendo conto anche meglio di te di quale investimento di capitali abbiano richiesto la tua progettazione, la tua realizzazione e il tuo addestramento, e quindi quale prezzo debba aver sborsato il tuo principale per affrancarti… — Non mi ha affrancata. Io sono una Persona Libera. — Allora gli sei costata ancora di più. Il che mi porta a congetture… Lasciamo perdere. La smetterò con le ipotesi. Se dico sul serio? Le prospettive che tu mi apri solleticherebbero chiunque. Ti darò il mio curriculum vitae. Se dovesse contenere qualcosa che interessi il tuo principale, sono certo che me lo farebbe sapere. E adesso veniamo ai soldi. Non devi preoccuparti di dissanguare Janet. Per lei il denaro non significa niente. Però io sono prontissimo a farti avere tutti i soldi che ti occorrono servendoti del mio credito, e ho già stabilito che qui le mie carte di credito vengono onorate. A prescindere da problemi politici. Ho usato la Crédit Québec per pagare la colazione di mezzanotte, ho preso la camera con l’American Express, poi sono passato alla Maple Leaf per il pranzo. Quindi ho tre carte di credito valide e tutte e tre in perfetto accordo con i miei documenti. — Mi sorrise. — Dissanguami pure, cara ragazza. — Ma non voglio dissanguare te più di quanto voglia dissanguare Janet. Senti, possiamo provare la mia carta a San José. Se non funziona, sarò lieta di derubarti, e potrò restituirti il denaro appena arrivo a casa. — (O forse Georges sarebbe stato disposto a un imbroglio per me con la carta di credito del tenente Dickey? Per una donna è maledettamente difficile ottenere soldi con la carta di credito di un uomo. Pagare qualcosa infilando una tessera in una fessura è un conto; usare la stessa tessera per ottenere contanti è tutto un altro paio di maniche.) — Perché parli di ripagarmi? Se ti sono debitore per l’eternità? Scelsi di fare la tonta. — Credi davvero di dovermi qualcosa? Solo per stanotte? — Sì. Sei stata sufficiente. Boccheggiai. — Oh! Lui rispose, senza sorridere: — Avresti preferito che ti definissi insufficiente? Mi fermai prima di boccheggiare un’altra volta. — Georges. Spogliati. Adesso ti riporto a letto, poi ti uccido lentamente. Alla fine ti riduco a brandelli, ti spezzo la schiena in tre parti. Sufficiente, insufficiente… Lui sorrise e cominciò a svestirsi. Io dissi: — Oh, piantala e baciami. Poi andremo a San José. «Insufficiente». Come sono stata? Il viaggio da Bellingham a San José richiede più o meno lo stesso tempo di quello da Winnipeg a Vancouver, però questa volta eravamo seduti. Emergemmo dal sottosuolo alle quattordici e quindici. Mi guardai attorno con un certo interesse: non avevo mai visitato la capitale della Confederazione. La prima cosa che notai fu il numero incredibile di Vma che saltellavano in giro come pulci, quasi tutti taxi. Non conosco un’altra città moderna che permetta un inquinamento simile della propria aria. Le strade erano affollate anche di carrozze e c’erano marciapiedi mobili ai lati di ogni via; comunque, quelle locuste a motore erano dappertutto, come le biciclette a Canton. La seconda cosa che notai fu la sensazione che emanava da San José. Non era una città. In quel momento capii una descrizione classica: «Mille villaggi in cerca di una città». San José sembra non avere alcuna giustificazione, a parte la politica. La California, comunque, trae dalla politica più succhi di ogni altro paese a me noto; è una democrazia completamente spudorata e disinibita. La democrazia si trova in molti posti; la Nuova Zelanda, per esempio, la usa in forma attenuata. Ma solo in California troverete il tipo puro, genuino, naturale al cento per cento e non diluito di democrazia. L’età del voto parte da quando un cittadino è abbastanza alto per tirare l’acqua senza farsi tenere fermo dalla nurse, e gli impiegati sono molto riluttanti a togliere un nome dall’anagrafe elettorale, a meno che non gli si sbatta sotto il naso un certificato di cremazione. Capii a fondo la portata della cosa quando lessi, in un articolo sulle elezioni, che i defunti del Prehoda Pines Patience Park costituivano tre distretti elettorali e votavano regolarmente tramite deleghe firmate prima del decesso. (Morte, non t’inorgoglire!) Non cercherò di dare giudizi; ero già una donna adulta prima di incontrare la democrazia nelle sue forme più miti, meno maligne. È probabile che la democrazia sia un bene, usata a piccole dosi. Il Canada Britannico se ne serve in forma diluita, e se la cava benissimo. Ma solo in California tutti sono ubriachi di democrazia in qualunque momento. Non passa giorno senza che in California ci sia un’elezione da qualche parte, e per ogni distretto esiste (così mi hanno detto) un’elezione di qualche tipo circa una volta al mese. Se lo potranno permettere. Hanno un clima mite dal Canada Britannico al Regno Messicano, e buona parte dei terreni più ricchi dell’intero pianeta. Il loro secondo sport preferito, il sesso, costa quasi nulla allo stato grezzo; come la marijuana, è disponibile gratis ovunque. Il che lascia tempo ed energie per il vero sport californiano: radunarsi e straparlare di politica. Eleggono tutti dal parassita di distretto al Capo Confederazione («il Capo»). Ma poi li diseleggono quasi altrettanto in fretta. Per esempio, il Capo dovrebbe avere un mandato di sei anni. Degli ultimi nove capi, però, solo due sono rimasti in carica per sei anni; gli altri sono stati deposti, a parte quello che è stato linciato. In molti casi, l’eletto non ha ancora prestato giuramento quando comincia a circolare la prima petizione per deporlo. Però i californiani non si limitano a eleggere, deporre, mettere in stato d’accusa e (a volte) linciare i loro sciami di funzionari pubblici; no, legiferano in prima persona. A ogni elezione sono in lizza più proposte di legge che candidati. I rappresentanti provinciali e nazionali dimostrano una certa decenza: mi è stato assicurato che il tipico legislatore californiano ritirerà la sua proposta di legge se gli verrà dimostrato che pi greco non può essere uguale a tre, a prescindere dal numero di persone che voteranno in senso opposto. Ma la legislazione ruspante («l’iniziativa privata») non soffre di queste limitazioni. Per esempio, tre anni fa un economista ruspante si accorse che i laureati guadagnavano, mediamente, il 30 per cento in più dei loro connazionali privi di laurea. Una situazione così poco democratica è anatema per il Sogno Californiano; quindi, con la massima velocità, alle elezioni successive venne preparata una proposta di legge, che fu approvata, e in base a questa legge, a tutti i californiani diplomati e/o a tutti i californiani che abbiano compiuto il diciottesimo anno viene automaticamente conferita la laurea. Una clausola tesa a favorire i più anziani conferisce al beneficio un effetto retroattivo di otto anni. La misura funzionò in modo meraviglioso; i veri laureati non godevano più di vantaggi antidemocratici. Alle elezioni seguenti, la clausola sulla retroattività venne estesa fino a coprire gli ultimi vent’anni, e c’è un forte movimento d’opinione che preme per conferire la laurea a tutti i cittadini indiscriminatamente. Vox populi, vox Dei. Io non ci vedo niente di male. Questa simpatica misura non costa nulla e rende tutti (a parte poche teste dure) più contenti. Alle quindici circa Georges e io procedevamo lungo il lato sud di National Plaza, di fronte al palazzo del Capo, diretti alla sede centrale della MasterCard. Georges mi stava dicendo che non vedeva nulla di sbagliato nel fatto che avessi insistito per fermarci a un Burger King per uno spuntino; che anzi, a suo giudizio, l’hamburger gigante, preparato a dovere col miglior surrogato di manzo e con un malto al cioccolato che contenesse solo una dose minima di gesso, costituiva l’unico vero contributo della California all’alta cucina internazionale. Io convenivo con lui, fra ruttini aggraziati. Un gruppo di uomini e donne, fra i dodici e i venti individui, saliva e scendeva la scalinata di fronte al palazzo del Capo, e Georges aveva cominciato a zigzagare per schivarli, quando io notai il copricapo di piume d’aquila dell’ometto al centro del gruppo, scoprii sotto i capelli una faccia abbondantemente fotografata, e bloccai Georges con una mano. E intravvidi qualcosa con la coda dell’occhio: una figura che emergeva da dietro una colonna in cima alle scale. I miei riflessi scattarono. Sbattei giù sui gradini il Capo, facendo crollare anche un paio di uomini del suo staff, poi balzai alla colonna. Non uccisi l’uomo che si nascondeva lì dietro; mi limitai a rompergli il braccio con cui reggeva la pistola, poi gli tirai un calcio piuttosto robusto quando tentò di scappare. Non avevo più la fretta del giorno prima. Dopo aver ridotto la portata del bersaglio costituito dal Capo (credetemi, non dovrebbe portare un copricapo così appariscente), mi era restato il tempo di capire che prendere vivo l’assassino significava poter risalire, forse, alla gang che stava dietro tutti quegli omicidi insensati. Ma non ebbi il tempo di capire che altro avevo fatto finché due poliziotti della capitale non mi afferrarono per le braccia. A quel punto me ne resi conto, e mi sentii uno straccio: chissà lo scherno nella voce di Boss, se avessi ammesso che mi ero lasciata arrestare in pubblico. Per una frazione di secondo, presi in considerazione l’idea di liberarmi e svanire all’orizzonte; non sarebbe stato impossibile, dato che uno dei due poliziotti soffriva chiaramente di pressione alta, e l’altro era un tipo anziano con gli occhiali. Troppo tardi. Se fossi scappata entrando in overdrive totale, quasi certamente ce l’avrei fatta, e in un minuto o due sarei sparita tra la folla. Ma quei mentecatti potevano arrostire mezza dozzina di passanti, nel tentativo di fermarmi. Indegno di un professionista! Perché le guardie di palazzo non avevano protetto il loro capo, anziché costringere me a farlo? Un uomo in agguato dietro una colonna, Cristo santo! Niente del genere era più successo dai tempi dell’omicidio di Huey Long. Perché non mi ero fatta gli affari miei? Perché non avevo lasciato che il killer friggesse il Capo e il suo stupido berretto di piume? Perché sono stata addestrata alla lotta difensiva, ecco perché, e di conseguenza combatto per riflesso. Combattere non mi piace, non mi interessa; succede e basta. Non ebbi il tempo di meditare sulla necessità di farmi gli affari miei, perché Georges si stava facendo i miei. Georges parla un inglese privo di accento, anche se un po’ incerto; adesso borbottava frasi incoerenti in francese e cercava di togliermi di dosso i due pretoriani. Quello con gli occhiali mi lasciò andare il braccio sinistro per occuparsi di Georges, così io gli infilai il gomito appena sotto lo sterno. Lui si afflosciò e cadde a terra. L’altro continuava a tenermi il braccio destro, per cui lo colpii nello stesso punto con le prime tre dita della mano sinistra, dopo di che anche quello si afflosciò e cadde riverso sul suo collega, e vomitarono tutti e due. Tutto questo accadde molto più in fretta di quanto ci voglia a raccontarlo: i porci mi presero, Georges intervenne, e io mi ritrovai libera. Due secondi? In ogni caso, l’assassino era svanito, e con lui la sua pistola. Stavo per svanire anch’io con Georges, a costo di doverlo portare a braccia, quando mi resi conto che Georges aveva già deciso per me. Mi teneva per il gomito destro e mi spingeva verso l’entrata principale del palazzo, dietro la fila di colonne. Quando fummo sulla rotonda, mi lasciò andare il gomito e disse sottovoce: — Cammina piano, tesoro. Lentamente, lentamente. Dammi il braccio. Glielo diedi. La rotonda era piuttosto affollata, ma niente voci eccitate, niente che lasciasse sospettare che a pochi metri da lì qualcuno aveva appena tentato di assassinare il primo cittadino della nazione. I chioschi disseminati lungo la rotonda facevano affari, soprattutto quelli delle scommesse clandestine. Sulla nostra sinistra, una giovane donna vendeva biglietti della lotteria; o per meglio dire, era disponibile a venderli, perché non aveva clienti e in quel momento stava guardando sul suo terminale una telenovela. Georges girò sui tacchi, si fermò davanti al chiosco. Senza alzare gli occhi, la donna disse: — Tra un attimo c’è l’intervallo pubblicitario. Arrivo subito. Prendete quello che volete. Fate come se foste a casa vostra. Tutt’attorno al chiosco erano appesi festoni di biglietti della lotteria. Georges cominciò a studiarli, così finsi anch’io un profondo interesse. La tirammo in lungo. Poi iniziò la pubblicità, la donna abbassò il volume e ci guardò. — Grazie per la vostra comprensione — disse, con un bel sorriso. — Non mi perdo mai Le sventure di una giovane, specialmente adesso che Mindy Lou è di nuovo incinta e zio Ben si comporta in modo così irragionevole. Tu segui la tivù, tesoro? Ammisi che ne avevo il tempo di rado. Problemi di lavoro. — Male. È molto educativa. Prendi Tim, quello che vive con me. Guarda solo lo sport. Non gliene frega niente delle cose più profonde della vita. Prendi questa crisi nella vita di Mindy Lou. Zio Ben la sta perseguitando perché lei non vuole dirgli chi è stato. Credi che a Tim gliene freghi? Nossignore, a Tim no! Quello che Tim e zio Ben non capiscono è che lei non può dirlo perché è successo negli uffici di un comitato elettorale. Di che segno sei? Dovrei prepararmi una risposta per questa domanda. Gli umani lo fanno sempre. Ma quando non sei «nata» sotto nessun segno, tendi a sfuggire cose del genere. Scelsi una data a caso e gliela lanciai. — Sono nata il ventitré aprile. — È la data di nascita di Shakespeare; mi era venuta in mente da sola. — Oh! Ho il biglietto che fa per te! — Frugò in mezzo a una fila di festoni, trovò un biglietto, mi mostrò un numero. — Vedi qui? E tu sei venuta qui per caso e io lo avevo! Oggi è la tua giornata! — Staccò il biglietto. — Sono venti orsi. Le offrii un dollaro del Canada Britannico. Lei rispose: — Non ho il resto. — Tieni il resto con i miei auguri. Lei mi passò il biglietto, prese il dollaro. — Sei un amore, tesoro. Quando avrai ritirato la vincita, fai un salto qui e brindiamo assieme. Mister, hai trovato qualcosa che ti va? — Non ancora. Io sono nato il nono giorno del nono mese del nono anno del nono decennio. Ce la fai? — Wow wow! Che combinazione incredibile! Posso provarci… E se non ci riesco, non ti venderò niente. — Cominciò a scavare tra i mazzi e le pile di carta, canticchiando fra sé. Poi infilò la testa sotto il banco e ci restò un po’. Quando riapparve, rossa in viso e trionfante, stringeva in mano un biglietto. — Ce l’ho! Guardalo, mister! Dagli un’occhiata rispettosa. Guardammo: 8109999. — Sono colpito — disse Georges. — Colpito? Sei ricco. Ci sono i tuoi quattro nove. Somma gli altri numeri, e hai il quinto nove. Nove per cinque, quarantacinque. Aggiungi gli ultimi quattro nove, e hai ottantuno. Nove al quadrato. Dividi per nove e cosa ottieni? Nove! Sempre nove! Questo numero puoi girarlo come vuoi, ma salta sempre fuori il nove della tua data di nascita. Cosa vorresti, mister? Delle ballerine? — Quanto ti devo? — È un numero molto speciale. Tutti gli altri numeri esposti puoi averli per venti orsi, ma questo qui… Perché non continui a mettermi davanti dei soldi finché non sorrido? — Mi sembra giusto. Se poi non sorridi quando secondo me dovresti sorridere, mi riprenderò i soldi e me ne andrò. No? — Potrei richiamarti. — No. Se non mi dai un prezzo fisso, non ti permetterò di mercanteggiare dopo che ti avrò fatto un’offerta equa. — Sei un cliente difficile, amico. Ho… Attorno a noi, su ogni lato, gli altoparlanti cominciarono di colpo a urlare: — Ave al Capo! — seguito da: — L’Orso d’Oro per sempre. — La donna dei biglietti strillò: —Aspettate! Smette subito! — una folla consistente entrò dall’ingresso, traversò in rettilineo la rotonda e imboccò il corridoio centrale. Nel mezzo di quel grumo umano intravvidi il copricapo a piume del Capo della Confederazione, ma questa volta era così ben circondato dai suoi parassiti che un assassino avrebbe avuto non poche difficoltà a colpirlo. Quando fu di nuovo possibile udire, la donna del chiosco disse: — Per fortuna è durato poco. È uscito di qui meno di quindici minuti fa. Se doveva solo arrivare all’angolo per un pacchetto di spinelli, perché non ha mandato qualcuno invece di andare lui? È pessimo per gli affari, tutto quel casino. Be’, amico, hai deciso quanto vuoi pagare per diventare ricco? — Ma sì. — Georges tirò fuori un biglietto da tre dollari, lo mise sul banco. Guardò la donna. Restarono a fissarsi per una ventina di secondi, poi lei disse, cupa: — Sto sorridendo. Probabilmente. — Prese i soldi con una mano, passò il biglietto a Georges con l’altra. — Scommetto che potevo spillarti un altro dollaro. — Non lo sapremo mai, eh? — Giochiamo al raddoppio? — Con le tue carte? — chiese gentilmente Georges. — Amico, tu mi fai invecchiare prima del tempo. Sparisci prima che cambi idea. — Le toilette? — Giù in corridoio, sulla mia sinistra. — La donna aggiunse. — Non perdetevi le estrazioni. Ci avviammo verso le toilette. Sottovoce, in francese, Georges mi disse che mentre noi perdevamo tempo al chiosco i gendarmi ci erano passati alle spalle, erano entrati nei gabinetti, usciti, tornati alla rotonda, e poi spariti in corridoio. Lo interruppi, parlando anch’io in francese. Gli dissi che lo sapevo, ma che il posto doveva essere pieno zeppo di Occhi, di Orecchie. Avremmo discusso dopo. Non volevo zittirlo per capriccio. Due guardie in uniforme (non quelle coi problemi di stomaco) erano entrate quasi alle nostre calcagna, erano corse a controllare per prima cosa le toilette (ragionevole; un dilettante cerca spesso di nascondersi nei gabinetti pubblici), erano uscite e ci avevano superati, perdendosi nei meandri del palazzo. Georges, tranquillissimo, si era fermato a guardare i biglietti della lotteria mentre le guardie che ci cercavano lo sfioravano un paio di volte. Ammirevole. Molto professionale. Ma dovevo aspettare a dirglielo. Una persona di sesso indeterminato vendeva i biglietti d’ingresso per la toilette. Gli (le) chiesi quale fosse la toilette per signore. Quella (decisi che era una donna quando, dopo un’osservazione ravvicinata, notai che la sua maglietta copriva tette false, oppure vere e molto piccole) rispose in tono arcigno: — Sei scema? Ti piace discriminare, eh? Dovrei chiamare un poliziotto. — Poi mi studiò un po’ meglio. — Sei forestiera. Lo ammisi. — Okay. Stai attenta a non dire certe cose. Alla gente non piacciono. Qui siamo democratici, chiaro? Ganzi e donzelle usano le stesse tazze. Quindi compera un biglietto o piantala di bloccare l’ingresso. Georges comperò due biglietti. Entrammo. Sulla nostra destra c’era una fila di cubicoli aperti. Sopra fluttuava un ologramma: QUESTE ATTREZZATURE IGIENICHE SONO OFFERTE GRATIS PER LA VOSTRA SALUTE E IL VOSTRO BENESSERE DALLA CONFEDERAZIONE CALIFORNIANA — JOHN «WARWHOOP» TUMBRIL, CAPO DELLA CONFEDERAZIONE. Un ologramma a grandezza naturale del Capo fluttuava più in alto. Oltre ai cubicoli aperti c’erano quelli a pagamento, con tanto di porta; ancora più in fondo, altri cubicoli chiusi da tendaggi. Alla nostra sinistra, una bancarella di novità e idee regalo gestita da una persona di sesso molto spiccato, con due tette così. Georges si fermò lì e mi sorprese acquistando diversi cosmetici e un flacone di profumo da due soldi. Poi chiese un biglietto per uno degli spogliatoi in fondo. — Un biglietto? — La donna lo scrutò negli occhi. Georges annuì. Lei si leccò le labbra. — Sporcaccione, sporcaccione. Niente scopate illegali, amico. Georges non rispose. Un dollaro canadese passò dalla sua mano a quella della donna, svanì. La donna disse piano: — Non metteteci troppo. Se suono il campanello, rendetevi presentabili in fretta. Numero sette, in fondo a destra. Raggiungemmo lo spogliatoio numero sette, quello più in fondo, ed entrammo. Georges tirò le tende, chiuse le cerniere, fece scorrere l’acqua del water, poi aprì il rubinetto dell’acqua fredda e la lasciò correre. Riprendendo a parlare in francese mi disse che dovevamo cambiare aspetto senza travestimenti complicati, per cui, per favore, tesoro, togliti quello che hai addosso e mettiti la tuta che tieni nella sacca. Mi diede spiegazioni più particolareggiate, mischiando il francese all’inglese e continuando a tirare l’acqua del water di tanto in tanto. Io dovevo indossare la scandalosa Superpelle, mettermi più trucco del solito, e cercare di sembrare la famosa Prostituta di Babilonia, o qualcosa del genere. — So che non è il tuo métier, cara ragazza, ma tenta. — Cercherò di essere sufficiente. — Touché! — E tu vuoi metterti i vestiti di Janet? Non penso che ti vadano bene. — No, non mi travestirò. Ondeggerò solo di sedere. — Prego? — Non indosserò abiti femminili. Tenterò semplicemente di apparire effeminato. — Non ci credo. Va bene, proviamoci. Io non subii troppi cambiamenti: solo la tuta stuzzicante che aveva preso al laccio Ian, più una dose di trucco superiore alla media, applicata da Georges (che sembrava convinto di essere più esperto di me nel trucco; ne era convinto perché era più esperto), più, quando uscimmo, la camminata del tipo eccomi-qui-se-ne-hai-voglia-prendimi. Georges usò su se stesso più trucco di quanto avesse usato su di me, più quel profumo schifoso (che non mi chiese di mettere), più un foulard arancio shocking al collo che prima io tenevo come cintura. Mi chiese di gonfiargli i capelli con le mani e spruzzarli di spray, in maniera che restassero gonfi. Tutto qui… più un cambiamento radicale al suo modo di muoversi. Era ancora Georges; però non era più il macho assatanato che la notte prima mi aveva deliziosamente sfibrata. Riempii la sacca e uscimmo. La vecchia befana della bancarella sgranò gli occhi e trattenne il fiato quando mi vide. Ma non disse niente, perché un uomo che se ne stava appoggiato alla bancarella si tirò su, puntò un dito su Georges e disse: — Tu. Il Capo ti vuole. — Poi aggiunse, quasi tra sé: — Non ci credo. Georges si fermò, gesticolò alla disperata con tutte e due le mani. — Oh, misericordia! Deve esserci un errore. Il gorilla morse lo stuzzicadenti che stava succhiando e rispose: — Lo penso anch’io, cittadino. Però non lo dirò, e non lo dirai nemmeno tu. Andiamo. Non tu, sorellina. Georges disse: — Io di certo non vado da nessuna parte senza la mia cara sorellina! Punto e basta! La befana disse: — Morrie, lei può restare qui. Tesoruccio, vieni a sederti qui dietro con me. Georges accennò un no impercettibile con la testa, ma non era necessario. Se mi fossi fermata o quella mi avrebbe riportato diritta allo spogliatoio, o io l’avrei infilata nel suo cestino dei rifiuti. Avrei scommesso la testa che sarei stata io ad agire. Se il lavoro lo richiede, non mi tiro indietro davanti a bestialità del genere (e quella sarebbe stata meno sgradevole di Rocky Rockford), ma lo faccio solo per dovere, non per piacere. Se e quando cambierò abitudini sessuali, sarà con qualcuno che mi piace e che rispetto. Mi avvicinai di più a Georges, lo presi per il braccio. — Non ci siamo mai separati da che mamma sul suo letto di morte mi ha chiesto di prendermi cura di lui. — Aggiunsi: — Punto e basta! — Una frase che significa poco ma risolve molte situazioni. Tutti e due assumemmo un’aria imbronciata e testarda. Il tizio che si chiamava Morrie guardò me, poi Georges, e sospirò: — All’inferno. Vienici dietro, sorellina. Però tieni il becco chiuso e stai alla larga. Sei punti di controllo più tardi, a ciascuno dei quali venne fatto un tentativo per sbucciarmi, fummo introdotti alla Presenza. La mia prima impressione del Capo della Confederazione John Tumbril fu che era più alto di quanto avessi creduto. Poi decisi che era la mancanza del copricapo di piume a fare la differenza. La seconda impressione fu che era ancora più scialbo di quanto lo mostrassero fotografie, cartoni animati e immagini sui terminali; e non cambiai più opinione. Come tanti altri uomini politici prima di lui, Tumbril aveva trasformato la sua spiccata, singolare bruttezza in una risorsa politica. (La bruttezza è una necessità per un capo di stato? Ripensando alla storia, non riesco a trovare un solo uomo bello che abbia fatto molta strada in politica, bisogna tornare fino ad Alessandro il Grande, ma quello era partito avvantaggiato: suo padre era re.) In ogni caso, «Warwhoop» Tumbril aveva l’aria della rana che cerca di sembrare rospo e non ci riesce per un soffio. Il Capo si schiarì la gola. — Quella cosa ci fa qui? Georges ribatté immediatamente: — Signore, devo presentare una lamentela molto seria! Quell’uomo… Quell’uomo… — Indicò il masticatore di stuzzicadenti. — Ha cercato di dividermi dalla mia amata sorella! Bisogna rimproverarlo! Tumbril guardò Morrie, guardò me, tornò a guardare il suo parassita. — È vero? Morrie asserì di non averlo fatto, ma che se anche lo avesse fatto sarebbe stato perché pensava che fossero quelli gli ordini di Tumbril, e comunque pensava che… — Tu non devi pensare — sentenziò Tumbril. — Parlerò con te più tardi. E perché la lasci in piedi? Dalle una sedia! Ma devo proprio pensare io a tutto? Dopo che mi fui seduta, il Capo riportò l’attenzione su Georges. — Oggi avete fatto un Gesto Coraggioso. Sissignore, un Gesto Molto Coraggioso. La Grande Nazione della California è Fiera di aver cresciuto Figli del Vostro Calibro. Come vi chiamate? Georges gli diede il proprio nome. — Payroll è un Fiero Nome Californiano, signor Payroll. Un nome che splende nella nostra Nobile Storia, dai rancheros che hanno abbattuto il Giogo Spagnolo ai Coraggiosi Patrioti che hanno abbattuto il Giogo di Wall Street. Vi spiace se vi chiamo Georges? — Niente affatto. — E tu puoi chiamarmi Warwhoop. Ecco la Maestosa Gloria della nostra Grande Nazione Georges. Tutti noi siamo Uguali. Intervenni io: — Questo vale anche per le persone artificiali, Capo Tumbril? — Eh? — Stavo chiedendo delle persone artificiali come quelle che producono a Berkeley e Davis. Sono uguali anche loro? — Uh… Giovane Signora, non dovreste interrompere chi è più anziano di voi. Ma per rispondere alla vostra domanda: com’è possibile che la Democrazia Umana valga anche per creature che non sono Umane? Vi aspettate forse che un gatto voti? O che voti un Vma Ford? Parlate. — No, però… — Eccoci qua. Tutti sono uguali e Tutti votano. Però bisogna pur tracciare il confine da qualche parte. Adesso chiudete il becco, accidentaccio, e smettetela di interrompere chi è più anziano di voi. Georges, quello che hai fatto oggi… Cioè, se quel bastardo avesse davvero voluto attentare alla mia vita, il che non è, e non dimenticarlo mai… Non avresti potuto comportarti in maniera più consona a tutte le Eroiche Tradizioni della Nostra Grande Confederazione Californiana. Tu Mi Rendi Fiero! Tumbril si alzò, abbandonò la scrivania, incrociò le mani dietro la schiena e cominciò a passeggiare; e io scoprii perché mi era parso più alto lì che all’aperto. Doveva usare una specie di seggiolone, o forse aveva una piattaforma sotto il suo scranno. Così, al naturale, mi arrivava all’incirca alla spalla. Passeggiando in su e in giù, rifletté ad alta voce. — Georges, c’è sempre un posto nella famiglia dei miei funzionari per un uomo col coraggio che tu hai dimostrato. Chi lo sa? Potrebbe arrivare il giorno in cui mi salverai da un criminale che abbia davvero brutte intenzioni nei miei confronti. Agitatori stranieri, intendo. Non ho nulla da temere dai Leali Patrioti Californiani. Mi adorano tutti per ciò che ho fatto per loro reggendo le sorti della Nazione dall’Ottagono. Ma altri paesi sono gelosi di noi. Ci invidiano il nostro stile di vita Ricco e Libero e Democratico, e a volte il loro odio smisurato esplode in atti di violenza. Per un attimo restò a capo chino, in riverente adorazione di qualcosa. — Uno dei Prezzi del Privilegio di Servire — disse in tono solenne. — Ma un Prezzo che, con Tutta Umiltà, bisogna essere pronti a pagare Serenamente. Dimmi, Georges, se ti si chiedesse di compiere l’Estremo Sacrificio perché il Primo Cittadino del Tuo Paese possa vivere, esiteresti? — Mi sembra molto improbabile — rispose Georges. — Eh? Cosa? — Be’, quando voto, e non accade spesso, di solito voto réunioniste. Ma l’attuale primo ministro è revanchiste. Dubito che si servirebbe di me. — Che diavolo stai dicendo? — Je suis Québecois, M.le chef d’état. Sono di Montréal. 16 Cinque minuti più tardi eravamo di nuovo in strada. Per qualche teso momento era parso che fossimo destinati a essere impiccati o fucilati o per lo meno chiusi per l’eternità nei loro sotterranei più profondi, per il crimine di non essere californiani. Ma una decisione più prudente prevalse quando il primo capoccione legale di Warwhoop convinse il Capo che era meglio lasciarci andare anziché rischiare un processo, anche a porte chiuse: il console generale del Québec poteva collaborare, ma comperare il suo intero staff sarebbe stato orribilmente costoso. Il capoccione legale non lo disse esattamente in questo modo, ma non sapeva che lo stavo ascoltando; non avevo parlato del mio udito super nemmeno con Georges. Il primo consigliere del Capo mormorò qualcosa sulle rogne che abbiamo avuto con quella piccola bambola messicana dopo che tutti gli altri messicani sono venuti a sapere la storia. Non possiamo permetterci un altro casino del genere. Stacci attento, Capo; quelli sono terribili coi piccoletti. Così alla fine uscimmo dal palazzo e arrivammo alla sede centrale della MasterCard in California, quarantacinque minuti più tardi; e perdemmo altri dieci minuti per sbarazzarci delle rispettive personae fasulle, in una toilette del Credito Commerciale Californiano. La toilette era non discriminatoria e democratica, però in modo non aggressivo. Non si pagava per entrare e i cubicoli avevano le porte e le donne usavano un lato e gli uomini usavano il lato con gli orinatoi appesi che per gli uomini vanno bene quanto un water, e l’unico posto in cui i due sessi si mischiavano era una stanza al centro attrezzata di lavandini e specchi, e anche lì le donne tendevano a stare da una parte e gli uomini dall’altra. Espletare i bisogni corporali in compagnia non mi sconvolge (dopo tutto sono cresciuta in un laboratorio), ma ho notato che uomini e donne, se appena possono ritirarsi in privato, si ritirano in privato. Georges aveva un aspetto molto migliore senza il rossetto. Si era anche passato acqua sui capelli, per sgonfiarli. Rimisi quel foulard sgargiante nella sacca. Lui mi disse: — Temo sia stata una mossa idiota camuffarci a quel modo. Mi guardai attorno: nessuno nelle vicinanze, e col frastuono dei servizi igienici e dell’aria condizionata… — Io non credo, Georges. Penso che in sei settimane potresti diventare un vero professionista. — Un professionista di che tipo? — Un Pinkerton, magari. Oppure… — Arrivò qualcuno. — Ne discutiamo poi. Comunque ci abbiamo guadagnato due biglietti della lotteria. — Vero. Quando c’è l’estrazione per il tuo? Tirai fuori il biglietto, lo guardai. — Ehi, oggi! Oggi pomeriggio! O ho perso la bussola con le date? — No — disse Georges, scrutando il mio biglietto. — È proprio oggi. Fra un’oretta dobbiamo cercare di trovarci vicino a un terminale. — Inutile — lo informai. — Io non vinco a carte, non vinco ai dadi, non vinco alle lotterie. Quando compero i Cracker Jack, nella scatola non c’è mai il regalo. Georges stava studiando il suo biglietto. — Friday, guarda qui. — Passò il pollice sulla carta. Le scritte rimasero intatte; i numeri emisero sbavature d’inchiostro. — Bene, bene! Per quanto tempo la nostra amica è rimasta con la testa sotto il banco, prima di trovare questo biglietto? — Non saprei. Meno di un minuto. — Quanto bastava, è chiaro. — Glielo riporti? — Io? Friday, perché dovrei? Un virtuosismo simile merita l’applauso. Però la signorina spreca un grande talento per un giro da niente. Adesso saliamo. Bisogna concludere con la MasterCard prima dell’estrazione. Temporaneamente, tornai a essere Marjorie Baldwin, e ci fu concesso di parlare col nostro signor Chambers negli uffici della California MasterCard. Il signor Chambers era una persona gradevolissima: cordiale, socievole, comprensivo, amichevole; e oltre tutto era l’uomo che faceva al mio caso, visto che la targa sulla sua scrivania ci informò che era vicepresidente per le relazioni coi clienti. Dopo diversi minuti cominciai a capire che la sua autorità consisteva tutta nel dire no, e che il suo grande talento stava nel saper dire no in un’infinità di modi cordiali e simpatici, al punto che il cliente quasi non si rendeva conto che erano solo rifiuti. Per prima cosa, vi prego di capire, signorina Baldwin, che la MasterCard della California e la MasterCard dell’Impero di Chicago sono due enti separati, e che voi non avete un contratto con noi. Con nostro sommo dispiacere. Vero, per ragioni di cortesia e collaborazione normalmente noi onoriamo le carte di credito emesse da loro, e loro onorano le carte di credito emesse da noi. Però era davvero spiacente di informarmi che al momento (sottolineò in tutti i modi «al momento») l’Impero aveva interrotto ogni comunicazione, e per quanto potesse apparire strano, quel giorno, non era stato fissato il cambio tra orsi e corone… Quindi, in che modo potremmo onorare una carta di credito dell’Impero, anche se saremmo più che disposti a farlo e lo faremo… più avanti? Però vogliamo che la vostra permanenza qui sia la migliore possibile, e come possiamo adoperarci in questo senso? Gli chiesi quando pensava che sarebbe terminata l’emergenza. Il signor Chambers restò interdetto. — Emergenza? Quale emergenza, signorina Baldwin? Forse c’è un’emergenza nell’Impero, se hanno deciso di chiudere il confine, ma qui di certo non ce n’è nessuna! Guardatevi attorno. Avete mai visto un paese così ricco di pace e prosperità? Gli risposi di no e mi alzai, perché mi sembrava inutile continuare a discutere. — Grazie, signor Chambers. Siete stato di una gentilezza estrema. — È stato un piacere, signorina Baldwin. Questi sono gli standard della MasterCard. E non dimenticate, qualunque cosa io possa fare, qualunque, sono al vostro servizio. — Grazie, lo ricorderò. Sentite, c’è un terminale pubblico nel palazzo? Ho comperato un biglietto della lotteria qualche ora fa, e sta per esserci l’estrazione. Lui uscì in un sorriso enorme. — Mia cara signorina Baldwin, sono felice che lo abbiate chiesto! A questo piano abbiamo una grande sala riunioni, e ogni venerdì pomeriggio, appena prima dell’estrazione, si ferma tutto e i nostri dipendenti… o almeno quelli che hanno un biglietto, non è obbligatorio partecipare… si riuniscono lì a guardare l’estrazione. J.B., il nostro presidente e direttore generale… il vecchio J.B. ha deciso che fosse meglio così, anziché costringere i giocatori più incalliti a fare finta di dover correre al bagno o in tabaccheria. È meglio per il morale. Quando uno dei nostri vince qualcosa, e succede, riceve una bella torta con le candeline, come se fosse il suo compleanno. Dono del vecchio J.B. in persona. E J.B. esce a mangiarsi una fetta col fortunato vincitore. — La vostra deve essere una famiglia felice. — Oh, lo è! In questo istituto finanziario non esistono crimini col computer. Tutti amano il vecchio J.B. — Si guardò l’indice. — Andiamo in sala riunioni. Il signor Chambers provvide a farci accomodare nelle poltroncine per Vip, ci portò personalmente il caffè, poi decise di restare a guardare l’estrazione. Lo schermo occupava quasi tutta la parete sul fondo della sala. Ci sorbimmo una mezz’ora di premi minori, e in quei trenta minuti il maestro di cerimonie non fece altro che scambiare battutacce a doppio senso col suo assistente, battutacce imperniate quasi esclusivamente sulle doti fisiche della ragazza che estraeva i numeri. Era chiaro che la ragazza era stata scelta per le doti fisiche, piuttosto notevoli; nonché per la disponibilità a indossare un costume che non solo metteva in mostra ogni possibile dote, ma dava al pubblico la certezza che lei non nascondesse niente. Tutte le volte che tuffava un braccio nel canestro girevole ed estraeva un numero, era vestita soprattutto della benda sugli occhi. Doveva essere un lavoro piuttosto gradevole, se il riscaldamento nello studio era buono. A metà delle cerimonie si alzarono urla dalle prime file: un’impiegata della MasterCard aveva vinto mille orsi. Chambers rifece il suo sorriso gigante. — Non succede spesso, ma quando succede alza il morale di tutti per giorni e giorni. Vogliamo andare? No, voi avete ancora un biglietto che potrebbe vincere, giusto? Per quanto è improbabile che il fulmine cada qui due volte di seguito. Alla fine, tra squilli di trombe, arrivammo al primo premio della settimana: il «Super-Premio Colossale, Enorme, Tutto Californiano!!!» La ragazza in pelle d’oca estrasse prima due premi di consolazione: una scorta di un anno di Ukiah Gold con una pipa per hashish, e una cena con la grande sensistar Bobby «Il Bruto» Pizzarro. Poi venne estratto il biglietto iperfortunato. Il maestro di cerimonie lesse, a uno a uno, i numeri che apparvero fiammeggianti sopra la sua testa. — Signor Zee! — urlò. — Il proprietario ha depositato il biglietto in banca? — Un momento… No, non è stato depositato. — Abbiamo una Cenerentola! Un vincitore sconosciuto! Da qualche parte, nella nostra grande e meravigliosa Confederazione qualcuno è più ricco di duecentomila orsi! Questo figlio prediletto della fortuna ci sta ascoltando? Vorrà telefonarci e parlare in diretta con tutti voi prima che il programma termini? O si sveglierà domani mattina per sentirsi dire che è ricco? Il numero è questo, gente! Lo leggerete sullo schermo fino alla fine del programma, dopo di che sarà ripetuto a ogni notiziario, finché questa persona baciata in fronte dalla buona sorte non reclamerà ciò che le spetta! E adesso un messaggio… — Friday — sussurrò Georges — fammi vedere il tuo biglietto. — Non è necessario, Georges — gli mormorai in risposta. — È quello. Il numero vincente. Il signor Chambers si alzò. — Lo show è finito. Sono lieto che un membro della nostra piccola famiglia abbia vinto qualcosa. È stato un piacere avervi con noi, signorina Baldwin e signor Karo. E non esitate a interpellarmi se potessimo esservi d’aiuto. — Signor Chambers — chiesi — la MasterCard potrebbe incassare per me? Non voglio farlo di persona. Il signor Chambers è un caro uomo, ma un po’ lento. Dovette confrontare i numeri sul mio biglietto coi numeri che lampeggiavano ancora sullo schermo tre volte prima di convincersi. Poi Georges dovette fermarlo quando schizzò via in tutte le direzioni per chiamare un fotografo, telefonare alla direzione della Lotteria Nazionale, convocare una squadra dell’olovisione; ed è un bene che sia stato Georges a fermarlo, perché io avrei anche potuto usare le maniere forti. I signori uomini che non danno retta alle mie obiezioni mi irritano. — Signor Chambers! — disse Georges. — Non l’avete sentita? Non vuole farlo di persona. Non vuole pubblicità. — Cosa? Ma i vincitori finiscono sempre nei notiziari. È routine! Non ci metteranno più di un momento ad arrivare, se è questo che vi preoccupa. Ricordate la ragazza che ha vinto prima? In questo istante la stanno fotografando con J.B. e la sua torta. Andiamo nell’ufficio del vecchio J.B. e… — Georges — dissi io. — American Express. Georges non è lento; e non mi spiacerebbe sposarlo, se mai Janet dovesse lasciarlo libero. — Signor Chambers — disse subito lui — qual è l’indirizzo della sede centrale dell’American Express a San José? Il volo planante di Chambers si interruppe di colpo. — Cosa avete detto? — Potete darci l’indirizzo dell’American Express? La signorina Baldwin porterà là il suo biglietto vincente per l’incasso. Li chiamerò prima e mi assicurerò che ci garantiscano nel modo più assoluto il segreto bancario. — Ma non potete. Ha vinto qui. — Possiamo, e lo faremo. La signorina non ha vinto qui. Semplicemente si trovava qui mentre l’estrazione si svolgeva da un’altra parte. Levatevi di torno. Ce ne andiamo. Poi dovemmo ripetere tutto da capo per J.B., che era un vecchio papero pieno di dignità, con un sigaro a un lato della bocca e uno strato di glassa bianca sul labbro superiore. Non era né lento né stupido, però era abituato a veder esauditi i propri desideri, e Georges dovette fare un accenno piuttosto sonoro all’American Express prima che lui si ficcasse in testa che non avrei tollerato la minima pubblicità (Boss sarebbe svenuto!) e che eravamo pronti a trattare coi cambiavalute di Rialto, piuttosto che affidarci a lui. — Ma la signorina Bulgrin è una cliente della Master-Card. — No — ribattei. — Credevo di essere una cliente della MasterCard ma il signor Chambers si è rifiutato di onorare il mio credito. Quindi aprirò un conto con l’American Express. Senza fotografi. Chambers spiegò che la mia carta di credito era stata emessa dalla Banca Imperiale di St. Louis. — Un istituto di ottima reputazione — commentò J.B. — Chambers. Fornitele un’altra carta di credito. Nostra. Immediatamente. E incassate per lei il biglietto vincente. — Mi guardò, si tolse il sigaro di bocca. — Senza pubblicità. Gli affari dei clienti della MasterCard sono sempre confidenziali. Soddisfatta, signorina Walgreen? — Molto, signore. — Chambers. Eseguite. — Sì, signore. Che limite di credito, signore? — Che entità di credito desiderate, signorina Belgium? Forse dovrei chiedervelo in corone. A quanto ammonta il vostro deposito presso i miei colleghi di St. Louis? — Sono una cliente in oro, signore. I miei rendiconti sono in lingotti e non in corone, in base al loro metro di conversione fra oro e valuta. È lo stesso se facciamo i conti in oro? Il fatto è che non sono abituata a pensare in denaro. Viaggio così tanto che mi è più facile pensare in grammi d’oro. — (È quasi ingiusto parlare di oro a un banchiere di un paese con la moneta debole; gli obnubila il cervello.) — Volete pagare in oro? — Se è possibile. In lingottini a diciotto carati che vi verranno versati dalla Ceres & South Africa Acceptance, ufficio di Luna City. Lo trovate accettabile? Di solito pago trimestralmente, appunto perché viaggio tanto, ma posso dare istruzioni alla C. & S.A.A. di pagarvi mensilmente, se un trimestre è troppo per voi. — Il trimestre va benissimo. — (Certo che va benissimo; gli interessi passivi si accumulano.) — Ora, per il limite di credito… A essere sincera, signore, non mi va di investire una parte troppo grossa delle mie attività finanziarie in una sola banca o in un solo paese. Vogliamo limitarci a trenta chili? — Se è questo che desiderate, signorina Bedlam. Se un domani voleste alzare il limite, fatecelo sapere. — J.B. aggiunse: — Chambers. Eseguite. Così tornammo nello stesso ufficio dove ero stata informata che la mia carta di credito valeva zero. Il signor Chambers mi offrì un modulo. — Permettetemi di aiutarvi a compilarlo, signorina. Diedi un’occhiata. Nome dei genitori. Nome dei nonni. Luogo e data di nascita. Indirizzi, tutti quelli degli ultimi quindici anni. Attuale datore di lavoro. Datore di lavoro immediatamente precedente. Motivi per cui si è lasciato il lavoro precedente. Stipendio attuale. Situazione finanziaria. Tre referenze di persone che vi conoscono almeno da dieci anni. Siete mai andato soggetto a bancarotta o una vostra azienda è stata messa in regime di amministrazione controllata o siete stato direttore o dirigente di ditte, società o enti che abbiano fatto inchiesta di riorganizzazione in base al paragrafo tredici della Legge Novantasette del Codice Civile della Confederazione Californiana? Siete mai stato giudicato colpevole di… — Friday. No. — Stavo per dirlo io. — Mi alzai. Georges disse: — Addio, signor Chambers. — Qualcosa non va? — Ma certo. Il vostro direttore vi ha detto di intestare alla signorina Baldwin una carta di credito per pagamenti in oro a diciotto carati con un limite di trenta chilogrammi. Non vi ha detto di sottoporla a un quiz impertinente. — Ma è una procedura sta… — Lasciamo perdere. Spiegate a J.B. che avete fallito un’altra volta. Il nostro signor Chambers diventò di un verde chiaro: — Sedetevi, per favore. Dieci minuti dopo ce ne andammo, e io avevo una nuova carta di credito color oro, buona dappertutto (speravo). In cambio avevo dato il mio numero di casella postale a St. Louis, l’indirizzo del mio parente più prossimo (Janet), e il mio numero di conto corrente a Luna City; e avevo firmato l’autorizzazione ad addebitare le mie spese, ogni trimestre alla C. & S.A.A. Possedevo inoltre un tranquillizzante gruzzolo di orsi e un altro più o meno identico di corone, e la ricevuta per il biglietto della lotteria. Lasciammo l’edificio, girammo l’angolo, raggiungemmo National Plaza, trovammo una panchina e sedemmo. Erano le diciotto; faceva un fresco piacevole, ma il sole era ancora alto sopra le montagne di Santa Cruz. Georges si informò: — Cara Friday, quali sono i tuoi desideri? — Restare seduta qui un attimo e rimettere in ordine le idee. Poi dovrei offrirti da bere. Ho vinto la lotteria, devo offrire. È il minimo. — Il minimo — convenne lui. — Hai vinto duecentomila orsi con… venti orsi? — Un dollaro. Le ho lasciato il resto. — Più o meno. Hai vinto quasi ottomila dollari. — Settemilaquattrocento e sette dollari, più qualche cent. — Non è una fortuna, ma una somma rispettabile. — Piuttosto rispettabile — convenni. — Per una donna che ha iniziato la giornata affidandosi al buon cuore degli amici. A meno che non fossi in credito di qualcosa per la mia performance «sufficiente» della notte scorsa. — Mio fratello Ian esigerebbe un labbro gonfio, per una frase del genere. Volevo aggiungere che per quanto settemilaquattrocento dollari siano una somma rispettabile mi ha colpito molto di più il fatto che col solo ausilio di un biglietto della lotteria tu abbia convinto una banca tanto conservatrice ad aprirti un credito di un milione di dollari circa, calcolati in oro. Come ci sei riuscita, tesoro? Non hai battuto ciglio. Non hai messo nemmeno un pizzico di veleno nella voce. — Georges, sei stato tu a spingerli a darmi la carta di credito. — Non credo. Sì, ho cercato di reggerti il gioco… Ma tutte le mosse le hai iniziate tu. — Non la mossa per quell’orribile questionario! Da quello mi hai tirata fuori tu. — Oh. Quell’asino non aveva motivo di sottoporti a un quiz. Il suo boss gli aveva già ordinato di darti la carta. — Mi hai salvata. Stavano per saltarmi i nervi. Georges, caro Georges! lo so che mi hai detto che non devo sentirmi a disagio per quello che sono, e ci provo, credimi! Ma trovarmi davanti un modulo che pretende di sapere tutto sui miei genitori e sui miei nonni… È scoraggiante! — Non posso aspettarmi che ti passi da un giorno all’altro. Ci lavoreremo su. Di certo non ti sono saltati i nervi quando si è trattato di chiedere credito. — Be’, una volta ho sentito qualcuno dire… — (Boss) — che è molto più facile avere in prestito un milione che dieci. Per cui, quando me lo hanno chiesto, non ho preteso esattamente un milione di dollari canadesi. Solo novecentosessantaquattromila dollari, più o meno. — Non cavillerò. Io sono rimasto senza fiato quando abbiamo superato i novecentomila. Ragazza sufficiente, lo sai qual è lo stipendio di un professore? — Ha importanza? Da quello che so della tua professione, un modello di successo di creatura sintetica può rendere milioni. Persino milioni di grammi d’oro, non di dollari. Tu non hai creato nessun modello di successo? O è una domanda scortese? — Cambiamo argomento. Stanotte dove si dorme? — Potremmo essere a San Diego in quaranta minuti o a Las Vegas in trentacinque. Tutti e due i posti hanno i loro vantaggi e svantaggi per chi voglia raggiungere l’Impero. Georges, adesso che ho soldi a sufficienza, mi presenterò a rapporto, a dispetto di tutti i fanatici che vanno in giro a uccidere pezzi grossi. Però prometto su quello che ho di più caro che farò un salto a Winnipeg appena avrò qualche giorno di ferie. — Può darsi che io non possa rientrare a Winnipeg. — Allora verrò a trovarti a Montréal. Senti, amore, ci scambieremo tutti gli indirizzi che abbiamo. Non voglio perderti. Tu mi assicuri che sono umana e mi dici che sono sufficiente. Fai bene al mio morale. Adesso scegli, perché per me è lo stesso. San Diego e parlare ispaninglese, o Vegas e guardare belle donne nude. 17 Scegliemmo tutti e due i posti e finimmo a Vicksburg. Il confine tra Texas e Chicago era chiuso su entrambi i lati in ogni punto, così decisi di tentare per prima la carta del fiume. Ovviamente Vicksburg è ancora Texas, ma per i miei scopi quello che contava era la sua posizione di maggior porto fluviale all’esterno dell’Impero; soprattutto la sua posizione di porto di partenza per i contrabbandieri in tutte e due le direzioni. Come l’antica Gallia, Vicksburg è divisa in tre parti. C’è la città bassa, il porto, a livello dell’acqua e talora allagata, e c’è la città alta che Sorge su un ripido di un centinaio di metri d’altitudine e che a sua volta si divide in città vecchia e città nuova. La città vecchia è circondata dai campi di battaglia di una guerra dimenticata da secoli (ma non da Vicksburg!). I campi di battaglia sono sacri; sopra non ci si può costruire nulla. Così la città nuova sorge all’esterno di questi terreni sacri, e sopravvive perché è collegata alla città vecchia, e a se stessa, da un sistema di tunnel e sotterranee. La città alta è collegata alla bassa da scale mobili e funivie che arrivano fino alle mura esterne. Per me, la città alta era solo un buco per dormire. Scendemmo al Vicksburg Hilton (gemello del Bellingham Hilton fino al Breakfast Bar nel seminterrato), ma i miei affari mi portavano al fiume. Furono momenti felici e tristi: Georges sapeva che non gli avrei permesso di seguirmi oltre, e avevamo smesso di discuterne. Anzi, non gli permisi nemmeno di seguirmi alla città bassa; e lo avvertii che forse non sarei più tornata da un giorno all’altro, che magari non mi sarei nemmeno fermata a registrare un messaggio per il nostro terminale. Appena fosse giunto il momento di partire, sarei partita. Vicksburg bassa è un posto maligno e gagliardo, pieno di vita strisciante come un letamaio. Di giorno i poliziotti lo pattugliano in coppia; di notte scompaiono. È una città di vagabondi, prostitute, contrabbandieri, spacciatori, spacciatori all’ingrosso, spie, travestiti, killer, mercenari, reclutatori, ricettatori, maestri del crimine, barboni, medici clandestini, ricattatori, scassinatori, rapinatori, imbroglioni di alto e di basso rango, falsari, femminielli. Scegliete quello che preferite, a Vicksburg bassa si vende di tutto. È un posto meraviglioso, e non scordatevi di farvi fare l’esame del sangue dopo esserci stati. È l’unico posto che io conosca dove una creatura sintetica, perfettamente identificabile per la struttura fisica (quattro braccia, niente gambe, occhi sulla nuca, quello che volete), possa entrare (o strisciare) in un bar, ordinare una birra e berla senza che qualcuno presti la minima attenzione a lei o ai suoi lati strani. In quanto a me, il fatto di essere artificiale non significava nulla; non in una comunità dove il novantacinque per cento degli abitanti non osava salire su una scala mobile per la città alta. Ero tentata di fermarmi lì. C’era qualcosa di molto caldo e amichevole in quei reietti, nessuno dei quali avrebbe mai puntato un indice accusatore. Non fosse stato per Boss da una parte e per Georges e il ricordo di luoghi che avevano un odore migliore dall’altra, avrei potuto restare a Vicksburg (bassa) e trovarmi un’occupazione consona ai miei talenti. «Ma ho promesse da mantenere, e miglia da percorrere prima di dormire.» Robert Frost, il maestro, sapeva bene perché una persona continua ad andare avanti quando preferirebbe fermarsi. Vestita da soldato disoccupato in cerca dell’ingaggio più favorevole, frequentai la città del fiume a caccia di un contrabbandiere pronto a prendere un carico umano. Dall’Impero non arrivavano notizie e non c’erano barche che scendessero il fiume, per cui ben pochi contrabbandieri erano disposti a rischiare di risalirlo. Così sedetti nei bar della città del fiume, a bere birra e a far circolare la notizia che ero pronta a pagare una bella somma per un biglietto di andata. Considerai la possibilità di un’inserzione. Seguivo da un po’ i piccoli annunci, che erano notevolmente più franchi di quelli letti in California; sembrava che lì tutto fosse tollerato, purché si limitasse alla città bassa. Odiate la vostra famiglia? Siete frustrati, legati, annoiati? Vostro marito/moglie è uno spreco di spazio? FAREMO DI VOI UN NUOVO UOMO (DONNA)!!! Plasmazione-Riorientamento-Ricollocazione Transessualizzazione-Lavoretti discreti Consultate Doc Frank Frankenstein Softly Sam’s Bar Grill Era la prima volta che vedevo reclamizzato in pubblico l’omicidio a pagamento. Oppure avevo frainteso? Avete un problema? Nulla è illegale. Non è quello che fate; è come lo fate. Abbiamo i più abili avvocati dello stato della Stella Solitaria. AZZECCAGARBUGLI, Inc. (Tariffe speciali per scapoli) Chiamate Lev 10101 Per capire meglio questo annuncio era utile sapere che il codice di chiamata Lev veniva assegnato solo a utenti privilegiati. Artisti Ltd. Documenti di ogni tipo. Arnesi negoziabili, denaro di tutte le nazioni, diplomi, certificati di nascita, carte d’identità, passaporti, fotografie, licenze commerciali, certificati di matrimonio, carte di credito, ologrammi, nastri audio/video, mandati ufficiali, amnistie, testamenti, sigilli, impronte digitali. Ogni lavoro è garantito per iscritto dalla Lloyd’s Associates-Lev 10111 Ovviamente tutti questi servizi erano disponibili in qualunque grande città, ma era raro che venissero pubblicizzati. In quanto alla garanzia, semplicemente non ci credevo. Decisi di non mettere nessun annuncio perché dubitavo che una prassi tanto pubblica potesse in qualche misura aiutarmi in una faccenda essenzialmente clandestina; continuai ad affidarmi a fornitori navali e baristi e tenutarie di bordelli. Ma continuai anche a seguire la piccola pubblicità, nella speranza di trovare qualcosa di utile; e incontrai qualcosa che probabilmente era inutile, ma senz’altro interessante. Richiamai l’annuncio e lo sottoposi all’attenzione di Georges. W.K. - Prepara il testamento. Hai solo dieci giorni di vita. Acb — Che ne pensi, Georges? — Il primo che abbiamo visto lasciava a W.K. una sola settimana. È passata più di una settimana e adesso ha dieci giorni. Se continua così. W.K. morirà di vecchiaia. — Non credi al messaggio. — No, amore mio. Non ci credo. È un codice. — Che tipo di codice? — Il più semplice, impossibile da decifrare. Il primo annuncio ha detto alla persona o alle persone interessate di eseguire il numero sette o di aspettarsi il numero sette, o comunque ha detto qualcosa su qualcosa indicato dal numero sette. Questo ripete il concetto riferendosi al numero dieci del codice. Però è impossibile dedurre il significato dei numeri tramite l’analisi statistica perché il codice può essere cambiato molto prima che si giunga a un universo statistico significativo. È un codice idiota, Friday, e un codice idiota non si può mai decifrare, se chi lo usa ha il buonsenso di non attingere al pozzo troppo spesso. — Georges, sembra che tu ti sia occupato di codici militari e/o di lavoro di cifraggio. — L’ho fatto, ma non è lì che ho imparato queste cose. La più difficile analisi di codici mai tentata, un’analisi che continua ancora oggi e non sarà mai completa, è l’interpretazione dei geni viventi. Un altro codice idiota… ma ripetuto così tanti milioni di volte che col tempo assegneremo un significato anche alle sillabe che ne sono prive. Scusa se mi sono messo a parlare di lavoro a tavola. — Un corno, ho cominciato io. Non c’è modo di ipotizzare cosa significhi Acb? — Nessuno. Quella sera gli assassini colpirono per la seconda volta, in perfetto orario. Non dico che le due cose fossero correlate. Colpirono dieci giorni dopo il primo attacco, quasi alla stessa ora. Il che non ci disse nulla sull’identità del gruppo responsabile, perché corrispondeva sia alle previsioni del cosiddetto Consiglio per la Sopravvivenza che a quelle degli Stimolatori loro rivali, mentre gli Angeli del Signore non avevano offerto predizioni su una seconda offensiva. Esistevano differenze fra la prima ondata di terrore e la seconda, differenze che forse mi (ci) dicevano qualcosa. Georges e io ne discutemmo man mano che arrivavano le notizie. a) Nessuna notizia dall’Impero di Chicago. Qui nessun cambiamento, perché dall’Impero non era più filtrato nulla dopo i rapporti iniziali sul massacro dei democratici. Era trascorsa un’intera settimana nel silenzio più totale, cosa che mi rendeva sempre più ansiosa. b) Nessuna notizia dalla Confederazione Californiana circa un secondo attacco; solo informazioni di routine. N.B.: poche ore dopo la prima segnalazione di una seconda ondata di omicidi in altre zone, dalla Confederazione Californiana arrivò una notizia «di routine». Il Capo «Warhoop» Tumbril, consigliato dai suoi medici, aveva nominato un comitato reggente di tre persone, con poteri plenipotenziari. Avrebbero governato la nazione mentre lui si sottoponeva a cure mediche rimandate da tempo. Allo scopo si era trasferito nel suo rifugio, l’Eagle’s Nest, nei pressi di Tahoe. I bollettini sarebbero stati emessi da San José, non da Tahoe. c) Georges e io convenimmo sul significato più probabile, quasi certo, della cosa. Le cure mediche che necessitavano a quel pallone gonfiato erano l’imbalsamazione, e il suo «comitato reggente», impegnato a definire la lotta per il potere, avrebbe dato al pubblico solo notizie fasulle. d) Questa seconda volta non giunsero rapporti dal di fuori della Terra. e) Canton e la Manciuria non segnalarono attacchi. Correzione: a Vicksburg, Texas, non giunsero segnalazioni in tal senso. f) Da quanto mi risultava dai controlli su un mio elenco, i terroristi avevano colpito tutte le altre nazioni. Ma la mia teoria aveva qualche buco. Delle circa quattrocento «nazioni» dell’Onu, alcune fanno notizia solo quando c’è una eclissi totale di sole. Non so cosa sia successo nel Galles o nelle Isole del Canale o in Swaziland o in Nepal o nell’Isola di Principe Edward, e non vedo perché la cosa dovrebbe interessare a qualcuno (a parte gli abitanti di questi posti sperduti nel nulla). Almeno trecento dei cosiddetti stati sovrani che hanno diritto di voto all’Onu, sono nullità, e fanno parte dell’Organizzazione solo per papparsi cibarie e rifornimenti vari gratis; sono importanti per se stessi, senza dubbio, ma del tutto insignificanti a livello geopolitico. Ma i terroristi colpirono in tutte le nazioni maggiori, a parte le eccezioni riportate più sopra, e i loro attacchi vennero regolarmente segnalati, tranne in caso di pesanti censure. g) La maggior parte degli attacchi fallì. Fu questa la differenza più macroscopica tra la prima ondata e la seconda. Dieci giorni prima, la maggioranza degli assassini aveva centrato i bersagli e si era dileguata. Adesso la situazione si era capovolta: la maggioranza dei bersagli era sopravvissuta, la maggioranza degli assassini era morta. Qualcuno era stato catturato, pochissimi erano sfuggiti. Quest’ultimo aspetto della seconda ondata di omicidi pose fine a un’idea che mi tormentava: non era Boss l’organizzazione di quegli sconvolgimenti. Perché lo dico? Perché la seconda ondata fu un disastro per chi ne reggeva le fila. Gli agenti operativi, anche i semplici soldati, costano; nessuna organizzazione li spreca. Un assassino ben addestrato costa per lo meno dieci volte un normale soldato, e non è previsto che si faccia ammazzare; santo cielo, no! È previsto che uccida e fugga, libero come l’aria. Ma chiunque fosse ad avere messo in piedi quello show, aveva fatto bancarotta in una sola notte. Indegno di un professionista. Quindi non si trattava di Boss. Però ancora non riuscivo a capire chi fosse dietro quella gimcana idiota perché non capivo chi ne traesse vantaggio. La mia idea precedente, e cioè che fosse una delle multinazionali a reggere il gioco, non mi sembrava più troppo esatta: impossibile concepire che una grande multinazionale (la Interworld, per esempio) non assumesse i migliori professionisti. Ma era ancora più difficile immaginare che fosse una nazione territoriale ad aver avviato quel grottesco tentativo di conquista del mondo. In quanto ai gruppi di fanatici, gente come gli Angeli del Signore o gli Stimolatori, era un lavoro troppo grosso per loro. Indubbiamente, però, l’intera faccenda aveva un sapore di fanatismo: niente razionalità, niente pragmatismo. Non sta scritto fra le stelle che io debba capire sempre quello che succede: un’ovvia verità che spesso trovo maledettamente irritante. Il mattino dopo quel secondo attacco, Vicksburg bassa fremeva d’eccitazione. Ero appena entrata in un saloon per conferire col barista capo, quando mi raggiunse una staffetta. — Buone notizie — mi disse il ragazzino, in un sussurro da galera. — La Predatori Rachel sta arruolando. Rachel mi ha detto di informare in particolare te. — Baggianate sacrosante — ribattei, cortese. — Rachel non mi conosce e io non conosco lei. — Parola di scout! — Tu non sei mai stato scout e non sai nemmeno cosa sia una parola. — Senti, capo — insistette lui — oggi non ho ancora mangiato un boccone. Tu vieni con me. Non sei mica costretta a firmare. È dall’altra parte della strada. Era scheletrico, ma probabilmente solo perché era appena arrivato alle soglie dell’adolescenza, alla fase di crescita improvvisa; la città bassa non è un posto dove si muoia di fame. Però il barista scelse proprio quel momento per abbaiare: — Dacci un taglio, Bassotto! Piantala di disturbare i clienti. Vuoi un pollice rotto? — Tutto okay, Fred — intervenni io. — Mi rifaccio viva più tardi. — Gettai un dollaro sul banco e non chiesi il resto. — Andiamo, Bassotto. L’ufficio di reclutamento di Rachel si rivelò una massa di fango più giù sulla strada, e altre due staffette cercarono di strapparmi a Bassotto prima che ci arrivassimo. Niente da fare; il mio unico obiettivo era far avere a quel povero ragazzo il suo compenso. Il sergente reclutatore, una donna, mi ricordò la tizia che vendeva profumi e affini nella toilette del palazzo di San José. Mi guardò e disse: — Niente puttane da campo, tette di zucchero. Ma se ti fai rivedere in giro ti offro da bere. — Paga la tua staffetta — dissi io. — Pagarlo per cosa? — rispose quella. — Leonard, te l’avevo detto. Niente perditempo, ti avevo detto. Adesso torna fuori e alza il culo. Tesi una mano e le afferrai il polso sinistro. Liscio come l’olio, un coltello apparve nella sua mano destra. Riaggiustai le cose: le presi il coltello e lo piantai nella scrivania di fronte a lei, e contemporaneamente provvidi a rendere molto più dolorosa la stretta alla mano sinistra. — Riesci a pagarlo con una mano sola? — chiesi. — O devo romperti il dito? — Vacci piano — rispose lei, senza fare resistenza. — Piglia, Leonard. — Aprì il cassetto, tirò fuori una moneta texana da due cent. Il ragazzo arraffò i soldi e scomparve. Allentai la pressione sul dito. — Non gli dai altro? Oggi che tutti i reclutatori stanno battendo la piazza? — Avrà la vera commissione quando firmerai — rispose lei. — Perché nemmeno io vengo pagata se non consegno un corpo caldo. E mi buttano a mare se non vale una cicca. Adesso ti spiace lasciarmi andare il dito? Mi serve per compilare le tue carte. Mollai il dito. All’improvviso, il coltello fu di nuovo nella sua mano, diretto verso di me. Questa volta spezzai la lama prima di restituirglielo. — Non rifarlo — le dissi. — Per favore. E dovresti usare un acciaio migliore. Quello non era Solingen. — Dedurrò il costo della lama dal tuo premio di arruolamento, dolcezza — rispose lei, imperturbabile. — C’è un raggio puntato su di te da che hai varcato la porta. Devo premere il grilletto? O la piantiamo coi giochini? Non le credetti, ma le sue intenzioni mi stavano bene. — Basta coi giochini, serge’. Cosa mi proponi? La tua staffetta mi ha detto un accidenti di niente. — Caffè e gallette e tariffe sindacali. Premio di arruolamento sindacale. Novanta giorni, con un’opzione per la ditta di raffermarti per altri novanta. Diritti di bottino fifty fifty, metà te e metà la ditta. — Gli altri reclutatori offrono le tariffe sindacali più il cinquanta per cento. — (Un colpo alla cieca; l’atmosfera era molto tesa.) Lei scrollò le spalle. — Se è vero, ci adegueremo. Che armi conosci? Non arruoliamo pivellini. Non questa volta. — Posso insegnarti a usare tutte le armi che pensi di conoscere. Dove si va? Chi è il primo? — Mmm, un tipo duro. Per caso stai cercando di arruolarti come sergente istruttore? Non ci casco. Chiesi: — Dove si va? Risaliamo il fiume? — Non hai ancora firmato e mi chiedi già informazioni classificate. — Sono pronta a pagare. — Tirai fuori cinquanta dollari della Stella Solitaria, in pezzi da dieci, e glieli misi davanti. — Dove si va, serge’? Ti comprerò un buon coltello al posto di quell’acciaio da due soldi che ho dovuto rompere. — Sei una Pa. — Piantiamola con gli indovinelli. Voglio solo sapere se risaliremo o no il fiume. Fino a Saint Louis, per esempio. — Hai intenzione di firmare come sergente istruttore? — Cosa? Al diavolo, no! Come ufficiale comandante. — Non avrei dovuto dirlo; o per lo meno, non così presto. Nell’agenzia di Boss i ranghi tendono a essere vaghi, ma io ero senz’altro un ufficiale superiore, visto che facevo rapporto solo a (e ricevevo ordini solo da) Boss; il che era confermato dal fatto che per tutti, a parte Boss, ero la signorina Friday, a meno che e finché io non instaurassi un clima meno formale. Nemmeno il dottor Krasny mi si era rivolto en tutoyant finché non glielo avevo chiesto. Ma non avevo mai riflettuto troppo sul mio vero grado perché, pur non avendo alcun superiore a parte Boss, non avevo neanche qualcuno che lavorasse sotto di me. Su un’organigramma formale (non ne avevo mai visto uno dell’agenzia di Boss) sarei stata una di quei rettangolini che partono in orizzontale dalla base per arrivare fino al comandante in capo; cioè uno specialista anziano, se vi piace il burocratese. — Arcicorbezzoli fritti! Se vuoi portare avanti la richiesta, lo farai col colonnello Rachel, non con me. La aspetto verso le tredici. — Quasi soprappensiero, tese una mano per raccogliere i soldi. Invece li presi io. Li sistemai in bell’ordine e li rimisi giù davanti a lei, ma più vicino a me. — Allora chiacchieriamo un po’ prima che arrivi. Oggi in città stanno reclutando tutti quanti. Io voglio un buon motivo per arruolarmi con una compagnia piuttosto che con un’altra. Si presume di risalire il fiume o no? E fino a che punto? Combatteremo contro veri professionisti? O contro indigeni buzzurri? O magari con pagliacci di città? Una battaglia come si deve? O un’incursione alla mordi e fuggi? O tutte e due? Chiacchieriamo, serge’. Lei non rispose, non si mosse. Non staccò gli occhi dal denaro. Dopo un po’ tirai fuori un altro biglietto da dieci, lo ammucchiai sui cinquanta dollari, e aspettai. Il sergente dilatò le narici, ma non prese il grano. Dopo diversi momenti aggiunsi il settimo pezzo da dieci. Lei disse, roca: — O metti via quella roba o me la dai. Potrebbe entrare qualcuno. Presi tutto e glielo passai. Lei disse: — Grazie sorella — e fece svanire il malloppo. — Penso che risaliremo il fiume come minimo fino a Saint Louis. — Contro chi combattiamo? — Be’… Tu prova a ripetere quello che dirò, e io non solo negherò. Ti strapperò il cuore e lo darò in pasto ai gatti marini. Può darsi che non si combatta. Probabilmente ci sarà da menare le mani, ma non in una vera battaglia. Noi, tutti noi, faremo da guardie del corpo al nuovo Presidente. Il nuovissimo Presidente, per meglio dire. È nuovo di zecca. (Centro secco!) — Interessante. E perché anche le altre compagnie della città stanno reclutando? Il nuovo Presidente assume tutti? Come guardie del palazzo? — Tesoro, vorrei saperlo. Vorrei proprio saperlo. — Forse è meglio che cerchi di scoprirlo. Quanto tempo ho? Quando salpiamo? — Corressi subito in: — Oppure non salpiamo? Il colonnello Rachel ha per caso dei Vma a disposizione? — Porca miseria, quante informazioni classificate ti aspetti per settanta schifosi dollari della Stella? Ci pensai. Spendere non mi preoccupava, ma dovevo essere certa della merce. Se c’erano truppe a risalire il fiume, i contrabbandieri non si sarebbero mossi, almeno per quella settimana. Quindi dovevo adottare i mezzi disponibili. Ma non come ufficiale! Avevo parlato troppo. Tirai fuori altri due biglietti da dieci, ci giocherellai. — Serge’, risalirai il fiume anche tu? Lei scrutò le banconote. Ne lasciai cadere una di fronte al sergente. Svanì. — Non me lo perderei mai, tesoruccio. Appena avrò chiuso l’ufficio, mi metterò al comando di un plotone. La seconda banconota cadde sul banco, raggiunse la sorella. Io dissi: — Serge’, se aspetto a parlare col tuo colonnello, se mi arruola, sarà come ufficiale addetto al personale, oppure alla logistica o ai rifornimenti, o qualche altro incarico mostruoso del genere. I soldi non mi servono e non voglio le preoccupazioni. Io voglio una vacanza. Ti sta bene un soldato semplice addestrato a dovere? Un soldato che potresti promuovere caporale o addirittura sergente quando avrai scremato le tue reclute e scoperto quanti buchi devi riempire? Lei fece la faccia scura. — Quello che mi ci vuole. Una milionaria nel mio plotone! Provai simpatia. Nessun sergente vuole avere ai suoi ordini un tizio pieno di soldi. — Non farò la milionaria. Voglio solo essere una della truppa. Se non ti fidi, sbattimi in un altro plotone. Lei sospirò. — Dovrei farmi dare una guardata alla testa. No, ti metterò dove potrò tenerti d’occhio. — Da un cassetto prese un modulo con l’intestazione ARRUOLAMENTO PROVVISORIO. — Leggi. Firma. Poi ti farò giurare. Domande? Diedi un’occhiata. Per la maggior parte erano le solite sciocchezze sulla dotazione personale e sui bottini e sull’assistenza medica e sullo stipendio sindacale e sul premio d’arruolamento; ma c’era anche una clausola che rimandava il pagamento del premio al decimo giorno dopo l’arruolamento. Comprensibile. Per me era una garanzia che quelli avevano davvero intenzione di mettersi subito sul piede di guerra, cioè di risalire il fiume. L’incubo che turba i sonni di chiunque arruoli mercenari sono le persone che arraffano il premio e tagliano la corda. Quel giorno, con tutte le agenzie di reclutamento in attività, un veterano avrebbe potuto firmare cinque o sei contratti, raccogliere altrettanti premi di arruolamento, e dileguarsi in qualche stato delle banane; a meno che non ci fosse una clausola a fermarlo. L’impegno veniva preso personalmente col colonnello Rachel Danvers, o con un erede legittimo in caso di sua morte o incapacità ad agire, e impegnava il firmatario a eseguire i suoi ordini o gli ordini di qualunque ufficiale superiore, fosse la carica legittimata o meno dalla scala gerarchica. Accettai di combattere da soldato leale e di non chiedere grazia al nemico, in base alle leggi internazionali e agli usi bellici. La formulazione del contratto era tanto vaga che sarebbe occorsa una squadra di avvocati di Philadelphia per definire le zone grigie… Il che non aveva la minima importanza, perché una divergenza d’opinioni su questioni serie avrebbe procurato, al firmatario, una raffica alla schiena. Il periodo d’arruolamento, come aveva detto il sergente, era di novanta giorni, con un’opzione per il colonnello di estenderlo di altri novanta, dietro pagamento di un secondo premio. Non erano previste ulteriori proroghe, e questo mi diede da pensare. Com’era possibile che il contratto per le guardie del corpo di un uomo politico durasse sei mesi e si fermasse poi di colpo? O il mio sergente stava mentendo, oppure qualcuno aveva mentito a lei, e lei non aveva cervello a sufficienza per vedere l’illogicità. Inutile insistere; stringere l’interrogatorio non aveva senso. Presi una penna. — Vado subito dall’ufficiale medico? — Scherzi? — Ovvio. — Firmai, poi dissi: — Lo giuro — quando lei mi lesse, in fretta, un giuramento che più o meno seguiva il contratto. Il sergente scrutò la mia firma. — Jones, per cosa sta questa F? — Friday. — Un nome idiota. In servizio sarai Jones. Fuori servizio, Jonesie. — Come vuoi tu, sergente. Adesso sono in servizio o no? — Sarai fuori servizio tra un attimo. Prima gli ordini. All’imboccatura di Shrimp Alley c’è un palazzo. L’insegna dice WOO FONG AND LEVY BROTHERS, INK. Trovati lì alle quattordici, pronta a partire. Usa la porta sul retro. Da adesso alle quattordici, sei libera di sistemare le tue questioni personali. Sei autorizzata a raccontare a chiunque dell’arruolamento, ma ti è proibito, pena severe misure disciplinari, fare illazioni circa la natura dell’azione militare che stai per intraprendere. — Recitò quest’ultima clausola in fretta, come un disco accelerato. — Ti servono soldi per il pranzo? No, sono certa di no. Tutto qui, Jonesie. Lieta di averti a bordo. Sarà un viaggetto divertente. — Mi fece cenno di avvicinarmi. Mi accostai. Lei mi passò un braccio attorno ai fianchi, sorrise. Io scrollai mentalmente le spalle: non era il momento di far arrabbiare il mio comandante di plotone. Risposi al sorriso, piegai la testa all’indietro e la baciai. Niente male. Aveva l’alito dolce. 18 La Skip to M’Lou era un’imbarcazione degna di Mark Twain, molto più carina di quanto mi aspettassi: tre ponti passeggeri, quattro Shipstone, due per ciascun paio di eliche. Però era carica fino alle frisate, e a me pareva che bastasse una raffica di vento per rovesciarla. Comunque, non eravamo l’unica nave che trasportasse truppe: la Myrtle T. Hanshaw ci precedeva di poche lunghezze, risalendo il fiume alla velocità presunta di venti nodi. Io pensavo a eventuali sporgenze non previste dal fondo del fiume e speravo che il loro sistema radar/sonar fosse all’altezza della situazione. Gli Eroi di Alamo erano sulla Myrtle, assieme al colonnello Rachel che comandava le due squadre; e quella fu la conferma definitiva dei miei sospetti. Una brigata gigante non serve per la guardia a palazzo. Il colonnello Rachel si aspettava battaglia; forse saremmo sbarcati sotto il fuoco nemico. Non ci erano state date anni, e le reclute erano ancora in borghese. Questo sembrava indicare che il nostro colonnello non prevedeva azione immediata, e coincideva con la previsione del sergente Gumm che avremmo risalito il fiume almeno fino a Saint Louis; e ovviamente tutto ciò che aveva detto sul fatto di diventare guardie del corpo del nuovo Presidente implicava che saremmo arrivati alla capitale… … Se davvero il nuovo Presidente era stato insediato… Se Mary Gumm parlava con cognizione di causa… Se qualcuno non avesse invertito il corso del fiume mentre io non guardavo. Troppi «se», Friday e una quantità troppo scarsa di dati sicuri. L’unica cosa che davvero sapessi era che, in quel momento, il mio vascello in teoria stava entrando nell’Impero; in realtà non sapevo nemmeno da che parte del confine ci trovassimo, e non sapevo come capirlo. Ma non me ne importava molto perché nei giorni di lì a venire, appena ci fossimo trovati nei paraggi del quartier generale di Boss, io avrei rassegnato le mie informali dimissioni; e prima della battaglia, se solo avessi potuto decidere io. Avevo avuto il tempo di soppesare la truppa, ed ero fermamente convinta che non potesse essere pronta al combattimento prima di sei settimane di duro addestramento, con sergenti istruttori duri e sanguinari. Troppe reclute e troppo poche firme. In teoria, i soldati dovevano essere tutti veterani; ma ero certa che in alcuni casi si trattasse di contadine fuggite da casa, e che qualcuno avesse solo una quindicina d’anni. Grandi per la loro età, magari, e «chi è grande abbastanza è vecchio abbastanza», come dice il vecchio adagio; ma non basta una massa di sessanta chili per fare un soldato. Portare in azione truppe simili sarebbe stato un suicidio. Ma io non me ne preoccupavo. Avevo la pancia piena di fagioli ed ero seduta sulla coperta poppiera con la schiena appoggiata a un rotolo di cordame; mi godevo il tramonto e digerivo il mio primo pasto da soldato (se il termine è esatto), meditando allegramente sul fatto che più o meno in quell’istante la Skip to M’Lou stava entrando, o era già entrata, nell’Impero di Chicago. Una voce alle mie spalle disse: — Ci nascondiamo, truppa? Riconobbi la voce e girai la testa: — Sergente, come puoi dire una cosa del genere? — Calma. Mi sono semplicemente chiesta: Dove mi ficcherei se volessi battere la fiacca? E ti ho trovata qui. Lascia perdere, Jonesie. Hai già scelto l’alloggio? Non lo avevo ancora fatto perché esistevano diverse possibilità, tutte schifose. La maggioranza della truppa era alloggiata nelle cabine passeggeri: quattro soldati nelle cabine doppie, tre nelle singole. Ma il nostro plotone, assieme a un altro, doveva dormire nel salone da pranzo. Non vedevo alcun vantaggio nell’essere al tavolo del capitano, così non mi ero buttata nella mischia. Il sergente Gumm annuì alla mia risposta. — Okay. Quando avrai la coperta, non usarla per contrassegnare il tuo posto letto. Te la ruberebbero. A babordo di poppa, di fianco alla dispensa, c’è la cabina del cambusiere. È la mia. È una singola, ma con una cuccetta grande. Butta la tua coperta lì. Starai molto più comoda che dormire sul ponte. — Molto gentile, sergente! — (In che modo ne esco? Oppure dovrò rilassarmi e arrendermi all’inevitabile?) — Chiamami serge’. E quando siamo soli, mi chiamo Mary. Come hai detto che è il tuo nome? — Friday. — Friday. Molto carino a pensarci bene. Okay, Friday, ti aspetto al silenzio. — Guardammo svanire sotto l’orizzonte a poppa l’ultima fetta rossiccia di sole. La Skip si era diretta a est, in uno degli interminabili meandri del fiume. — Sembra che debba sfrigolare e sputare vapore. — Serge’, hai l’anima del poeta. — Ho pensato spesso che potrei. Scrivere poesie, intendo. Ti hanno informata del blackout? — Niente luci all’esterno, e non si fuma. Niente luci all’interno, a parte i locali completamente schermati. I trasgressori saranno fucilati all’alba. La cosa non mi interessa molto, serge’. Non fumo. — Correzione. I trasgressori non saranno fucilati. Pregheranno Dio di essere stati fucilati. Non fumi per niente, tesoro? Nemmeno uno spinello amichevole con un’amica? (Arrenditi Friday!) — Quello non è fumare. È stare con un’amica. — La vedo così anch’io. Di solito non vado in giro con la testa impasticcata. Ma uno spinello ogni tanto con un’amica, se tutte e due ne hanno voglia è dolcissimo. E lo sei anche tu. — Scivolò sul ponte al mio fianco, mi circondò con un braccio. — Serge’! Mary. No, per favore. Non è ancora buio del tutto. Ci vedrà qualcuno. — Chi se ne frega? — Io. Mi innervosisce. Rovina l’atmosfera. — In questo ambiente ti passerà. Sei vergine, tesoro? Voglio dire con le ragazze. — Uh… Non farmi i quiz, Mary. E lasciami. Mi spiace, ma mi rende nervosa. Farlo qui, intendo. Insomma, da dietro quella cabina potrebbe spuntar chiunque. Lei mi carezzò un attimo, poi cominciò ad alzarsi. — Carino, che tu sia così timida. Va bene, ho dell’ottimo Omaha Black che tenevo da parte per un’occasione… Il cielo brillò di una luce avvampante; seguì un tremendo kaboom!, e dove prima c’era la Myrtle il cielo si riempì di detriti. — Gesù Cristo! — Mary, sai nuotare? — Eh? No. — Buttati in acqua con me. Ti terrò io a galla. — Mi tuffai dal ponte nell’arco più ampio che mi fu possibile, feci una dozzina di bracciate robuste per scostarmi ancora di più dalla nave, mi girai sulla schiena. La testa di Mary Gumm si stagliava contro il cielo. Fu l’ultima volta che la vidi, perché poi la Skip to M’Lou saltò in aria. In quella parte del Mississippi ci sono scogliere ripide a est. Il limite occidentale del fiume è semplicemente un terreno un po’ più alto rispetto all’acqua, non chiaramente delimitato, a dieci o quindici chilometri dal punto in cui mi trovavo. Fra questi due estremi, la posizione del fiume può essere questione di opinioni; spesso di opinioni legali, perché il fiume cambia tragitto e si mangia diritti di proprietà. Il fiume scorre in ogni direzione, e può scorrere tanto verso nord quanto verso sud. Be’, all’incirca. Al tramonto scorreva in direzione ovest; la skip, che andava controcorrente, aveva il tramonto alle spalle. Ma mentre il sole scendeva la nave aveva virato sulla sinistra, perché il letto del fiume deviava a nord; avevo notato che il disco rosso-arancio si era spostato a babordo. È per questo che mi tuffai da quel lato. Una volta in acqua il mio primo obiettivo era allontanarmi; il secondo era vedere se Mary mi avesse seguita. Non mi aspettavo troppo che lo facesse perché (l’ho scoperto!) tanta gente, tanti umani, non riesce a decidere in fretta. La vidi ancora a bordo; mi fissava. Poi ci fu la seconda esplosione, e ormai era troppo tardi. Sentii una breve punta di dolore (in quel suo modo rude e un po’ disonesto, Mary era una brava donna), poi la cancellai dalla mente. Avevo altri problemi. Il mio primo problema era non farmi colpire dai detriti. Mi immersi e restai sotto. Posso trattenere il respiro e nuotare per quasi dieci minuti, anche se non mi piace farlo. Quella volta arrivai quasi a scoppiare prima di riemergere. Quanto bastava: era buio, ma mi sembrava di trovarmi alla larga da detriti galleggianti. Forse in acqua c’erano sopravvissuti, ma non udii niente e non mi sentivo nemmeno spinta a cercarli (a parte Mary, che era impossibile trovare). Non ero attrezzata per salvare gente, neanche me stessa. Mi guardai attorno, individuai quello che restava degli ultimi bagliori del tramonto, partii a nuoto in quella direzione. Dopo un po’ persi i bagliori, mi girai sulla schiena, scrutai il cielo. Nuvole sparse e niente luna. Rintracciai Arturo, poi le due Orse e la Polare, ed ebbi il nord. Corressi la rotta in modo da proseguire verso ovest. Restai sulla schiena perché, prendendola con calma, di schiena si può nuotare per tutta quanta l’eternità, più un paio di anni. Nessun problema di respirazione e se si comincia ad avvertire una punta di stanchezza, basta fermarsi e girare le dita finché ci si sente riposati. Io non avevo nessuna fretta. Volevo solo raggiungere l’Impero dal lato dell’Arkansas. Ma, come primo obiettivo prioritario, non volevo tornare indietro in Texas. Problema: navigare correttamente di notte, senza carte, su un fiume largo un paio di chilometri, quando il vostro obiettivo è raggiungere una riva occidentale che non vedete… senza perdere la bussola e tornare a sud. Impossibile? Col Mississippi che si contorce come un serpente con la spina dorsale rotta? Ma «impossibile» non è un termine da usare parlando del Mississippi. Esiste un punto in cui è possibile fare tre brevi deviazioni via terra per un totale di meno di novanta metri, scendere il fiume lungo due anse per un totale di una trentina di chilometri… e ritrovarsi a monte a più di cento chilometri dal luogo di partenza. Niente carte, una destinazione invisibile; sapevo solo di dover andare a ovest e non dover tornare a sud. Quindi fu quello che feci. Restai sulla schiena e continuai a tenere d’occhio le stelle per mantenere la rotta a ovest. Non avevo modo di capire di quanto la corrente mi spostasse a sud; a parte la certezza che, se e quando il fiume avesse deviato a est, il mio procedere in direzione ovest mi avrebbe portata sulla riva dell’Arkansas. E così fu. Un’ora dopo (due ore dopo?), un’infinità di acqua dopo, con Vega alta a est ma ancora lontana dalla posizione di meridiano, mi resi conto che la riva incombeva sopra di me a sinistra. Controllai le stelle, corressi la rotta e continuai a nuotare. Dopo un po’ sbattei la testa contro un ramo che sporgeva dall’acqua, lo afferrai alla cieca, mi tirai in piedi, poi mi feci strada fino a riva tra un mare di rami che spuntavano dal fondo. Risalire la riva non fu un problema: in quel punto il terreno era alto solo mezzo metro. L’unico impiccio era la fanghiglia densa e scivolosa. Ce la feci, dopo di che mi fermai per il punto della situazione. Ancora tenebre nere come l’inchiostro tutt’attorno, con le stelle per unica luce. Distinguevo il nero compatto dell’acqua dal nero fitto del cespuglio dietro di me solo per i vaghi riflessi delle stelle sull’acqua. Direzioni? La Polare era oscurata da una nube, ma l’Orsa Maggiore mi disse dove doveva trovarsi; e Spica che brillava a sud e Antares a sud-est mi diedero conferma. L’orientamento ricevuto dalle stelle mi disse che l’ovest passava diritto in quel cespuglio fittissimo. L’unica alternativa era tornare in acqua, seguire il fiume… e ritrovarmi l’indomani a Vicksburg. No, grazie. Mi infilai nella macchia. Sorvolerò sulle molte ore seguenti. Forse non sarà stata la notte più lunga della mia vita, ma di certo fu la più noiosa. Sono sicura che sulla Terra debbano esistere giungle più fitte e pericolose del continuum di arbusti che si trovano sulla riva del Mississippi inferiore. Però non desidero affrontarle, soprattutto senza un machete (senza nemmeno un coltello da scout!). Passai la maggior parte del tempo a indietreggiare, dopo aver deciso «No, non di qui. Come posso aggirarlo? No, non sul lato sud! Come posso aggirarlo a nord?» Il mio percorso fu contorto quanto quello del fiume, e i miei progressi furono forse di un chilometro l’ora; o magari esagero, potrei anche aver fatto meno. Sprecai il grosso del tempo a riorientarmi, una necessità ogni pochi metri. Mosche, zanzare, moscerini, cose che strisciavano e che non vidi mai, per due volte serpi sotto i piedi che forse erano bisce d’acqua (ma non mi fermai a scoprirlo), una serie infinita di uccelli disturbati con una dozzina di strilli diversi; uccelli che spesso mi sbattevano quasi direttamente in faccia, con loro e mio raccapriccio. Il terreno era generalmente fangoso e conteneva sempre qualcosa su cui inciampare, alto fino alle caviglie, fino ai fianchi, o tutt’e due. Tre volte (o quattro volte?) raggiunsi il fiume aperto. Ogni volta mantenni la rotta a ovest, e quando l’acqua era abbastanza profonda, nuotai. Per la maggior parte piccoli corsi stagnanti, ma uno aveva la corrente, e poteva essere un ramo minore del Mississippi. Una volta, qualcosa di grosso nuotò al mio fianco. Un pesce gatto gigante? Ma non dovrebbe starsene sul fondo? Un alligatore? Ma non dovrebbero esserci alligatori. Forse era il mostro di Loch Ness in trasferta; non lo vidi mai, lo sentii solo, e uscii dall’acqua levitando per pura e semplice paura. Circa ottocento anni dopo l’affondamento della Skip e della Myrtle giunse l’alba. A ovest, a un chilometro da me, c’era il terreno sopraelevato della riva dell’Arkansas. Io ero trionfante. Ero anche affamata, esausta, lurida, piena di morsi d’insetti, stracciata, e assetata in modo quasi insopportabile. Cinque ore più tardi, ospite del signor Asa Hunter, facevo la passeggiata sul suo carro agricolo Studebaker tirato da una splendida pariglia di muli. Ci stavamo avvicinando a una piccola città di nome Eudora. Non avevo ancora dormito, ma a parte il sonno avevo avuto tutte le altre cose migliori della vita: acqua, cibo, un bagno. La signora Hunter aveva chiocciato al mio indirizzo, mi aveva prestato una spazzola e offerto la colazione: uova fritte, pancetta casalinga spessa e succulenta, pane di grano, burro, sorgo, latte, caffè fatto in un pentolino e lasciato a depositare con gusci d’uovo; e per apprezzare in pieno la cucina della signora Hunter raccomando di nuotare tutta notte, alternando il nuoto all’avanzata strisciante sul terreno lercio della riva dell’Old Man River. Ambrosia! Mangiai col suo accappatoio, perché lei volle a tutti i costi lavarmi la tuta lacera. Al momento di partire, la tuta era asciutta e io avevo un aspetto quasi rispettabile. Non mi offrii di pagare gli Hunter. Esistono esseri umani che posseggono molto poco ma sono ricchi in dignità e rispetto di sé. La loro ospitalità non è in vendita, e nemmeno la loro generosità. Lentamente, sto imparando a riconoscere questo tratto negli umani che lo posseggono. Negli Hunter era inconfondibile. Traversammo Macon Bayou, poi la strada sfociò in un’altra un po’ più larga. Il signor Hunter fermò i muli, scese, si spostò dal mio lato. — Signorina, vi sarei molto grato se scendeste qui. Accettai la sua mano, mi lasciai aiutare. — Qualcosa non va, signor Hunter? Vi ho offeso? Lui rispose lentamente: — No, signorina. Per niente. — Esitò. — Ci avete detto che il fondo della vostra barca è stato forato da un ramo che sporgeva dall’acqua. — Sì? — I rami sporgenti sono un grosso rischio per chi pesca. — Una pausa. — Ieri sera al tramonto è successo qualcosa di brutto sul fiume. Due esplosioni, più o meno alla Kentucky Bend. Grosse. Le abbiamo viste e sentite da casa. Fece un’altra pausa. Io non dissi niente. La spiegazione della mia presenza e delle mie (deplorevoli) condizioni era stata debole, a dir poco. Ma l’unica altra spiegazione possibile sarebbe stata un disco volante. Il signor Hunter riprese: — La vecchia e io non abbiamo mai avuto da dire con la Polizia Imperiale. Non vorremmo cominciare adesso. Per cui, se non vi spiace fare a piedi un pezzo di questa strada a sinistra, arriverete a Eudora. E io girerò il carro e tornerò a casa mia. — Vedo. Signor Hunter, mi piacerebbe poter ripagare in qualche modo voi e la signora Hunter. — Potete farlo. — Sì? — (Avrebbe chiesto soldi? No!) — Un giorno incontrerete qualcuno che ha bisogno di una mano. Dategli una mano e pensate a noi. — Oh! Lo farò! Lo farò senz’altro! — Ma non prendetevi il fastidio di scriverci per raccontarlo. Chi riceve posta viene notato. Noi non moriamo dalla voglia di essere notati. — Vedo. Però io lo farò e penserò a voi, e non una sola volta, ma molte volte. — Meglio così. Il pane gettato sulle acque torna sempre indietro, signorina. La signora Hunter mi ha detto di dirvi che ha intenzione di pregare per voi. I miei occhi si riempirono di lacrime così in fretta che non ci vedevo più. — Oh! Ditele per favore che la ricorderò nelle mie preghiere. Vi ricorderò tutti e due. — (Non avevo mai pregato in vita mia. Ma lo avrei fatto, per gli Hunter.) — Grazie di cuore. Glielo dirò. Signorina, posso offrirvi una parola di consiglio senza essere frainteso? — Ho bisogno di consigli. — Non pensate di fermarvi a Eudora? — No. Devo andare a nord. — Così avete detto. Eudora è solo una stazione di polizia e qualche negozio. Lake Village è più lontano, però ci si ferma il Vma della Greyhound. Sono una ventina di chilometri di strada, tenendovi a destra. Se riuscite a coprire la distanza da adesso a mezzogiorno, arriverete in tempo per il bus. Però è un bel po’ di strada, e oggi fa un caldo del diavolo. — Posso farcela. Ce la farò. — Il Greyhound vi porterà a Pine Bluff, o addirittura a Little Rock. Uhm. Il bus costa denaro. — Signor Hunter, siete stato più che gentile. Ho con me la mia carta di credito. Posso pagare il bus. — Non ero uscita in forma smagliante dall’acqua e dal fango, ma le carte di credito, la carta d’identità, il passaporto e i soldi erano al sicuro nella cintura impermeabile che Janet mi aveva dato anni luce prima; si era salvato tutto. Un giorno o l’altro glielo avrei detto. — Bene. Ho pensato fosse meglio chiedere. Un’ultima cosa. Da queste parti, in genere la gente bada ai fatti propri. Se salite diritta sul Greyhound, i pochi impiccioni non avranno nessuna scusa per darvi fastidio. Meglio così, credo. Be’, arrivederci e buona fortuna. Lo salutai e partii. Avrei voluto dargli il bacio dell’addio, ma una sconosciuta non si prende libertà con un uomo come il signor Hunter. Presi il Vma di mezzogiorno e alle 12,52 ero a Little Rock. Una capsula espresso diretta a nord stava imbarcando quando raggiunsi la sotterranea. Ventun minuti più tardi ero a Saint Louis. Da una cabina della sotterranea feci il numero di contatto di Boss, per organizzare il trasferimento al quartier generale. Una voce rispose: — Il numero che avete usato non è in servizio. Restate in linea e un centralinista… — Interruppi la comunicazione e scappai. Restai nella città sotterranea diversi minuti, camminando a caso e fingendo di guardare le vetrine, ma in realtà allontanandomi sempre più dalla stazione. Trovai un terminale pubblico in un centro commerciale a una certa distanza e provai il codice d’emergenza. Quando la voce arrivò a: — Il numero che avete usato non è… — premetti il tasto per interrompere la linea, ma la voce non si fermò. Abbassai la testa, mi buttai in ginocchio, uscii dalla cabina e girai a destra; attirai l’attenzione su di me, una cosa che odio, ma forse evitai di essere fotografata tramite il terminale, una cosa che sarebbe stata un disastro. Sprecai minuti a confondermi nella folla. Quando fui ragionevolmente certa che nessuno mi seguisse, scesi di un livello, salii sulla metropolitana locale e mi spostai a Saint Louis Est. Avevo un ultimo codice d’emergenza, ma non intendevo usarlo senza i dovuti preparativi. Il nuovo quartier generale sotterraneo di Boss si trovava a una sessantina di minuti da ogni possibile punto, ma io non sapevo dove fosse. Voglio dire che quando lasciai l’infermeria per partire per il corso d’addestramento, il viaggio in Vma durò esattamente sessanta minuti. Quando tornai impiegai sessanta minuti. Quando partii in ferie e chiesi che mi accompagnassero alla stazione delle capsule, venni depositata a Kansas City in sessanta minuti esatti. E il passeggero di un Vma destinato a questi usi non ha alcun modo di guardare fuori. Stando a geometria, geografia, e a una conoscenza minima di ciò che può fare un Vma, il nuovo quartier generale di Boss doveva trovarsi da qualche parte più o meno nei pressi di Des Moines; ma in questo caso «più o meno» significava un raggio di almeno cento chilometri. Non feci ipotesi. Neanche sull’identità delle persone del nostro gruppo che conoscevano la posizione del quartier generale. Era un’informazione impartita «solo in caso di necessità», e cercare di indovinare in che modo Boss decidesse queste cose era uno spreco di tempo. A Saint Louis Est comperai un mantello col cappuccio, poi una maschera in lattice in un negozio di giochi e scherzi, scegliendone una non grottesca. Poi feci dolorosi sforzi per scegliere assolutamente a caso il terminale. Nutrivo il forte sospetto, ma non la certezza, che Boss avesse subito un altro attacco, questa volta fatale, e l’unico motivo per cui non mi ero ancora lasciata prendere dal panico era che sono addestrata ad arrendermi al panico solo al termine dell’emergenza. Mascherata e incappucciata, composi l’ultimo codice di cui disponevo. Stesso risultato, e di nuovo era impossibile spegnere il terminale. Girai la schiena all’apparecchio, mi tolsi la maschera e la lasciai cadere a terra, uscii dalla cabina al rallentatore, girai l’angolo, mi levai il mantello mentre camminavo, lo ripiegai, lo infilai in un cestino per i rifiuti, tornai a Saint Louis dove, con perfetta faccia di bronzo, usai la carta di credito della Banca Imperiale di Saint Louis per pagare la sotterranea per Kansas City. Un’ora prima, a Little Rock, me n’ero servita senza esitazioni, ma allora non sospettavo che a Boss fosse successo qualcosa; in effetti, cullavo la convinzione «religiosa» che nulla potesse succedere a Boss. (Religioso = fede assoluta senza prove concrete.) Adesso invece ero costretta ad agire partendo dal presupposto che a Boss fosse accaduto qualcosa, il che comprendeva l’ipotesi che la mia MasterCard di Saint Louis (basata sui soldi di Boss, non sui miei) potesse andare a farsi friggere da un momento all’altro. Potevo infilarla in una fessura e vederla bruciare dal meccanismo di distruzione, non appena la macchina avesse riconosciuto il numero. Quattrocento chilometri e quindici minuti dopo ero a Kansas City. Non lasciai mai la stazione. Telefonai dal banco delle informazioni per chiedere notizie sulla linea KC-Omaha-Sioux Falls-Fargo-Winnipeg e mi risposero che la linea funzionava fino alla località di confine di Pembina, non oltre. Cinquantasei minuti più tardi ero al confine col Canada Britannico, direttamente a sud di Winnipeg. Era ancora il primo pomeriggio. Dieci ore prima arrancavo sulla riva fangosa del Mississippi e mi chiedevo, stordita, se fossi nell’Impero o se invece non fossi già tornata in Texas. Adesso ero orribilmente ansiosa di uscire dall’Impero, più di quanto lo fossi stata di entrarci. Per il momento ero riuscita a distanziare di un balzo di pulce la Polizia Imperiale, ma ormai ero del tutto certa che volessero parlare con me. E io non volevo parlare con loro perché avevo sentito certi racconti sul loro modo di condurre le indagini. I ragazzi che mi avevano interrogata tempo addietro erano stati moderatamente duri… ma la Polizia Imperiale aveva la reputazione di bruciare il cervello alle sue vittime. 19 Quattordici ore più tardi mi ero spostata solo di venticinque chilometri a est del punto in cui avevo dovuto lasciare la sotterranea. Avevo trascorso un’ora in compere, quasi un’ora a mangiare, più di due ore per un serrato consulto con uno specialista, sei ore celestiali a dormire, e quasi quattro a trasferirmi con somma cautela a est, tenendomi parallela alla barriera di confine senza avvicinarmi troppo; e adesso era l’alba e io raggiungevo la barriera, la toccavo, e prendevo a seguirla, sotto le spoglie di un’annoiata addetta alle riparazioni. Pembina è solo un villaggio. Avevo dovuto tornare a Fargo per trovare uno specialista; un viaggetto veloce, con la capsula. Lo specialista che cercavo lavorava nello stesso ramo della «Artisti Ltd.» di Vicksburg, solo che la sua ditta non faceva pubblicità nell’Impero; occorsero tempo e caute bustarelle per trovarlo. Aveva l’ufficio in centro, dalle parti di Main Avenue e University Drive, però si nascondeva dietro la facciata di un’attività più convenzionale; non era facile scovarlo. Indossavo ancora la tuta in neocotone blu stinto che avevo addosso quando mi ero buttata dalla Skip to M’Lou, non perché ci fossi particolarmente affezionata, ma perché una tuta blu in tessuto ruvido è la miglior approssimazione possibile a un vero unisex internazionale. Va bene persino su Elle-Cinque o a Luna City, dove peraltro sono più diffusi i monokini. Aggiungete un foulard, e la casalinga in gamba la indosserà per fare la spesa; portate una ventiquattro ore, e siete un rispettabile uomo d’affari; accucciatevi per strada con un cappello sul marciapiede, ed è un’uniforme da barbone. Si sporca difficilmente, si lava facilmente, non fa pieghe, ha una durata praticamente eterna; quindi è l’ideale per il corriere che vuole mimetizzarsi nell’ambiente e non può sprecare tempo o bagagli per il guardaroba. A quella particolare tuta era stato aggiunto un berretto unto col distintivo della «mia» professione, una cintura logora dotata di utensili vecchi ma perfettamente funzionali, una bandoliera di pezzi di raccordo su una spalla, e il saldatore per installarli sull’altra. Tutto ciò che avevo era logoro, guanti compresi. Nella tasca sul fianco sinistro era infilato un vecchio portafoglio in pelle, con documenti da cui risultava che io ero Hannah Jensen di Moorhead. Un vecchio ritaglio di giornale diceva che ero stata majorette alle superiori; un tesserino della Croce Rossa riportava il mio gruppo sanguigno, 0 Rh positivo sub 2 (il mio vero gruppo), e spiegava che ero una donatrice benemerita; ma le date indicavano che da più di sei mesi mi ero dimenticata di donare sangue. Altri piccoli particolari conferivano ad Hannah un passato ben definito; aveva persino una carta Visa emessa dalla Savings and Loan Company di Moorhead, però su quella avevo fatto risparmiare a Boss più di mille corone: siccome non mi aspettavo di usarla, era priva della scritta magnetica invisibile senza la quale una carta di credito è solo un pezzo di plastica. Il cielo si era appena illuminato, e stando ai miei calcoli avevo un massimo di tre ore per superare la barriera di confine; niente di più, perché di lì a tre ore sarebbero entrati in attività i veri addetti alla manutenzione, e io ero estremamente ansiosa di non incontrarli. Prima di allora, Hannah Jensen doveva svanire… magari per riapparire nel tardo pomeriggio per un ultimo sforzo. Era un’operazione in stile o la va o la spacca; avevo esaurito le corone in contanti. Vero, avevo ancora la carta di credito emessa dall’Impero, ma avevo anche una paura sacrosanta dei segugi elettronici. I tre tentativi del giorno prima di chiamare Boss, tutti eseguiti con la stessa carta, avevano fatto scattare un subprogramma che avrebbe permesso di identificarmi? Subito dopo ero riuscita a usare la carta di credito per pagare la sotterranea, ma ero davvero sfuggita a tutte le trappole elettroniche? Non lo sapevo, e non volevo scoprirlo; volevo solo passare dall’altra parte di quella barriera. Continuai a passeggiare, soffocando la forte tentazione di uscire dal personaggio mettendomi a correre. Mi occorreva un punto dove poter forare la barriera senza essere vista, anche se su entrambi i lati, per un raggio di una cinquantina di metri, era stata fatta terra bruciata. Dovevo accettare il fatto; quella che volevo era una zona di terra bruciata circondata da alberi, cespugli, siepi divisorie come in Normandia. In Minnesota non ci sono le siepi divisorie della Normandia. Il Minnesota del nord è quasi privo di alberi; o almeno lo è nella parte di confine in cui mi trovavo. Stavo scrutando la barriera, e cercavo di dirmi che un pezzo di terreno aperto senza anima viva nei paraggi è buono quanto un’area schermata da alberi, quando apparve un Vma della polizia. Era a ovest rispetto a me e seguiva lentamente la barriera. Salutai con un cenno allegro e continuai a dirigermi a est. Invertirono la rotta, tornarono indietro, e si appostarono a una cinquantina di metri da me. Mi voltai e li raggiunsi. Arrivai all’auto mentre il capopattuglia scendeva, seguito dall’autista, e dalle loro uniformi vidi (inferno, dannazione e tenebre) che erano imperiali, non agenti della Polizia Provinciale del Minnesota. Il capopattuglia mi dice: — Cosa ci fai qui a quest’ora? Il tono era aggressivo; gli risposi sulla stessa lunghezza d’onda: — Stavo lavorando, prima che mi interrompeste. — Un accidenti. Tu non entri in servizio fino alle otto. Ribattei: — Ho una novità per te, grande capo. Quello era la settimana scorsa. Adesso ci sono due turni. Il primo monta appena può. Il cambio dei turni è a mezzogiorno; il secondo smonta quando non ne può più. — Nessuno ci ha avvertiti. — Vuoi che il sovrintendente ti scriva una lettera di persona? Dammi il numero del tuo distintivo e gli spiego tutto io. — Datti una calmata, ganza. Forse dovrei portarti dentro e controllarti per benino. — Fai pure. Una giornata di riposo per me… e intanto tu spiegherai perché non è stata fatta la manutenzione a questa parte di barriera. — Vai a farti friggere. — Si avviarono per tornare a bordo. — Uno di voi due maschiacci ha uno spino? — chiesi. L’autista disse: — Non ci facciamo in servizio, e non dovresti farti nemmeno tu. — Testa di cavolo — commentai, cortese. L’autista fece per ribattere, ma il capopattuglia abbassò il tettuccio apribile, e decollarono; proprio sopra la mia testa, costringendomi a buttarmi giù. Credo di non essergli piaciuta. Tornando alla barriera conclusi che Hannah Jensen non era una signora. Essere scortesi coi Verdi solo perché sono il massimo dello schifo umano è imperdonabile. Anche le vedove nere, i pidocchi e le iene hanno diritto di vivere, anche se non ho mai capito perché. Decisi che i miei piani non erano ben meditati. Boss avrebbe disapprovato. Attaccare la barriera alla luce del giorno era troppo appariscente. Meglio scegliere un punto, nascondersi fino al buio, e poi tornarci. Oppure dedicare la notte al piano numero due: controllare di persona la possibilità di passare sotto la barriera nel Roseau River. Non andavo pazza per il piano numero due. Le acque del Mississippi inferiore erano abbastanza tiepide, ma i fiumi lì a nord avrebbero congelato un cadavere. La sera di due giorni prima, avevo saggiato il Pembina. Brrr! Un’estrema risorsa, niente di più. Quindi scegli un pezzo di barriera, decidi esattamente in che modo lo bucherai, poi cerca degli alberi, avvolgiti in un letto di foglie calde, e aspetta il buio. Rivedi mentalmente ogni tua mossa, all’infinito, così potrai sforacchiare la barriera come pipì che scende nella neve. A quel punto superai un lieve pendio del terreno e mi trovai faccia a faccia con un altro addetto alla manutenzione, del tipo maschile. Se sei in dubbio, attacca. — Che diavolo ci fai qui, amico? — Seguo la barriera. La mia parte di barriera. Cosa ci fai tu, sorella? — Oh, Cristo! Non sono tua sorella. E tu hai sbagliato zona, oppure turno. — Notai innervosita, che l’addetto alla manutenzione in perfetta uniforme porta un walkie-talkie. Be’, io ero alle prime armi; stavo ancora imparando il mestiere. — Col cavolo — rispose lui. — Coi nuovi turni monto all’alba e mi danno il cambio a mezzogiorno. Magari devi darmelo tu, eh? Sì, probabile. Avrai letto male i turni di servizio. Sarà meglio che chiami. — Fai pure — dissi, avvicinandomi. Lui esitò. — D’altra parte, forse… — Io non esitai. Non uccido tutti coloro con cui ho una divergenza d’opinioni, e non vorrei che chi legge queste mie memorie pensi che io sia un’assassina incallita. Non gli feci troppo male, e durò solo un attimo; mi limitai a metterlo a dormire di colpo. Con un rotolo di nastro adesivo che avevo alla cintura gli legai le mani dietro la schiena, poi le caviglie. Avessi avuto un bel cerotto grosso così lo avrei imbavagliato, ma avevo solo del nastro a frizione meccanica largo due centimetri, ed ero molto più ansiosa di aprirmi un varco nella barriera che di impedirgli di strillare per chiedere aiuto a coyote e conigli. Un saldatore buono per riparare è anche buono per bucare, ma il mio era ancora meglio del solito: lo avevo comperato passando dalla porta di servizio del maggior ricettatore di Fargo. Era un laser in grado di tagliare l’acciaio, non la baracca ossiacetilenica che sembrava. Qualche istante dopo avevo un buco grande, a stento quanto bastava per Friday. Mi chinai per volatilizzarmi. — Ehi, portami con te! Esitai. Quello continuava a ripetere, insistentemente, che era ansioso come me di fuggire i maledetti Verdi. Slegami! Ciò che feci è una follia paragonabile solo a quella della moglie di Lot. Presi il coltello dalla cintura, gli tagliai il nastro alle mani e alle caviglie, mi infilai nel foro e cominciai a correre. Non mi fermai a vedere se anche lui si fosse ficcato o meno nel buco. Circa mezzo chilometro a nord c’era uno dei rari gruppi d’alberi. Mi lanciai in quella direzione stabilendo un nuovo record di velocità. La pesante cintura porta-attrezzi mi rallentava; la gettai senza decelerare. Un attimo dopo mi tolsi il berretto, e Hannah Jensen tornò nel limbo eterno. Saldatore, guanti e pezzi di raccordo per la barriera erano ancora nell’Impero. Tutto ciò che restava di lei era un portafoglio di cui mi sarei sbarazzata in un momento più calmo. Mi addentrai fra gli alberi, poi invertii la marcia e trovai un punto da cui osservare il percorso che avevo fatto, dolorosamente consapevole di essere seguita. Il mio ex prigioniero era a metà strada fra barriera e alberi… e due Vma stavano convergendo su di lui. Quello più vicino all’uomo recava la grande Foglia d’Acero del Canada Britannico. Non vedevo l’insegna dell’altro perché puntava direttamente su me, attraverso il confine internazionale. L’auto della polizia canadese atterrò. Il mio gentile ospite si arrese senza discussioni: ragionevole, visto che il Vma dell’Impero atterrò subito dopo, almeno duecento metri all’interno del Canada Britannico. E sì, era la Polizia Imperiale; forse lo stesso veicolo che aveva fermato me. Non sono un’esperta di legge internazionale, ma ho la certezza che siano scoppiate guerre per molto meno. Trattenni il respiro, misi al massimo l’udito, e ascoltai. Nemmeno fra quei poliziotti c’erano grandi giuristi internazionali; la discussione fu accesa, ma non coerente. Gli imperiali chiedevano la consegna del profugo in base ai privilegi concessi agli inseguitori, e un caporale canadese sosteneva (correttamente a mio giudizio) che l’inseguimento era lecito solo con criminali colti sul fatto, mentre in quel caso l’unico «crimine» consisteva nell’ingresso illegale nel Canada Britannico, atto che non ricadeva sotto la giurisdizione della Polizia Imperiale. — Adesso levate quel catorcio dal suolo del Canada Britannico! Il Verde emise in risposta un monosillabo che irritò il canadese. Il caporale richiuse il tettuccio e urlò dall’altoparlante: — Vi dichiaro in arresto per violazione dello spazio aereo e del suolo del Canada Britannico. Scendete e arrendetevi. Non cercate di decollare. L’auto dei Verdi decollò immediatamente e superò il confine internazionale, dopo di che se ne andò. Il che poteva essere esattamente ciò che era nelle intenzioni del canadese. Io restai molto immobile, perché adesso quelli avevano il tempo di concentrarsi su di me. Sono giunta alla conclusione certa che il mio compagno d’avventura mi abbia ripagata per il biglietto di fuga che gli avevo offerto. Nessuno venne a cercarmi. Lui di certo mi aveva vista svanire fra gli alberi, ma è improbabile che i canadesi mi avessero vista. Senz’altro il foro nella barriera aveva fatto scattare gli allarmi delle stazioni di polizia sui due lati del confine. Qualunque esperto d’elettronica poteva installare un apparecchio del genere, un apparecchio capace persino di individuare al millimetro il punto sabotato; di conseguenza, il mio piano prevedeva di fare tutto in fretta. Ma contare il numero di corpi caldi che passavano in un foro era tutto un altro problema elettronico; non che fosse impossibile, ma forse qualcuno aveva ritenuto che non fosse il caso di spendere troppo. In ogni caso, il mio compagno sconosciuto non mi tradì; nessuno venne a cercarmi. Dopo un po’, da un’auto canadese scese una squadra di addetti alle riparazioni. Li vidi raccogliere la cintura con gli attrezzi di cui mi ero liberata nei pressi della barriera. Dopo la loro partenza, arrivò un secondo gruppo sul lato dell’Impero; ispezionarono la riparazione e se ne andarono. Meditai un attimo sulle cinture porta-attrezzi. Ripensandoci non mi pareva di averne vista una sul mio leale prigioniero quando si era arreso. Conclusi che per infilarsi nel foro aveva dovuto liberarsi della cintura: il buco era quasi troppo stretto persino per Friday; per lui doveva essere stato microscopico. Ricostruzione: i canadesi hanno visto una cintura, dalla loro parte; i Verdi ne hanno vista un’altra, dalla loro parte. Nessuno dei due gruppi aveva motivo di presumere che dal buco fosse passato più di un fuggitivo; almeno finché il mio ex prigioniero stava zitto. Un gesto molto cortese da parte sua, direi. Certi maschi ce l’avrebbero avuta con me per il colpetto che avevo dovuto assestargli. Restai fra gli alberi fino al buio, tredici tediose ore. Non volevo essere vista da nessuno finché non avessi raggiunto Janet (e, con un po’ di fortuna, Ian); un immigrato illegale non va in cerca di pubblicità. Fu una giornata lunga, ma nella fase centrale del mio addestramento il guru del controllo mentale mi aveva insegnato a tenere testa a fame, sete e noia quando è necessario e a restare calma, sveglia e attenta. Mi incamminai a sera fonda. Conoscevo il terreno com’è possibile conoscerlo dalle carte geografiche, carte che avevo studiato con la massima cura un paio di settimane addietro in casa di Janet. Il problema che avevo di fronte non era né complesso né difficile: percorrere a piedi centodieci chilometri circa entro l’alba, senza farmi individuare. La rotta era semplice. Dovevo spostarmi leggermente a est per raggiungere da Lancaster nell’Impero La Rochelle nel Canada Britannico, al porto d’ingresso che era facilmente identificabile. Virare a nord per la periferia di Winnipeg, deviare a sinistra girando la città e intercettare la strada nord-sud per il porto. Stonewall era a un tiro di schioppo da lì, e la casa dei Tormey vicinissima. Conoscevo tutta l’ultima parte, la più difficoltosa, non semplicemente dalle carte geografiche ma dal viaggetto in carrozza che ci avevo fatto di recente, senza nulla che mi disturbasse (a parte le simpatiche mani che cercavano alla cieca il mio corpo). Era l’alba quando apparve la cancellata esterna dei Tormey. Io ero stanca, ma non in cattiva forma. Posso mantenere il ritmo passeggiata-trotto-corsa-passeggiata-trotto-corsa per ventiquattro ore, se necessario, e all’addestramento l’ho fatto; tenere duro per tutta la notte è accettabile. Più che altro avevo i piedi indolenziti e una sete del diavolo. Felice, sollevata, premetti il pulsante per annunciarmi. E sentii immediatamente: — Parla il capitano Ian Tormey. Questa è una registrazione. Questa casa è protetta dalla Licantropi di Winnipeg Limited. Ho assunto questa agenzia perché non considero giustificata la loro fama di avere il grilletto facile; sono solo molto efficienti nel proteggere i loro clienti. Le telefonate dirette a questa casa non verranno inoltrate, ma il recapito della posta è assicurato. Grazie per avermi ascoltato. E grazie a te, Ian! Oh, accidenti, accidenti, accidenti! Sapevo di non avere motivo di aspettarmi che restassero a casa, però il mio cervello non era mai stato sfiorato dall’idea che potessero non esserci. Avevo operato un «trasferimento», come lo chiamano gli strizzacervelli: dopo aver perso la mia famiglia ennezeta, con Boss scomparso e forse morto, la casa dei Tormey era diventata «casa mia» e Janet la madre che non avevo mai avuto. Mi sarebbe piaciuto essere ancora alla fattoria degli Hunter, a godermi il calore protettivo della signora Hunter. Mi sarebbe piaciuto essere a Vicksburg, a dividere con Georges le nostre due solitudini. Nel frattempo il sole sorgeva e presto le strade avrebbero cominciato a riempirsi e io ero una straniera illegale senza quasi un dollaro canadese e col profondo bisogno di non essere notata, non essere arrestata e interrogata, e con la testa leggera per mancanza di sonno e fame e sete e stanchezza. Ma non dovevo compiere scelte difficili, perché mi veniva imposta la classica scelta obbligata: dovevo tornare a nascondermi in un buco come un animale, e in fretta, prima che il traffico si riversasse sulle strade. I boschi non sono comuni nei pressi di Winnipeg, però ricordavo alcuni ettari di terreno selvaggio, scuro sulla mia sinistra, a lato della strada principale e più o meno dietro la casa dei Tormey; un terreno irregolare ai piedi della collinetta su cui Janet aveva costruito. Così partii in quella direzione. Incontrai un carro delle consegne (latte) e nient’altro. Arrivata al punto che mi interessava, lasciai la strada. Il terreno divenne molto irregolare; una specie di percorso di guerra fra continui solchi. Ma poco dopo incontrai qualcosa che era ancora meglio degli alberi: un torrentello così poco profondo che potei attraversarlo a piedi. Cosa che feci, ma solo dopo aver bevuto. Acqua pulita? Probabilmente contaminata, ma me ne infischiai: i miei singolari «diritti di nascita» mi proteggono dalla maggioranza delle infezioni. Il sapore era buono, e ne bevvi tanta, e poi mi sentii molto meglio fisicamente; ma il senso di peso al cuore restò. Mi addentrai nel sottobosco, in cerca di un posto dove potessi non solo nascondermi ma addirittura azzardarmi a dormire. Le sei ore di sonno di due notti prima sembravano orribilmente lontane; ma il guaio di nascondersi in un boschetto così vicino alla città è che prima o poi può arrivare una pattuglia di boyscout e calpestarti la faccia. Quindi mi misi in cerca di un posto non solo selvaggio, ma anche inaccessibile. Lo trovai. Un pendio ripido come la morte, reso ancora più inaccessibile da una massa di cespugli spinosi che individuai alla cieca. Una massa di cespugli spinosi? Mi occorsero quasi dieci minuti per trovarla, perché sembrava la parte sporgente di un macigno rimasto lì dai tempi in cui l’avanzata dei ghiacciai aveva spianato tutta la zona. Guardando meglio, però, non pareva di roccia. Occorse ancora di più per infilare le dita in un qualche appiglio e sollevarla, dopo di che si alzò facilmente, grazie a un contrappeso. Scivolai dentro in fretta e la lasciai tornare al suo posto e mi ritrovai al buio, spezzato solo da lettere luminosissime: PROPRIETÀ PRIVATA — VIETATO FUMARE. Mi immobilizzai e pensai. Janet mi aveva detto che l’interruttore che disarmava tutte le difese letali era nascosto a poca distanza dall’ingresso. Quant’è «poca distanza»? E nascosto fino a che punto? Era nascosto piuttosto bene semplicemente perché lì era scuro come l’inchiostro, a parte quelle lettere mostruose. Che avrebbero anche potuto dire «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate». Quindi tira fuori la tua torcia, Friday, alimentata dal suo piccolo Shipstone eterno, e cerca. Ma non puoi spingerti troppo avanti! In effetti esisteva una torcia, chiusa in una sacca che mi ero lasciata alle spalle sulla Skip to M’Lou. Magari in quel momento era accesa e rallegrava i pesci sul fondo del Mississippi. E sapevo che altre torce erano immagazzinate in quel tunnel buio. Non avevo nemmeno un fiammifero. Avessi avuto un boyscout, avrei potuto ottenere il fuoco sfregando tra loro le sue gambe. Oh, piantala, Friday! Crollai a terra e mi concessi di piangere un po’. Poi mi sdraiai su quel (duro, freddo) (caldo e morbido) pavimento di cemento e mi addormentai. 20 Mi svegliai molto tempo dopo, e il pavimento era davvero duro e freddo. Ma io mi sentivo così enormemente riposata che non mi importava. Mi alzai e mi schiarii la testa e mi resi conto di non essere più disperata; solo affamata. Adesso il tunnel era ben illuminato. L’insegna luminosa mi avvertiva ancora di non procedere oltre, ma il tunnel non era più scuro; la luce era più o meno quella standard di un soggiorno ben illuminato. Mi guardai attorno in cerca della sorgente di luce. Poi il mio cervello riprese a funzionare. L’unica illuminazione veniva dall’insegna; i miei occhi si erano abituati alla luce mentre dormivo. So che anche gli esseri umani sperimentano questo fenomeno, ma forse in misura minore. Cominciai a cercare l’interruttore. Poi mi fermai e cominciai invece a usare il cervello. È un lavoro più duro che usare i muscoli, però più tranquillo, e brucia meno calorie. È l’unica cosa che ci distingua dalle scimmie, anche se solo di poco. Se io fossi stata un interruttore nascosto, in che punto mi sarei trovata? I parametri significativi dell’interruttore dovevano essere: a) il fatto di essere nascosto quanto bastava per frustrare gli intrusi; b) la capacità di salvare la vita a Janet e ai suoi mariti. Questo cosa mi diceva? Non doveva essere troppo alto, per Janet; quindi anch’io ero in grado di raggiungerlo, perché abbiamo più o meno la stessa altezza. Di conseguenza, potevo arrivarci senza ricorrere a uno sgabello. L’insegna fluttuante era a circa tre metri dalla porta. L’interruttore non poteva essere molto più lontano, perché Janet mi aveva detto che il secondo avvertimento, quello che prometteva morte, entrava in azione non troppo addentro al tunnel. «Dopo pochi metri» aveva detto. In genere, pochi non sono più di dieci. Janet non avrebbe nascosto l’interruttore in modo troppo meticoloso, costringendo uno dei suoi mariti che volesse salvare la pelle a ricordare esattamente dove si trovasse. Il semplice fatto di sapere che l’interruttore esisteva doveva essere un indizio sufficiente a permettergli di trovarlo. Ma un intruso che ne ignorasse la presenza non doveva notarlo. Avanzai fino a trovarmi direttamente sotto l’insegna, guardai su. La luce delle lettere rischiarava tutto, a parte la minuscola porzione di soffitto appena sopra l’insegna. Quella zona era invisibile anche a me, nonostante i miei occhi super e il fatto di essermi abituata alla luce. Alzai la mano e tastai il soffitto nel punto in cui non lo vedevo. Le mie dita incontrarono qualcosa che pareva un pulsante, forse l’estremità di un solenoide. Premetti. L’insegna si spense; le luci si accesero, rischiarando tutto il tunnel. Cibi surgelati e l’occorrente per cuocerli e grandi salviette e acqua calda e fredda e un terminale nel buco per avere le ultime notizie e il sunto delle penultime… Libri e musica e denaro in contanti immagazzinato nel buco per i casi d’emergenza e armi a Shipstone e munizioni e vestiti di ogni genere che mi andavano bene perché andavano bene a Janet e un calendario-orologio sul terminale che mi disse che avevo dormito tredici ore prima che il duro «letto» di cemento mi svegliasse e un comodo soffice letto che mi invitò a concludere la giornata dormendo ancora dopo essermi lavata e aver mangiato e avere soddisfatto la fame di notizie… Una sensazione di sicurezza totale che mi permise di calmarmi al punto di non dovere più usare il controllo mentale per soffocare le sensazioni per non smettere di funzionare… I notiziari mi dissero che il Canada Britannico aveva declassato l’emergenza a «emergenza limitata». Il confine con l’Impero restava chiuso. Il confine col Québec era ancora strettamente sorvegliato, ma venivano concessi permessi a chiunque avesse validi motivi. Le dispute che ancora proseguivano tra le due nazioni stavano tutte nell’entità dei danni che il Québec doveva pagare per quello che si ammetteva essere stato un attacco militare compiuto per errore e/o stupidità. L’ordine di arresto era ancora valido, ma più del novanta per cento di abitanti del Québec arrestati erano stati rilasciati sulla parola… e circa il venti per cento di arrestati originari dell’Impero. Quindi avevo fatto bene a tenermi nascosta, perché, senza dubbio, ero un tipo sospetto. A quanto sembrava, però, Georges era liberissimo di tornare. Oppure c’erano particolari che mi sfuggivano? Il Consiglio per la Sopravvivenza aveva promesso un terzo round di omicidi «educativi» entro dieci giorni, più o meno due, dall’ultima ondata. Gli Stimolatori li avevano seguiti a ruota il giorno dopo con un annuncio analogo, condannando di nuovo il cosiddetto Consiglio per la Sopravvivenza. Questa volta gli Angeli del Signore non emanarono nessun proclama, o per lo meno le loro minacce non vennero trasmesse dalla Rete Dati canadese. Giunsi di nuovo a dubbie conclusioni. Gli Stimolatori erano un’organizzazione di cartapesta, tutta propaganda e niente azione. Gli Angeli del Signore erano defunti e/o in fuga. Il Consiglio per la Sopravvivenza aveva sostenitori estremamente ricchi, pronti a pagare per il sacrificio di altri dilettanti idioti in tentativi quasi del tutto inutili; ma questa era solo un’ipotesi, da abbandonare di corsa se il terzo round di attacchi si fosse dimostrato efficiente e professionale; cosa che non mi aspettavo, ma io ho un lungo passato di previsioni errate. Ancora non riuscivo a decidere chi ci fosse dietro questo stupido regno del terrore. Non poteva essere (ne ero certa) una nazione territoriale: poteva essere una multinazionale, o un consorzio, anche se non ci vedevo alcun senso. Poteva persino trattarsi di uno o più individui terribilmente ricchi, se avevano un buco in testa. All’archivio dati chiesi anche di Impero, fiume Mississippi e Vicksburg, singolarmente, accoppiati a due a due, e infine tutti e tre. Negativo. Aggiunsi i nomi dei due vascelli e provai tutte le combinazioni. Sempre negativo. A quanto sembrava, ciò che era accaduto a me e a diverse altre centinaia di persone era stato censurato. Oppure lo consideravano un fatto insignificante? Prima di andarmene scrissi un biglietto per Janet. Le dissi quali vestiti avevo preso, quanti dollari canadesi (aggiungendo l’importo a quello che mi aveva già dato lei); e spiegai nei particolari cosa avessi pagato con la sua carta Visa: una capsula da Winnipeg a Vancouver, un biglietto di shuttle da Vancouver a Bellingham, e poi più nulla. (Oppure avevo pagato il biglietto per San José con la sua carta, o Georges aveva già cominciato a farmi da mecenate? Le mie ricevute erano sul fondo del Mississippi.) Dopo aver preso in contanti quanto bastava per uscire dal Canada Britannico (speravo!) avevo la forte tentazione di lasciare lì col messaggio la carta Visa di Janet. Ma una carta di credito è un oggetto insidioso: solo un pezzetto di plastica che può valere tonnellate di lingotti d’oro. Stava a me proteggere quella carta di persona e a ogni costo, finché non avessi potuto restituirla alle mani di Janet. Qualunque altra soluzione sarebbe stata disonesta. Una carta di credito è un guinzaglio attorno al collo. Nel mondo delle carte di credito, una persona non ha alcuna privacy; o al massimo protegge la privacy con grandi sforzi e molti imbrogli. A parte questo, ma lo sapete cosa fa la rete di computer quando infilate la vostra carta in una fessura? Io no. Mi sento molto più tranquilla coi contanti. Non ho mai saputo di qualcuno che abbia spuntato una discussione con un computer. Secondo me le carte di credito sono una maledizione. Però io non sono umana, e probabilmente mi manca il punto di vista umano (in questa come in tante, tante altre cose). Ripartii il mattino dopo. Indossavo uno splendido completo a tre pezzi con pantaloni, color azzurro chiaro (ero sicura che Janet fosse bellissima con quel vestito e mi sentivo bella anch’io, nonostante l’evidenza degli specchi), e avevo intenzione di noleggiare un calesse nella vicina Stonewall; poi scoprii che potevo scegliere fra l’omnibus a cavalli e il Vma delle ferrovie canadesi: arrivavano tutti e due alla stazione della sotterranea, Perimeter e MacPhillips, da cui Georges e io eravamo partiti per la nostra informale luna di miele. Per quanto preferisca i cavalli, optai per il mezzo più veloce. Andare in città non mi avrebbe permesso di ritirare i bagagli, ancora depositati al porto. D’altra parte, sarei riuscita a ritirarli senza essere identificata come una straniera proveniente dall’Impero? Decisi di ordinare che mi venissero spediti dopo essere uscita dal Canada Britannico. In ogni caso, avevo preparato quelle valigie in Nuova Zelanda; se ero sopravvissuta senza per tutto quel tempo, potevo continuare a sopravvivere senza all’infinito. Quanta gente è morta perché non ha voluto abbandonare i bagagli? Ho questo angelo custode moderatamente efficiente che se ne sta appollaiato sulla mia spalla. Solo qualche giorno fa Georges e io avevamo raggiunto il cancelletto giusto, infilato nella macchina la carta di credito di Janet e Ian senza battere ciglio, ed eravamo allegramente partiti per Vancouver. Questa volta, anche se c’era una capsula in partenza, scoprii di aver superato i cancelletti e di essere diretta all’Ufficio Viaggi & Turismo del Canada Britannico. C’era un sacco di gente, quindi non correvo il rischio che un impiegato spiasse quello che facevo; in ogni caso, aspettai che si liberasse una consolle nell’angolo in fondo. Poi sedetti, battei sulla tastiera la richiesta di una capsula per Vancouver, e infilai nella fessura la carta di credito di Janet. Quel giorno il mio angelo custode era sveglio. Ritirai la carta e la feci sparire in fretta, e sperai che nessuno avesse annusato il puzzo di plastica bruciata. E me ne andai, passo veloce e naso in aria. Al cancelletto, quando chiesi un biglietto per Vancouver, l’impiegato era perso nello studio delle pagine sportive del Winnipeg Free Press. Abbassò un poco il giornale, mi scrutò da dietro l’orlo della carta. — Perché non usate la carta di credito come tutti gli altri? — Avete biglietti da vendere? Questi soldi sono valuta corrente? — Non è questo il punto. — Per me sì. Vendetemi un biglietto, per favore. E datemi il vostro nome e numero di matricola, come dice il cartello appena dietro la vostra testa. — Gli tesi la somma esatta. — Eccovi il biglietto. — L’uomo ignorò la mia richiesta di identificarsi; io ignorai il suo rifiuto di osservare il regolamento. Non volevo presentare una protesta al suo supervisore; volevo solo creare un diversivo per distrarlo dal mio eccentrico desiderio di usare contanti al posto della carta di credito. La capsula era affollata, ma non dovetti restare in piedi. Un Galahad uscito diritto dal secolo scorso si alzò e mi offrì il suo posto. Era giovane e non brutto e chiaramente faceva il cavaliere perché gli sembrava che io possedessi le giuste qualità femminili. Accettai con un sorriso e lui restò in piedi sopra di me e io feci il possibile per ricompensarlo: mi sporsi un po’ in avanti, permettendogli di sbirciare nella mia scollatura. Il giovane Lochinvar parve ripagato (continuò a guardare per tutto il viaggio), e a me non costava niente e non mi dava fastidio. Apprezzai il suo interesse e la comodità che mi permise di godere: sessanti minuti in piedi sono parecchio, con le accelerazioni poderose di una capsula espresso. Quando scendemmo a Vancouver, mi chiese se avessi progetti per il pranzo. Perché, se non ne avevo, lui conosceva un posto eccezionale, il Bayshore Inn. O se preferivo la cucina cinese o giapponese… Gli dissi che mi spiaceva ma che dovevo raggiungere Bellingham entro mezzogiorno. Anziché accettare il rifiuto, si illuminò il viso. — Che fortunata coincidenza! Sto andando a Bellingham anch’io, ma pensavo di mangiare prima. Potremmo pranzare assieme a Bellingham. Affare fatto? (Non c’è nulla, nella legislazione internazionale, che riguardi chi attraversa confini internazionali per scopi immorali? Ma si può definire «immorale» la semplice, esplicita fregola di questo giovanotto? Una persona artificiale non capisce mai i codici sessuali degli umani; al massimo possiamo impararli a memoria e cercare di non ficcarci nei guai. Però non è facile; i codici sessuali umani sono contorti come un piatto di spaghetti.) Fallito il mio tentativo di un gentile rifiuto, fui costretta a decidere sui due piedi se essere scortese o assecondare i suoi ovvi scopi. Mi feci la predica: Friday, sei una ragazza cresciuta; conosci bene certe cose. Se avessi voluto non dargli nemmeno la minima speranza di portarti a letto, avresti dovuto rifiutare quando ti ha offerto il sedile a Winnipeg. Feci un altro tentativo. — Affare fatto — risposi — se lasci pagare il conto a me, senza discussioni. — Una mossa molto sporca da parte mia, e lo sapevamo tutti e due: se mi avesse permesso di pagare il conto del pranzo, avrebbe perso l’ora investita su di me a restare in piedi e aggrapparsi alla maniglia e combattere con l’accelerazione della capsula. Ma il protocollo dei sottintesi non gli permetteva di esigere i frutti dell’investimento; il suo gesto di cavalleria, teoricamente, era stato disinteressato, signorile, e fine a se stesso. Quel delinquente lurido, strisciante, infido e impunito procedette ad aggirare il protocollo. — Va bene — disse. Io inghiottii lo stupore. — Non ci saranno discussioni? Pago io? — Nessuna discussione — assicurò lui. — Naturalmente tu non gioisci all’idea di essere costretta a pagare il pranzo, anche se l’invito è partito da me e quindi il privilegio di averti ospite dovrebbe essere mio. Non so cosa ho fatto per irritarti, ma non voglio importi il mio obbligo. A Bellingham, a livello di superficie della stazione, c’è un McDonald’s. Io prenderò un Big Mac e una coca. Pagherai tu. Dopo di che potremo lasciarci da buoni amici. — Io sono Marjorie Baldwin — ribattei. — Tu come ti chiami? — Sono Trevor Andrews, Marjorie. — Trevor. Bel nome. Trevor, sei lurido, strisciante, infido e spregevole. Per cui portami al miglior ristorante di Bellingham, piegami con vini celestiali e cibi raffinati, e paga tu il conto. Ti darò una possibilità onesta di rifilarmi i tuoi truci disegni. Ma non credo che mi porterai a letto. Non sono ricettiva. Bugia. Mi sentivo ricettiva e molto sporcacciona; se lui avesse posseduto il mio olfatto super, ne sarebbe stato certo. Come io ero certa della sua bramosia per me. Un maschio umano non può fingere con una Pa di sesso femminile che possegga sensi super. L’ho imparato al menarca. Ma ovviamente la bramosia maschile non mi offende mai. Al massimo, a volte imito il comportamento delle femmine umane e fingo di essere offesa. Non lo faccio spesso, tendo a evitarlo: non sono un’attrice troppo convincente. Da Vicksburg a Winnipeg non avevo provato desideri sessuali. Ma dopo una nottata doppia di sonno, un bagno caldissimo con un quintale di sapone e la pancia piena di cibo, il mio corpo era tornato al suo stato normale. Allora perché stavo raccontando bugie a questo innocuo sconosciuto? «Innocuo»? Da un punto di vista razionale, sì. Finché non interverrà la chirurgia correttiva, io sarò sterile. Non sono incline a prendermi nemmeno un raffreddore e sono immunizzata contro le quattro malattie veneree più comuni. Al laboratorio mi hanno insegnato a giudicare il coito alla stregua del mangiare, del bere, del respirare, del dormire, del giocare, del parlare, del rannicchiarsi vicino a qualcuno; cioè delle piacevoli necessità che rendono la vita una gioia anziché un peso morto. Gli dissi una bugia perché le regole umane, a quel punto del ballo, esigono una bugia; e io mi fingevo umana, e non osavo essere me stessa in tutta onestà. Lui strizzò le palpebre. — Pensi che sprecherei il mio investimento. — Temo di sì. Mi spiace. — Ti sbagli. Io non cerco mai di portare a letto una donna. Se lei mi vuole nel suo letto, troverà il modo per farmelo sapere. Se non mi ci vuole, non mi piacerebbe esserci. Però tu forse non ti rendi conto che il semplice fatto di sederti davanti e guardarti vale il costo di un pranzo. A patto di ignorare le stupidaggini che escono dalla tua bocca, ovviamente. — Stupidaggini! Meglio per te che il ristorante sia ottimo. Prendiamo lo shuttle. Temevo di dover uscire dalla stazione a furia di discussioni, all’arrivo. Invece l’impiegato della Dsi studiò con estrema cura i documenti di Trevor prima di stampigliare la sua carta turistica, poi si limitò a dare un’occhiata alla mia MasterCard di San José e a farmi cenno di passare. Aspettai Trevor appena oltre la barriera Dsi e fissai l’insegna THE BREAKFAST BAR con la sensazione di un doppio déjà vu. Trevor mi raggiunse. — Se avessi visto — disse cupo — la carta di credito dorata che hai appena sventolato, non mi sarei offerto di pagarti il pranzo. Sei un’ereditiera. — Senti, amico — ribattei — un affare è un affare. Mi hai detto che solo guardarmi e sognarmi vale il prezzo. Nonostante le mie stupidaggini, sono pronta a collaborare fino al punto di ampliare un po’ la scollatura. Un bottone, magari due. Ma non ti lascerò battere in ritirata. Anche a un’ereditiera piace guadagnare qualcosa, di tanto in tanto. — Oh, orrore e vergogna! — Piantala di lamentarti. Dov’è il tuo grande ristorante? — Be’… Marjorie, sono costretto ad ammettere che non conosco i ristoranti di questa smagliante metropoli. Vuoi dirmi tu quale preferisci? — Trevor, le tue tecniche di seduzione sono atroci. — Così dice mia moglie. — Mi pareva che avessi l’aria dell’uomo schiavizzato. Tira fuori la sua foto. Io torno fra un momento. Vado a scoprire dove mangeremo. Beccai l’impiegato della Dsi fra uno shuttle e l’altro, gli chiesi il nome del miglior ristorante. Lui divenne pensoso. — Non siamo mica a Parigi, sapete. — Me n’ero accorta. — O nemmeno a New Orleans. Fossi in voi, andrei all’Hilton. Lo ringraziai, tornai da Trevor. — Mangiamo nel salone qui sopra, due piani più su. A meno che tu non voglia sguinzagliare le tue spie. Adesso vediamo la foto. Mi mostrò la foto tolta dal portafoglio. La guardai attentamente, poi emisi un fischio rispettoso. Le bionde mi intimidiscono. Da piccola credevo di poter ottenere quel colore, se avessi sfregato abbastanza forte. — Trevor, con questo bendidio a casa perché raccogli per strada donne smarrite? — Sei smarrita? — Smettila di cambiare argomento. — Marjorie, non mi crederesti e diresti sciocchezze. Andiamo in sala da pranzo prima che evaporino tutti i martini. Il pranzo fu okay, ma Trevor non possedeva l’immaginazione, le conoscenze culinarie e la capacità di intimidire un maître di Georges. Senza i guizzi di Georges i piatti furono la buona cucina media del Nord America; la stessa cosa sia a Bellingham che a Vicksburg. Io ero preoccupata. Scoprire che la carta di credito di Janet era stata annullata mi aveva turbata quasi più dell’orrida delusione di non trovare Ian e Janet a casa. Janet era nei guai? Era morta? E Trevor aveva perso un po’ dell’allegro entusiasmo che un uomo in fregola dovrebbe mostrare mentre conduce la partita. Anziché fissarmi con occhi libidinosi, sembrava preoccupato anche lui. Perché quel cambiamento? Perché gli avevo chiesto di vedere la foto della moglie? Gli avevo creato complessi di colpa? Secondo me un maschio non dovrebbe mettersi in caccia se fra lui e la moglie (le mogli) non esiste complicità, se non può tornare a casa e raccontare i dettagli più sporchi e riderne con lei (con loro). Come Ian. Non mi aspetto che un uomo voglia «proteggere la mia reputazione» perché, da quanto mi risulta e credo, nessuno lo fa mai. Se voglio che un maschio non parli della mia goffaggine e della mia sudorazione a letto, l’unica soluzione è non andarci a letto assieme. D’altronde era stato Trevor a parlare per primo della moglie, no? Ripassai mentalmente la scena; sì, esatto. Dopo pranzo ritrovò un pizzico di buonumore. Gli stavo dicendo di tornare lì dopo il suo appuntamento di lavoro, perché intendevo fermarmi all’Hilton per stare comoda e poter fare in santa pace chiamate via satellite (vero), e che forse avrei passato lì la notte (sempre vero), per cui torna e chiamami e scenderò a prenderti nell’atrio (forse vero; mi sentivo così sola e preoccupata che probabilmente gli avrei detto di salire subito in camera). Lui rispose: — Chiamerò prima così potrai buttare fuori quell’uomo, ma salirò direttamente. Inutile fare il viaggio due volte! Comunque farò portare su lo champagne, non lo terrò fra le braccia. — Fermo un attimo — dissi. — Tu non mi hai ancora spiegato i tuoi criminosi scopi. Io ti ho promesso solo un’occasione equa per cercare di vendermi la tua merce. Nell’atrio. Non nella mia camera da letto. — Marjorie, sei una donna difficile. — No, tu sei un uomo difficile. Io so cosa faccio. — Un satori improvviso mi disse che lo sapevo sul serio. — Cosa ne pensi delle persone artificiali? Ti piacerebbe che tua sorella ne sposasse una? — Ne conosci una che accetterebbe? Mia sorella sta crescendo coi denti un po’ lunghi. Non potrà permettersi di essere schizzinosa. — Non cercare di svicolare. Tu ne sposeresti una? — Cosa penserebbero i vicini? Marjorie, come sai che non lo abbia già fatto? Hai visto la foto di mia moglie. Le creature sintetiche sono le mogli migliori, in orizzontale o in verticale. — Concubine, vuoi dire. Non è necessario sposarle. Trevor, tu non sei sposato a una Pa e non sai niente di loro, se non i miti popolari… Se no non parleresti di creature sintetiche quando l’argomento sono le persone artificiali. — Sono lurido, strisciante e infido. Ho usato il termine a sproposito, per non farti sospettare che sono un Pa. — Idiozie! Non lo sei, o me ne sarei accorta. E tu probabilmente andresti a letto con una persona artificiale, ma non ti sogneresti mai di sposarla. Ma questa è una discussione inutile. Aggiorniamola. Mi occorrono un paio di ore. Non sorprenderti se il terminale della mia stanza sarà occupato. Registra un messaggio e consolati con un buon drink. Io scenderò appena possibile. Mi registrai alla reception e salii; non all’appartamento nuziale (in assenza di Georges, quella deliziosa stravaganza mi avrebbe resa triste) ma a una stanza estremamente graziosa con un letto soffice ed enorme: un lusso che avevo ordinato spinta dal profondo sospetto che le smorzate (quasi inesistenti) doti di Trevor come propagandista di se stesso lo avrebbero comunque fatto finire lì. Quel porco difficile. Scacciai il pensiero e mi misi all’opera. Chiamai il Vicksburg Hilton. No, il signore e la signora Perreault se n’erano andati. No, non avevano lasciato nessun indirizzo. Spiacentiii! Anch’io, e la voce sintetica del computer non mi era di conforto. Chiamai l’università McGill a Montréal e persi venti minuti a «scoprire» che sì il dottor Perreault era cattedratico presso quella università, ma al momento si trovava all’università di Manitoba. L’unico fatto nuovo fu che il computer di Montréal sintetizzava sia in inglese sia in francese senza problemi, e rispondeva sempre nella lingua dell’interlocutore. Molto in gamba, questi banditi dell’elettronica; troppo in gamba, secondo me. Provai il codice di Janet (Ian) a Winnipeg, venni informata che il loro terminale era stato scollegato dietro loro richiesta. Mi chiesi come mai, il giorno prima fossi riuscita a ricevere i notiziari sul terminale del buco. «Scollegato» significava che venivano respinte solo le chiamate in arrivo? Quell’arcano era forse il segreto meglio custodito della rete internazionale computer? Alla sede di Winnipeg dell’Anzac rimbalzai da una parte all’altra del computer destinato ai passeggeri; alla fine, una voce umana ammise che il capitano Tormey era in ferie per l’emergenza e per l’interruzione dei voli per la Nuova Zelanda. Il codice di Auckland di Ian rispose solo con musica e con l’invito a lasciare un messaggio; il che non mi sorprese, dato che Ian non sarebbe rientrato lì finché i semibalistici non fossero tornati in attività. Speravo solo di poter trovare Betty e/o Freddie. Come si poteva arrivare in Nuova Zelanda con gli Sb fuori servizio? Non in groppa a un cavalluccio marino; sono troppo piccoli. Le grandi navi da carico a propulsione Shipstone accettavano passeggeri? Ne dubitavo; non erano attrezzate. Non avevo sentito da qualche parte che alcune erano addirittura prive di equipaggio? Ritenevo di conoscere nei particolari i mezzi e le rotte di viaggio meglio delle stesse agenzie di viaggio, perché, come corriere, spesso mi ero spostata servendomi di mezzi inaccessibili ai turisti e sconosciuti ai normali uomini di affari. Era molto irritante scoprire che non avevo mai pensato a come sconfiggere il fato, nell’ipotesi che tutti gli Sb fossero fermi. Però esisteva un modo; esiste sempre un modo. Annotai il quesito nella mente: un problema da risolvere più tardi. Chiamai l’università di Sydney, parlai con un computer, e dopo un po’ ottenni una voce umana che ammise di conoscere il professor Farnese; ma il professore era in congedo di aggiornamento. No, impossibile dare codici telefonici privati e indirizzi, spiacenti. Forse poteva essermi di aiuto il servizio informazioni. Il computer del servizio informazioni di Sydney, sofferente di solitudine, era pronto a chiacchierare con me per l’eternità; a dirmi qualunque cosa, tranne l’ammettere che Federico o Elizabeth Farnese fossero abbonati alla sua rete. Ascoltai un discorsetto pubblicitario per il Ponte Più Grande Del Mondo (non lo è) e per il Teatro d’Opera Più Grande Del Mondo (lo è), quindi vieni a trovarci e… Interruppi a malincuore. Un computer simpatico con un accento australiano è una compagnia migliore di tanta gente, umana o del mio tipo. A quel punto, affrontai la chiamata che speravo di poter evitare: Christchurch. Esisteva la probabilità che il quartier generale di Boss mi avesse inviato una comunicazione all’indirizzo della mia famiglia, quando si era spostato; se davvero si era spostato, se non lo avevano distrutto. Esisteva la remotissima probabilità che Ian, impossibilitato a contattarmi nell’Impero, inviasse un messaggio alla mia ex famiglia, nella speranza che me lo trasmettessero. Ricordavo di avergli dato il mio codice di Christchurch, quando lui mi aveva dato quello del suo appartamento di Auckland. Così chiamai la mia casa d’un tempo ed ebbi lo shock che si prova quando si mette piede su uno scalino che non esiste. «Il terminale che avete chiamato è stato scollegato. I messaggi non saranno inoltrati. In caso di emergenza siete pregati di mettervi in contatto con…» Seguì un numero che riconobbi: l’ufficio di Brian. Mi scoprii a fare il calcolo dei fusi orari, con la vaga speranza di sbagliare numero e ricevere una rispostaccia che avrebbe posto fine alle mie telefonate; poi ne uscii. Lì da me era pomeriggio, le quindici passate da poco, e quindi in Nuova Zelanda era il mattino del giorno dopo, le dieci e qualche minuto; Brian doveva senz’altro essere in ufficio. Feci il numero, ci fu un’interruzione da satellite di pochi secondi, poi mi trovai a fissare il suo viso esterrefatto: — Marjorie? — Sì — ammisi. — Marjorie. Come stai? — Perché mi hai chiamato? Dissi: — Brian, ti prego! Siamo stati sposati sette anni. Non possiamo almeno trattarci con un po’ di cortesia? — Scusa. Cosa posso fare per te? — Mi spiace disturbarti sul lavoro, ma ho chiamato a casa e ho trovato il terminale scollegato. Brian, saprai senz’altro che le comunicazioni con l’Impero di Chicago sono state interrotte dall’emergenza. Dagli omicidi. Da quello che i notiziari hanno definito Giovedì Rosso. Al momento mi trovo in California. Non sono riuscita a raggiungere il mio indirizzo nell’Impero. Sai dirmi niente di lettere o messaggi che potrebbero essere arrivati per me? Io non ho ricevuto nulla. — Non saprei proprio. Mi spiace. — Non puoi dirmi nemmeno se mi è stato inoltrato qualcosa? Mi basterebbe sapere che è arrivato un determinato messaggio per rintracciarne la fonte. — Fammi pensare. Ci sarebbero tutti i soldi che ti sei presa… No, ti sei portata via direttamente l’assegno. — Quali soldi? — Quelli che ci hai imposto di restituirti per non fare uno scandalo. Qualcosa di più di settantamila dollari. Marjorie, mi sorprende che tu abbia il fegato di farti rivedere, dopo che la tua vigliaccheria, le tue bugie e la tua avidità hanno distrutto la nostra famiglia. — Brian, che diavolo stai dicendo? Non ho mentito a nessuno, non credo di essere stata una vigliacca, e non ho rubato un centesimo alla famiglia. In che senso l’avrei distrutta? Sono stata buttata fuori a calci, da un momento all’altro… Buttata a calci e costretta a fare le valigie nel giro di pochi minuti. Sono certissima di non aver distrutto la famiglia. Spiegati. Brian si spiegò, in freddi e aridi dettagli. La mia vigliaccheria era tutt’uno con le mie bugie, ovviamente, con l’assurda pretesa di essere una creatura artificiale, non umana, che aveva costretto la famiglia a chiedere l’annullamento del contratto. Tentai di ricordargli che gli avevo dimostrato di possedere doti super; lui non mi diede retta. I suoi ricordi e i miei non collimavano. In quanto ai soldi, mentivo di nuovo: aveva visto la ricevuta con la mia firma. Lo interruppi per dirgli che ogni firma che sembrasse mia su una ricevuta del genere doveva essere falsa, dal momento che non avevo visto un solo dollaro. — Stai accusando Anita di falsificazione. La tua bugia più sfacciata. — Non sto accusando Anita di niente. Ma non ho ricevuto denaro dalla famiglia. Stavo accusando Anita, e lo sapevamo tutti e due. E forse accusavo anche Brian. Mi tornò in mente che Vickie, una volta, aveva detto che i capezzoli di Anita si inturgidivano solo davanti a un bel bilancio in attivo… e io le avevo risposto di chiudere il becco e non essere maligna. Ma anche qualcun altro aveva lasciato intendere che Anita fosse frigida a letto; una cosa incomprensibile per una Pa. In retrospettiva, era possibile che tutta quanta la passione di Anita fosse per la famiglia, per il suo successo finanziario, il prestigio pubblico, il potere in seno alla comunità. Se era così doveva odiarmi. Non avevo distrutto la famiglia, ma la mia espulsione si era rivelata la prima tessera del collasso totale. Quasi immediatamente dopo la mia partenza, Vickie si era trasferita a Nukualofa, e aveva chiesto al suo avvocato di pensare al divorzio e agli alimenti. Poi Douglas e Lispeth avevano lasciato Christchurch, si erano risposati tutti e due e avevano intentato la stessa causa. Un piccolo fatto confortante; seppi da Brian che i voti contro di me non erano stati sei a zero, ma sette a zero. Un miglioramento? Sì. Anita aveva deciso che si doveva votare in base al numero di quote possedute; gli azionisti di maggioranza (Brian, Bertie e Anita) avevano votato per primi, ed erano stati sette voti a sfavore, cioè la maggioranza che bastava a espellermi; dopo di che, Doug, Vickie e Lispeth si erano astenuti dal voto. Un conforto davvero minimo, comunque. Non avevano messo in minoranza Anita, non avevano cercato di fermarla; non mi avevano nemmeno avvertita di quello che bolliva in pentola. Si erano astenuti; poi si erano messi in disparte e avevano lasciato che la sentenza venisse eseguita. Chiesi a Brian dei bambini, e mi sentii rispondere seccamente che non erano affari miei. Poi mi informò che era molto occupato e doveva lasciarmi, ma io lo bloccai per un’altra domanda: che fine avevano fatto i gatti? Lui parve sul punto di esplodere: — Marjorie, sei proprio senza cuore? Col tuo comportamento hai provocato tanto dolore, questa tragedia, e ti informi su un particolare insignificante come i gatti? Trattenni l’ira. — Voglio saperlo, Brian. — Credo li abbiamo mandati alla protezione animali. O forse alla facoltà di medicina. Addio! Non richiamarmi più. — La facoltà di medicina… — Il Signor Sottoipiedi legato a un tavolo chirurgico mentre uno studente lo faceva a pezzi col bisturi? Non sono vegetariana, non intendo oppormi all’uso degli animali nella scienza e nell’insegnamento. Ma se proprio deve essere fatto, buon Dio che forse esisti da qualche parte, non permettere che accada ad animali che sono cresciuti convinti di essere umani! Protezione degli animali o università, quasi sicuramente Signor Sottoipiedi e i gatti più piccoli erano morti. In ogni caso, se gli Sb fossero stati in funzione, avrei corso il rischio di tornare nel Canada Britannico per prendere il primo volo per la Nuova Zelanda, nell’assurda speranza di salvare il mio vecchio amico. Ma senza i mezzi di trasporto moderni, Auckland era più lontana di Luna City. Nemmeno la minima speranza… Scavai in profondità nelle tecniche di controllo mentale e scacciai dal cervello le questioni irresolubili e scoprii che il Signor Sottoipiedi si stava ancora strusciando contro la mia gamba. Sul terminale pulsava una spia rossa. Guardai l’ora, vidi che erano passate all’incirca le due ore che avevo stimato; la spia era, quasi certamente, Trevor. Allora deciditi, Friday. Ti spruzzi gli occhi di acqua fredda e scendi e gli dai una possibilità di cercare di convincerti? Oppure gli dici di salire, lo porti subito a letto e piangi sulla sua spalla? Per prima cosa, intendo. Di sicuro adesso non ti senti libidinosa… ma affonda la faccia in un’armoniosa, calda spalla maschile, e butta fuori tutto quello che provi, tra un po’ ne avrai voglia. Lo sai. Si ritiene che le lacrime femminili siano un potente afrodisiaco per molti uomini, e la tua esperienza lo conferma. (Criptosadismo? Machismo? Chi se ne frega? Funziona.) Invitalo su. Fai portare il vino. Magari mettiti un po’ di rossetto, cerca di apparire sexy. No, al diavolo il rossetto; tanto non resisterebbe molto. Invitalo su; portalo a letto. Ritrova l’allegria facendo del tuo maledetto meglio per rallegrare lui. Mettici tutta te stessa! Mi stampai un sorriso in faccia e risposi al terminale. E mi trovai a parlare con la voce del robot dell’hotel. — Abbiamo una scatola di fiori per voi. Possiamo mandarli su? — Certo. — (A prescindere da chi o cosa li manda, una scatola di fiori è sempre meglio di un pugno nello stomaco.) Il montacarichi ronzò poco dopo. Andai ad aprire e tirai fuori un pacco grande quanto una bara per bambini. Lo misi a terra e lo aprii. Rose rosse a gambo lungo! Decisi di regalare a Trevor un corpo a corpo più succulento di quanto avesse saputo fare Cleopatra nei suoi giorni migliori. Dopo aver ammirato i fiori, aprii la busta che li accompagnava. Mi aspettavo solo un biglietto con due righe, la richiesta di chiamare l’atrio o qualcosa del genere. No: un messaggio, quasi una lettera. Cara Marjorie, spero che queste rose siano gradite come lo sarei stato io. (Come lo sarei stato? Che diavolo?) Sono costretto a confessare che debbo scappare. È successo qualcosa che mi ha fatto capire che devo desistere dai tentativi di importi la mia compagnia. Non sono sposato. Non so chi sia quella bella signora; la fotografia è fasulla. Come mi hai fatto notare, io e i miei simili non siamo ritenuti partiti degni. Io sono una persona artificiale, mia cara. «Mia madre era una provetta; mio padre un bisturi.» Quindi non dovrei fare avances a donne umane. Fingo di essere umano, sì, ma preferisco dirti la verità che continuare a fingere con te, perché prima o poi lo scopriresti. Accadrebbe, credimi, perché sono il tipo di testone orgoglioso che presto o tardi te lo direbbe. Preferisco dirtelo adesso, senza farti del male più avanti. Il mio cognome non è Andrews, ovviamente, perché quelli come me non hanno famiglia. Però non posso impedirti di desiderare che anche tu potessi essere una Pa. Sei dolcissima (nonché estremamente sexy), e la tua tendenza a dire sciocchezze su cose che non conosci, come le Pa, probabilmente non è colpa tua. Mi ricordi una cagnetta fox terrier che ho avuto. Era intelligente e molto affettuosa, ma pronta a combattere da sola il mondo intero se un certo giorno le girava di farlo. Confesso di amare cani e gatti parecchio più di tanta gente: non mi rimproverano mai di non essere umano. Goditi le rose, Trevor Mi asciugai gli occhi e mi soffiai il naso e scesi giù di corsa e traversai l’atrio e poi il bar e scesi di un piano fino al terminal degli shuttle e mi fermai davanti ai cancelletti degli shuttle in partenza… E restai lì, e aspettai, e aspettai, e aspettai ancora un po’, e un poliziotto cominciò a squadrarmi e alla fine si avvicinò e mi chiese cosa volevo e per caso mi occorreva aiuto? Gli dissi la verità, o almeno una parte, e lui mi lasciò in pace. Aspettai e aspettai e lui continuò a guardarmi. Alla fine tornò da me e disse: — Senti, se insisti a voler fare di testa tua, sarò costretto a chiederti la licenza e il certificato medico, e se uno dei due non è in regola ti porterò dentro. Non voglio farlo. A casa ho una figlia più o meno della tua età e mi piace pensare che un poliziotto non le romperebbe l’anima. Comunque tu non dovresti fare la vita. Ti si legge in faccia che non sei abbastanza coriacea. Pensai di mostrargli la carta di credito dorata; dubito esista in tutto il mondo una battona con una carta di credito dorata. Ma il caro vecchio era davvero convinto di agire per il mio bene, e io avevo già umiliato gente a sufficienza per un giorno. Lo ringraziai e tornai nella mia stanza. Gli umani sono così maledettamente certi di saper sempre individuare una Pa. Buffonate! Noi nemmeno ci riconosciamo a vicenda. Fra tutti gli uomini che avessi mai conosciuto, Trevor era l’unico che avrei potuto sposare senza il minimo scrupolo; e lo avevo scacciato. Ma lui era troppo sensibile! Chi è troppo sensibile? Lo sei tu, Friday. Ma, all’inferno, la maggioranza degli umani ci discrimina. Continuate a prendere a calci un cane, e diventerà di un nervosismo bestiale. Guardate la mia dolce famiglia ennezeta, porci. Probabilmente Anita aveva ritenuto suo pieno diritto ingannarmi: io non sono umana. Punteggio della giornata: Umani 9 — Friday 0. Dov’è Janet? 21 Dopo un sonnellino che trascorsi a un’asta, in attesa di essere venduta, mi svegliai; mi svegliai perché potenziali clienti pretendevano di guardarmi la dentatura e alla fine io ne morsi uno e il banditore cominciò a farmi assaggiare la frusta e mi svegliò. Il Bellingham Hilton era meraviglioso. Poi feci la chiamata che avrei dovuto fare per prima. Ma dovevo comunque fare tutte le altre, e questa costava troppo, e sarebbe stata inutile se l’ultima chiamata avesse dato frutti. D’altra parte, non mi piace parlare con la Luna; l’intervallo di tempo mi sconvolge. Così chiamai la Ceres & South Africa Acceptances, la banca di Boss; o una delle sue banche. Quella che si occupava dei miei soldi e pagava i miei conti. Dopo le consuete schermaglie con voci sintetiche che parevano ancora più deliberatamente irritanti del solito per via dell’intervallo fra domanda e risposta, alla fine raggiunsi un essere umano, una bella creatura di sesso femminile che chiaramente (così mi sembrava) era stata assunta per fare da impiegata decorativa: la gravità ridotta a un sesto è molto più efficace di un reggiseno. Le chiesi di farmi parlare con uno dei funzionari della banca. — State parlando con uno dei vicepresidenti — rispose lei. — Siete riuscita a convincere il computer che vi occorre l’aiuto di un funzionario. Bel trucchetto. Quel computer è testardo. In cosa posso esservi utile? Le raccontai una fetta della mia improbabile storia. — Così ho impiegato un paio di settimane a rientrare nell’Impero, e quando ci sono arrivata tutti i miei codici non sono serviti a nulla. La banca ha un altro codice di chiamata o un indirizzo per me? — Vedremo. Qual è il nome dell’agenzia per cui lavorate? — Ha diversi nomi. Uno è System Enterprises. — Qual è il nome del vostro datore di lavoro? — Non ha nome. È anziano, robusto, orbo, piuttosto deforme, e cammina lentamente sostenuto da due bastoni. Ho vinto un premio? — Vedremo. Mi avete detto che siamo noi a saldare i debiti della vostra MasterCard emessa dalla Banca Imperiale di Saint Louis. Leggetemi il numero della carta, lentamente. Lo lessi. — Volete fotografarla? — No. Datemi una data. — 1066. — 1492 — rispose lei. — 4404 avanti Cristo — convenni io. — 1776 — ribatté lei. — 2012 — conclusi io. — Avete un orribile senso dell’umorismo, signorina Baldwin. Okay, in via d’ipotesi voi siete voi. Ma se non lo siete, scommetto fin d’ora che non sopravviverete al prossimo punto di controllo. Il signor Due-Bastoni gode fama di non prendere alla sportiva gli impostori. Scrivetevi questo codice. Poi ripetetelo. Obbedii. Un’ora più tardi superavo il palazzo della Confederazione a San José, di nuovo diretta al Credito Commerciale Californiano, fermamente decisa a non lasciarmi coinvolgere in tafferugli davanti al palazzo anche se qualcuno avesse tentato altri omicidi. Riflettei sul fatto che mi trovavo nel punto esatto dov’ero… quando, due settimane prima?… e che se da quel punto mi avessero rispedita a Vicksburg, avrei perso il senno. Il mio appuntamento al Ccc non era con la MasterCard ma con uno studio legale a un altro piano, uno studio che avevo chiamato da Bellingham dopo averne avuto il codice dalla Luna. Avevo appena raggiunto l’angolo dell’edificio quando una voce, quasi al mio orecchio, disse: — Signorina Friday. Mi guardai attorno. Una donna in uniforme da tassista. Guardai meglio. — Blondie! — Avete chiesto un taxi, signorina? Dall’altra parte della piazza, in quella via. Non ci lasciano fermare qui. Traversammo assieme la piazza. Io attaccai a straparlare, al culmine dell’euforia. Blondie mi zittì. — Per favore, cerchi di sembrare un normale cliente di taxi, signorina Friday. Il Padrone non vuole che diamo nell’occhio. — Da quand’è che mi chiami signorina? — Meglio così. Adesso la disciplina è molto stretta. Ho potuto venire a prendervi solo per un permesso speciale, e non me lo avrebbero mai concesso se non avessi fatto presente che posso identificarvi senza sussurri da cospiratrici. — Va bene, va bene. Però non chiamarmi signorina quando non è indispensabile. Dio dei cieli, Blondie. Sono così contenta di vederti che potrei scoppiare a piangere. — Anch’io. Soprattutto perché eri stata data per morta lunedì scorso. Io ho pianto. E anche parecchia altra gente. — Morta? Io? Non sono mai arrivata vicino a defungere. Proprio no, mai. Non ho corso il minimo rischio. Mi ero solo persa. E adesso vi ho ritrovati. — Ne sono lieta. Dieci minuti dopo entravo nell’ufficio di Boss. — Friday a rapporto, signore — dissi. — Sei in ritardo. — Ho preso la panoramica, signore. Via nave sul Mississippi. — Ho sentito. Tu dovresti essere l’unica superstite. Volevo dire che sei in ritardo oggi. Hai superato il confine della California alle dodici e cinque. Adesso sono le diciassette e ventidue. — Accidentaccio, Boss. Ho avuto problemi. — I corrieri dovrebbero saper aggirare i problemi e continuare a correre. — Accidentaccio, Boss, non ero in servizio. Non facevo il corriere, ero in ferie. Non hai il diritto di prendertela con me. Se non ti fossi mosso senza avvertirmi, non avrei avuto il minimo guaio. Io ero qui, due settimane fa, a San José, a un tiro di schioppo dalla tua sede. — Tredici giorni fa. — Boss, stai sottilizzando perché non vuoi ammettere che è stata colpa tua, non mia. — Molto bene. Accetterò la responsabilità, ammesso che esista, così potremo smetterla di litigare e di perdere tempo. Ho compiuto sforzi estremi per avvertirti, molto più dell’allarme di routine inviato ad altri agenti lontani dal quartier generale. Mi spiace che questi sforzi non siano serviti. Friday, cosa devo fare per convincerti che per la nostra organizzazione tu sei unica e insostituibile? Prevedendo gli avvenimenti che sono stati etichettati come Giovedì Rosso… — Boss! C’eravamo di mezzo noi? — Ero scioccata. — Cosa ti spinge a un’idea talmente oscena? No. Il nostro staff di analisti ha eseguito una proiezione, in parte basandosi su dati che tu ci avevi portato da Elle-Cinque, e abbiamo cominciato a prendere misure precauzionali per tempo, o così credevamo. Però i primi attacchi hanno preceduto le nostre proiezioni più pessimistiche. All’alba del Giovedì Rosso stavamo ancora rimuovendo ostacoli. È stato necessario aprirci la strada oltre il confine. Coi soldi, non con la forza. Le comunicazioni sul cambio d’indirizzo e di codice erano già partite, ma sono stato informato che tu avevi inviato il ricevuto solo dopo che ci eravamo trasferiti qui e il centro comunicazioni era tornato in attività. — Per la stramaledetta ragione che non ho ricevuto nessun messaggio! — Per favore. Saputo che non avevi risposto, ho cercato di contattarti a casa tua in Nuova Zelanda. Forse sai che c’è stata un’interruzione nelle comunicazioni via satellite… — Ho sentito. — Esattamente. La mia chiamata è partita circa trentadue ore più tardi. Ho parlato con la signora Davidson, una donna sulla quarantina, dai tratti aquilini. Un membro anziano del tuo gruppo-S? — Sì. Anita. Sua Maestà il Giudice e Sua Maestà Tutto il Resto. — Ho avuto anch’io la stessa impressione. Oltre all’impressione che tu fossi diventata persona non grata. — Sono certa che non era una semplice impressione. Continua, Boss. Cosa aveva da dire su di me la vecchia megera? — Quasi niente. Avevi piantato la famiglia all’improvviso. No, non avevi lasciato altri indirizzi o codici. No, non avrebbe accettato messaggi per te, e se ne fossero arrivati non li avrebbe inoltrati. Ho molto da fare; Marjorie ci ha lasciati in un caos del diavolo. Arrivederci. — Boss, aveva il tuo indirizzo nell’Impero. Aveva anche l’indirizzo di Luna City della Ceres & South Africa perché i miei versamenti mensili le arrivavano da lì. — Ho intuito la situazione. Il mio rappresentante in Nuova Zelanda — (Mai sentito parlare di rappresentanti!) — mi ha procurato l’indirizzo di lavoro del marito anziano del tuo gruppo, Brian Davidson. Brian è stato più cortese e più utile. Da lui abbiamo saputo che shuttle avevi preso partendo da Christchurch, e questo ci ha portati alla lista dei passeggeri del tuo semibalistico da Auckland a Winnipeg. Lì ti abbiamo persa per un po’, finché il mio agente locale non ha accertato che avevi lasciato il porto in compagnia del pilota del semibalistico. Quando lo abbiamo raggiunto, il capitano Tormey era più che disposto ad aiutarci, ma tu eri partita. Sono lieto di poterti informare che siamo riusciti a ricambiare il favore al capitano Tormey. Una fonte interna ci ha permesso di avvertirlo che la polizia locale stava per arrestare lui e la moglie. — Dio santissimo! Perché? — L’accusa ufficiale era l’aver ospitato uno straniero nemico e un suddito dell’Impero nel corso di un’emergenza. In realtà, all’ufficio di Winnipeg della polizia provinciale non interessavate né tu né il dottor Perreault. Era solo una scusa per mettere dentro i Tormey. Sono ricercati per un’imputazione molto più grave che si è fermata a livello ufficioso. È scomparso un certo tenente Melvin Dickey. L’ultima traccia che si ha di lui risale a quando ha lasciato la centrale di polizia, dicendo che sarebbe andato a casa del capitano Tormey per arrestare il dottor Perreault. Si sospetta un’aggressione. — Ma non è una prova contro Jan e Ian! Contro i Tormey. — No, infatti. E per questo che vogliono arrestarli con un’accusa meno grave. C’è dell’altro. Il Vma del tenente Dickey si è schiantato nell’Impero, nei pressi di Fargo. A bordo non c’era nessuno. La polizia è molto ansiosa di cercare impronte digitali sul relitto. Forse lo stanno facendo in questo stesso momento. Un’ora fa circa, un comunicato ufficiale ha informato che il confine tra l’Impero di Chicago e il Canada Britannico è stato riaperto. — Mio Dio! — Componiti. Sui comandi di quel Vma c’erano in effetti impronte digitali che non appartenevano al tenente Dickey. Corrispondevano alle impronte del capitano Tormey che risultano dagli archivi dell’Anzac. Hai notato che tempo ho usato? Quelle impronte c’erano; non ci sono più. Friday, anche se ho ritenuto prudente far uscire la nostra sede operativa dall’Impero, dopo tanti anni laggiù non sono privo di contatti. E di agenti. E di favori fatti in passato che qualcuno mi deve rendere. Attualmente in quel relitto non ci sono più le impronte digitali del capitano Tormey. Però ce ne sono molte altre provenienti da parecchie fonti, sia vive che morte. — Boss, posso baciarti i piedi? — Frena la lingua. Non l’ho fatto per irritare la polizia del Canada Britannico. Il mio agente a Winnipeg, oltre a possedere il consueto addestramento, è uno psicologo clinico. È sua opinione professionale che il capitano Tormey o la moglie potrebbero uccidere per autodifesa, ma che occorrerebbe una situazione di estrema gravità per spingere uno dei due a uccidere un poliziotto. Il dottor Perreault risulta ancora meno incline a soluzioni violente. — L’ho ucciso io. — Come presumevo. Nessun’altra spiegazione coincideva coi dati disponibili. Vuoi discuterne? È un fatto di mia competenza? — Forse no. Solo che l’hai fatto entrare tu nella tua competenza quando hai distrutto quelle maledette impronte. L’ho ucciso perché minacciava Janet, Janet Tormey, con un’arma. Potevo semplicemente metterlo fuori combattimento. Ne avrei avuto tutto il tempo. Ma volevo ucciderlo, e l’ho ucciso. — Resterei, e resterò, terribilmente deluso se mai ti limiterai a ferire un poliziotto. Un poliziotto ferito è più pericoloso di un leone ferito. Avevo ricostruito i fatti più o meno come li hai raccontati tu, solo che credevo volessi difendere il dottor Perreault… visto che sembri trovarlo accettabile come sostituto di marito. — Lo è, certo. Ma è stato quando quell’idiota ha minacciato la vita di Janet che sono partita in quarta! Boss, fino a quel momento non sapevo di amare Janet. Non sapevo di poter amare una donna in modo tanto intenso. Tu ne sai più di me su come sono fatta, o almeno me lo hai lasciato intendere. Ho gli ormoni fuori fase? — So molto del modo in cui sei stata progettata, ma non ne discuterò con te. Non sono informazioni che ti occorrono. I tuoi ormoni non sono più fuori fase di quelli di un normale essere umano. In particolare, non hai squilibri in eccesso di cromosoma Y. Tutti gli esseri umani hanno soi-distant ormoni fuori fase. La razza si divide in due categorie: quelli che lo sanno e quelli che non lo sanno. Piantala coi discorsi stupidi. Non si addicono a un genio. — Ah, così adesso sono un genio. Alleluia, Boss. — Non essere impertinente. Tu sei un supergenio, ma devi fare ancora parecchia strada per renderti conto del tuo potenziale. Geni e supergeni creano sempre da sé le proprie regole sul sesso e su tutto il resto; non accettano le abitudini scimmiesche dei loro inferiori. Torniamo ai nostri montoni. È possibile che il cadavere venga ritrovato? — Personalmente sarei pronta a scommettere di no. — C’è qualche ragione di discuterne con me? — No, non credo. — Allora non ho bisogno di sapere niente e partirò dal presupposto che i Tormey possano tornare a casa sani e salvi, non appena la polizia avrà concluso di non poter stabilire il corpus delicti. Il corpus delicti non richiede necessariamente un cadavere, ma è piuttosto difficile imbastire un’accusa di omicidio senza un morto. Se i Tormey venissero arrestati, un buon avvocato li tirerebbe fuori in cinque minuti, e avrebbero un ottimo avvocato, te lo assicuro. Forse ti farà piacere sapere che li hai aiutati a fuggire dal paese. — Io? — Tu e il dottor Perreault. Lasciando il Canada Britannico sotto le spoglie del capitano Tormey e della moglie, e usando le loro carte di credito e chiedendo carte turistiche intestate a loro. Voi due avete lasciato una traccia che ha «dimostrato» che i Tormey sono scappati immediatamente dopo la scomparsa del tenente Dickey. La cosa ha funzionato talmente bene che là polizia ha perso diversi giorni nel tentativo di rintracciare i sospetti nella Confederazione Californiana, e se l’è presa con l’inefficienza dei colleghi californiani di fronte al loro insuccesso. Però mi sorprende che i Tormey non siano stati arrestati direttamente a casa. Il mio agente non ha avuto grosse difficoltà a contattarli lì. (Io non ero sorpresa. Se arriva un poliziotto, zip! giù nel buco. Se invece si presenta qualcuno che non è un poliziotto e convince Ian di essere a posto…) — Boss, il tuo agente di Winnipeg ha accennato al mio nome? Il nome Marjorie Baldwin, intendo. — Sì. Senza quel nome e una tua foto, la signora Tormey non lo avrebbe mai lasciato entrare. Senza i Tormey mi sarebbero mancati dati essenziali per seguire le tue tracce piuttosto elusive. Ci siamo stati utili a vicenda. Loro ti hanno aiutata a fuggire. Noi abbiamo aiutato loro a fuggire, quando li ho informati, quando il mio agente li ha informati, che erano ricercati. Una conclusione piacevole. — Come li hai fatti uscire? — Friday, vuoi saperlo? — Uhm, no. — (Quando imparerò? Se Boss avesse voluto svelarmi il suo metodo, me ne avrebbe parlato. «Le falle trascurate affondano le navi.» Il che con Boss non succede.) Boss si spostò da dietro la scrivania; e mi scioccò. Di solito non si muove molto, e nel vecchio ufficio il suo onnipresente servizio da tè era sempre a portata di mano sulla scrivania. In quel momento rotolò fuori: niente bastoni; una sedia a rotelle a motore. Si spostò a un tavolino, prese ad armeggiare con le attrezzature per il tè. Mi alzai. — Posso versare io? — Grazie, Friday. Sì. — Lasciò il tavolo, tornò al suo posto dietro la scrivania. Presi io il comando delle operazioni, il che mi permise di girargli la schiena; e ne avevo proprio bisogno. Non c’è motivo di provare shock quando uno storpio decide di sostituire ai bastoni una sedia a rotelle motorizzata; è semplice efficienza. Però quello storpio era Boss. Se a Giza, un bel mattino, gli egiziani si fossero svegliati e avessero trovato le piramidi capovolte e la Sfinge con un naso nuovo, non sarebbero rimasti più scioccati di me. Certe cose, e certe persone, non dovrebbero mai cambiare. Dopo avergli servito il tè (latte tiepido, due zollette) ed essermi versata il mio, tornai a sedere, ricomposta. Boss usa la tecnologia più recente e i modi di fare più antichi. Che io sappia, non ha mai chiesto a una donna di servirlo, ma se una donna è presente e si offre di versargli il tè, è certo che lui accetterà nel modo più cordiale e trasformerà l’episodio in una piccola cerimonia. Chiacchierò di altre faccende finché non terminammo una tazza a testa. Gli riempii un’altra tazza, non ne presi una seconda; e lui ricominciò a parlare di lavoro. — Friday, hai cambiato nomi e carte di credito così spesso che siamo sempre rimasti un soffio dietro di te. Forse non ti avremmo raggiunta a Vicksburg se i tuoi spostamenti non ci avessero fatto intuire qualcosa dei tuoi piani. E per quanto io non abbia l’abitudine di interferire coi miei agenti, anche quelli più strettamente sorvegliati, probabilmente avrei deciso di impedirti di risalire il fiume… Sapevo che la nostra spedizione era condannata in partenza… — Boss, cos’era quella spedizione? Non ho mai creduto alle loro frottole mielose. — Un colpo di stato. Molto goffo. L’Impero ha avuto tre presidenti in due settimane… e quello attuale è malconcio come gli altri e non ha grandi probabilità di sopravvivere. Friday, per la mia attività una tirannia ben retta è una base migliore di qualunque forma di libero governo. Ma una tirannia ben retta è quasi rara quanto una democrazia efficiente. Per riassumere: a Vicksburg ci sei sfuggita perché ti sei mossa senza esitazioni. Eri a bordo di quella nave militare da operetta ed eri partita prima ancora che il nostro agente di Vicksburg sapesse che ti eri arruolata. Ero molto stizzito con lui. Al punto che non l’ho ancora punito. Devo aspettare. — Non c’è ragione di punirlo, Boss. Ho agito in fretta. Avrebbe potuto tenere il mio ritmo solo se fosse arrivato a respirarmi sul collo, ed è una cosa di cui mi accorgo sempre e che provvedo a eliminare. — Sì, sì, conosco le tue tecniche. Ma capirai anche tu che mi sono parecchio irritato quando mi è stato riferito che il nostro uomo a Vicksburg ti aveva avuto direttamente sotto gli occhi… E ventiquattr’ore più tardi ha comunicato la tua morte. — Forse sì, forse no. Tempo addietro, a Nairobi un uomo mi ha tallonata troppo da vicino. Mi ha respirato sul collo, ed è stato il suo ultimo respiro. Se mi fai pedinare un’altra volta, sarà meglio che tu metta in guardia i tuoi agenti. — Di solito non ti metto nessuno alle costole, Friday. Con te funzionano meglio i punti di controllo. Fortunatamente per tutti noi, non sei rimasta fra i defunti. I terminali dei miei contatti a Saint Louis sono tutti sorvegliati dal governo, ma servono ancora a qualcosa. Quando hai tentato per tre volte di presentarti a rapporto e non sei mai stata presa, l’ho saputo immediatamente e ho dedotto che dovevi essere tu. Ne ho avuto la certezza dopo il tuo arrivo a Fargo. — Chi era dei tuoi a Fargo? L’artista dei documenti falsi? Boss finse di non aver sentito. — Friday, devo tornare al lavoro. Completa il rapporto. E sii succinta. — Sì, signore. Ho lasciato l’imbarcazione appena siamo entrati nell’Impero, sono arrivata a Saint Louis, ho scoperto che nessuno dei codici funzionava più, me ne sono andata, ho fatto un salto a Fargo come sai, sono penetrata nel Canada Britannico ventisei chilometri a est di Pembina, sono passata a Vancouver e poi a Bellingham, e in giornata mi sono presentata a rapporto. — Problemi? — No, signore. — Nuovi sviluppi interessanti dal punto di vista funzionale? — No, signore. — Appena avrai tempo, registra un rapporto completo per il nostro staff d’analisti. Sei libera di censurare i fatti che non ritieni opportuno divulgare. Ti convocherò di nuovo nel giro delle prossime due o tre settimane. Domattina cominci la scuola. Alle zero nove zero zero. — Eh? — Non grugnire. Non si addice a una bella ragazza. Friday, il tuo lavoro è sempre stato soddisfacente, ma è ora che tu inizi la tua vera professione. Forse dovrei dire la tua vera professione a questo stadio. La tua ignoranza è abissale. Modificheremo la situazione. Domattina alle nove. — Sì, signore. — (Io ignorante, eh? Vecchio bastardo presuntuoso. Dio com’ero contenta di vederlo. Ma quella sedia a rotelle mi rodeva il fegato.) 22 Pajaro Sands era un complesso alberghiero in riva al mare. È un posto dimenticato da Dio di Monterey Bay, nei pressi di una città dimenticata da Dio, Watsonville. Watsonville è uno dei grandi porti da cui parte petrolio per il mondo intero, e ha tutto il fascino di una torta vecchia e fredda, senza crema. I luoghi di divertimento più vicini sono i casinò e i bordelli di Carmel, a cinquanta chilometri di distanza. Però io non gioco e non mi interessa il sesso a pagamento, nemmeno le prestazioni esotiche che si possono trovare in California. Fra il personale di Boss, poca gente frequentava Carmel: era troppo lontano da raggiungere a cavallo (a meno di non avere un weekend libero), non c’era nessuna capsula diretta, e anche se la California è liberale nell’autorizzare i veicoli a motore, Boss concedeva i suoi Vma solo per motivi di servizio. Per noi, i divertimenti maggiori di Pajaro Sands erano le attrattive naturali che avevano portato alla costruzione del complesso: marosi e sabbia e sole. Il surfing mi divertì finché non diventai brava. Poi cominciò ad annoiarmi. Di solito, prendevo un po’ di sole ogni giorno e nuotavo un po’ e guardavo le grandi cisterne che si riempivano di petrolio; e notavo, divertita, che l’uomo di guardia sulla nave spesso se ne stava a guardare me, armato di binocolo. Nessuno di noi aveva ragione d’annoiarsi; godevamo tutti di un servizio terminali completo. Oggi la gente si è talmente abituata alla rete computer che dimentica con facilità quale meravigliosa finestra sul mondo costituisca; e mi metto nel numero. Ci si può sclerotizzare nell’uso di un terminale solo per certe cose (pagare conti, fare telefonate, ascoltare notiziari) e arrivare a dimenticarne gli usi più ricchi. Se l’abbonato è pronto a pagare il servizio, con un terminale si può fare quasi tutto ciò che è possibile fare al di fuori di un letto. Musica dal vivo? Potevo chiedere un concerto che si stesse svolgendo quella sera stessa a Berkeley; ma un concerto dato dieci anni prima a Londra, col direttore d’orchestra morto da chissà quanto tempo, era altrettanto «dal vivo», altrettanto immediato. Come i programmi in onda quel giorno. I componenti elettronici se ne fregano. Quando dati di qualunque tipo sono stati immessi nella rete, il tempo si ferma. L’unica cosa necessaria è ricordare che tutte le immense ricchezze del passato sono disponibili, ogni volta che le richiedete. Boss mi mandò a scuola a un terminale di computer, e io ebbi possibilità molto più ricche di quelle mai godute in anni trascorsi da chi avesse studiato a Oxford o alla Sorbona o a Heidelberg. Dapprima non mi sembrò di essere a scuola. Il primo giorno, a colazione, mi dissero di presentarmi al bibliotecario capo. Era un vecchietto caro e rugoso, il professor Perry, che avevo già conosciuto all’addestramento di base. Pareva sulle spine; comprensibile, visto che la biblioteca di Boss era probabilmente la cosa più voluminosa e complessa che avesse traslocato dall’Impero a Pajaro Sands. Indubbiamente, il professo Perry aveva davanti a sé settimane di lavoro prima che tutto fosse in ordine; e nel frattempo, Boss si sarebbe aspettato solo la perfezione più completa. Il lavoro non era facilitato dall’eccentrica mania di Boss di insistere, per la maggior parte della biblioteca, su libri di carta anziché cassette o microfilm o dischi. Quando andai da lui, il professor Perry si dimostrò preoccupato, poi mi indicò una consolle in un angolo. — Signorina Friday, perché non vi mettete lì? — Cosa devo fare? — Eh? Difficile a dirsi. Senz’altro ce lo spiegheranno. Sentite, al momento sono terribilmente occupato e mi manca il personale. Perché non prendete confidenza con le macchine studiando quello che volete? Le macchine non avevano nulla di speciale, a parte il fatto che codici speciali davano accesso diretto a diverse grandi biblioteche, come quella di Harvard e la biblioteca di Washington dell’Unione Atlantica e quella del Museo Britannico, senza dover passare per operatori umani o reti elettroniche; oltre all’incomparabile risorsa dell’accesso diretto alla biblioteca di Boss, che avevo lì vicino. Se ne avevo voglia, potevo persino leggermi i suoi volumi rilegati sul mio terminale, girando le pagine con la tastiera, senza mai togliere i libri dalla loro atmosfera all’azoto. Quel mattino stavo percorrendo ad alta velocità l’indice della biblioteca dell’università di Tulane (una delle migliori nella repubblica della Stella Solitaria), in cerca della storia di Vicksburg vecchia, quando inciampai in un rimando ai diversi tipi di spettri delle stelle e restai agganciata. Non ricordo perché ci fosse quel particolare rimando, ma se ne trovano in continuazione per i motivi più improbabili. Stavo ancora leggendo dell’evoluzione delle stelle quando il professor Perry propose di andare a pranzo. Ci andammo, ma prima io presi qualche appunto sui rami della matematica che volevo studiare. L’astrofisica è affascinante, ma bisogna saper parlare la sua lingua. Quel pomeriggio tornai a Vicksburg vecchia e una nota a piè di pagina mi rimandò a Show Boat, un musical imperniato su quell’epoca; dopo di che, passai il resto della giornata a guardare e ascoltare musical di Broadway, tutti dei giorni felici prima che la Federazione nordamericana andasse in pezzi. Perché al giorno d’oggi non sanno più scrivere musica come quella? Chissà come si divertivano a quei tempi! Io di certo mi divertii. Sentii Show Boat, The Student Prince e My Fair Lady uno dopo l’altro, e ne annotai ancora una dozzina da ascoltare più avanti. (È questo andare a scuola?) Il giorno dopo decisi di attenermi allo studio di argomenti professionali in cui ero debole, perché ero certa che una volta che i miei precettori (chiunque fossero) mi avessero assegnato un piano educativo preciso, non avrei più avuto tempo per le mie scelte personali: l’addestramento iniziale nell’agenzia di Boss mi aveva insegnato che i giorni dovrebbero essere di ventisei ore. Ma a colazione la mia amica Anna mi chiese: — Friday, cosa puoi dirmi dell’influenza di Luigi Undicesimo sulla poesia francese? Strizzai le palpebre. — C’è un premio in palio? Luigi Undicesimo mi pare il nome di un formaggio. E l’unico verso francese che ricordi è «Mademoiselle d’Armentières». Ammesso che sia un verso. — Il professor Perry ha detto che bisogna rivolgersi a te. — Ti ha presa in giro. — Quando tornai in biblioteca, papà Perry alzò la testa dalla sua consolle. Gli dissi: — Buongiorno. Anna mi ha raccontato che le avete detto di chiedere a me degli effetti di Luigi Undicesimo sulla lirica francese. — Sì, sì, ovvio. Adesso ti spiacerebbe lasciarmi in pace? Ho per le mani un programma piuttosto complesso. — Riabbassò gli occhi e mi escluse dal suo mondo. Frustrata e irritata, battei sulla tastiera Luigi XI. Due ore più tardi riemersi a prendere fiato. Non avevo imparato niente di poesia; per quanto ne sapevo, il Re Ragno non era mai arrivato nemmeno a rimare ton con c’est bon, e non era mai stato un mecenate. Però avevo imparato un sacco di cose sulla politica nel quindicesimo secolo. Violenta. Al suo confronto, le scaramucce in cui mi ero trovata coinvolta sembravano liti da asilo infantile. Passai il resto della giornata a informarmi sulla poesia francese dal 1450 in poi. Bella a tratti. Il francese è adatto alla poesia, più dell’inglese; ci vuole un Edgar Allan Poe per trarre dalle dissonanze dell’inglese un insieme armonico. Il tedesco è inadatto alla lirica, al punto che le traduzioni hanno un suono più dolce degli originali tedeschi. Non certo per colpa di Goethe o di Heine; è un difetto di una brutta lingua. Lo spagnolo è così musicale che uno slogan pubblicitario per un detersivo spagnolo è più gradevole del miglior verso libero in inglese; lo spagnolo è talmente bello che molta della sua poesia risulta più gradevole se chi la sente non capisce il significato. Non scoprii mai che effetti avesse avuto Luigi XI sulla poesia, posto che ne abbia avuto qualcuno. Una mattina trovai occupata la «mia» consolle. Lanciai uno sguardo interrogativo al bibliotecario capo. Lui parve di nuovo sulle spine. — Sì, sì, oggi è molto affollato. Friday, perché non usi il terminale nella tua stanza? Ha gli stessi comandi addizionali, e se tu avessi bisogno di consultarmi puoi farlo ancora più in fretta che qui. Batti l’interno sette e il tuo codice personale. Ordinerò al computer di darti la precedenza. Soddisfatta? — Perfetto — accettai. Mi piaceva il caldo cameratismo della biblioteca, ma nella mia stanza potevo mettermi nuda senza temere di irritare papà Perry. — Oggi cosa devo studiare? — Dèi del cielo. Non c’è qualche argomento che ti interessi e meriti ulteriori approfondimenti? Disturbare il Numero Uno non mi va. Andai nella mia stanza e tornai alla storia francese da Luigi XI in poi e questo mi portò alle nuove colonie sull’altro lato dell’Atlantico e questo mi portò all’economia e questo mi portò ad Adam Smith, e da lì alle scienze politiche. Conclusi che Aristotele aveva avuto i suoi giorni buoni, mentre Piatone era solo un pallone gonfiato, e così successe che mi chiamarono tre volte dalla sala da pranzo, e l’ultima chiamata diceva che per i ritardatari ci sarebbero state solo razioni fredde, e ci fu anche un messaggio in diretta di Blondie che minacciò di venire a prendermi per i capelli. Così corsi giù, a piedi nudi, ancora chiudendo le cerniere della tuta. Anna chiese cosa diavolo stessi facendo di tanto urgente da dimenticarmi di mangiare. — Non è da Friday. — Di solito lei e Blondie e io mangiavamo assieme, con o senza compagnia maschile. Gli ospiti del quartier generale erano un club, una confraternita, una famiglia rumorosa, e più di una ventina di loro erano miei «amici di bacio». — Miglioravo il mio cervello — risposi. — Hai davanti a te la Massima Autorità Mondiale. — Autorità su cosa? — chiese Blondie. — Su tutto. Provate a chiedere. Alle cose facili rispondo subito. Alle difficili risponderò domani. — Dimostramelo — disse Anna. — Quanti angeli possono stare seduti sulla punta di un ago? — Questa è facile. Misura il sedere degli angeli. Misura la punta dell’ago. Dividi A per B. La risposta numerica viene lasciata come esercizio per lo studente. — Furbona. Che suono fa il battito di una sola mano? — Ancora più facile. Accendi un registratore, servendoti del terminale più vicino. Batti con una sola mano. Ascolta il risultato. — Provaci tu, Blondie. Questa ha mangiato troppo pesce. — Quanti abitanti ha San José? — Ah, domanda difficile! Ti farò sapere domani. Questi giochetti continuarono per oltre un mese, finché non mi baluginò nel cranio che qualcuno (Boss, ovviamente) stava davvero cercando di costringermi a diventare la Massima Autorità Mondiale. Un tempo è davvero esistito un uomo noto come «Massima Autorità Mondiale». Lo incocciai mentre cercavo la risposta a una delle tante stupide domande che continuavano ad arrivarmi dalle fonti più strane. Così: mettete il terminale su «ricerca». Battete in successione i parametri «Cultura nordamericana», «Lingua inglese», «Metà del ventesimo secolo», «Commediografi», «Massima Autorità Mondiale». La risposta che potete aspettarvi è «Professor Irwin Corey». Scoprirete che i suoi sono aforismi di umorismo eterno. Nel frattempo io venivo nutrita a forza, come un’oca di Strasburgo. Comunque fu un periodo molto felice. Spesso, più spesso sì che no, uno dei miei veri amici mi invitava a dividere il letto. Non ricordo di aver mai rifiutato. Di solito l’appuntamento veniva definito durante l’abbronzatura del pomeriggio, e la prospettiva aggiungeva un brivido al piacere sensuale di stare sdraiata sotto il sole. E siccome lì tutti erano civili, di una dolcezza enorme, era possibile rispondere: «Mi spiace, me lo ha già chiesto Terence. Magari domani? No? Okay, allora uno di questi giorni» senza scatenare risentimenti. Uno dei difetti del gruppo-S cui appartenevo era che questi accordi venivano negoziati dai maschi in base a un protocollo che non mi è mai stato spiegato ma che non era esente da tensioni. Il ritmo delle domande stupide accelerò. Cominciavo appena ad addentrarmi nei particolari delle ceramiche Ming quando sul mio terminale apparve un messaggio: qualcuno dello staff voleva conoscere i rapporti tra barbe maschili, gonne femminili, e il prezzo dell’oro. Avevo smesso di meravigliarmi per le domande idiote; attorno a Boss può succedere di tutto. Ma questa mi sembrava superidiota. Perché mai doveva esistere qualche rapporto? Le barbe maschili non mi interessano; pungono e sono spesso sporche. In quanto alle gonne, ne sapevo ancora meno. Non le ho quasi mai portate. I vestiti a gonna possono essere carini, però non sono pratici per viaggiare e mi avrebbero fatta uccidere tre o quattro volte; e quando sei a casa, che c’è di male nello starsene nudi? Almeno fino a dove lo permettono i costumi locali. Ma avevo imparato a non ignorare le domande solo in base alla loro ovvia idiozia. Mi tuffai in quella richiamando tutti i dati possibili, e arrivai a battere sulla tastiera le associazioni più improbabili. Dopo di che dissi alla macchina di tabulare per categorie i dati che aveva trovato. Mi venga un colpo se non scoprii dei rapporti! Con l’accumularsi dei dati, conclusi che l’unico modo per avere una visuale generale era ordinare al computer di preparare e mostrarmi un grafico tridimensionale; e il grafico era così promettente che gli dissi di trasformarlo in un ologramma a colori. Splendido! Non sapevo perché quelle tre variabili combaciassero fra loro, ma combaciavano. Trascorsi il resto della giornata a variare i rapporti, X rispetto a Y rispetto a Z in diverse combinazioni; ingrandendo, restringendo, ruotando, cercando relazioni cicloidi meno grandi e meno ovvie di quelle più appariscenti… E notai una piccola gobba sinusoidale che tornava di continuo con le rotazioni dell’olo; e all’improvviso, senza un motivo comprensibile, decisi di togliere la curva dell’attività delle macchie solari. Eureka! Preciso e necessario come un vaso Ming! Prima di cena avevo l’equazione, un’unica riga che comprendeva tutti i dati cretini che avevo impiegato cinque giorni a estrarre dal terminale. Battei il numero del capo dello staff e trasmisi l’equazione, più le definizioni delle variabili. Non aggiunsi commenti, discussioni; volevo costringere il burlone senza nome a chiedere le mie opinioni. Ottenni la stessa risposta di sempre, cioè nessuna. Giocherellai quasi per un giorno intero, aspettando, dimostrando a me stessa che potevo richiamare una foto di gruppo di qualunque anno e indovinare con buona approssimazione, solo guardando i visi maschili e le gambe femminili, il prezzo dell’oro (cali e rialzi), il periodo della foto in relazione al doppio ciclo delle macchie solari; e (dopo un po’, il che mi sorprese più di tutto il resto) riuscii anche a indovinare se la struttura politica era in fase di consolidamento o disgregazione. Il mio terminale squillò. Nessun viso. Niente pacche sulle spalle. Solo un messaggio: — Si richiede al più presto un’analisi approfondita sulla possibilità che le epidemie di peste dei secoli sesto, quattordicesimo e diciassettesimo siano risultate da una cospirazione politica. Wow! Ero finita in un manicomio e adesso ero chiusa a chiave con i suoi ospiti. Al diavolo. Il problema era così complesso che per permettermi di studiarlo avrebbero dovuto lasciarmi in pace per un bel po’. La cosa mi stava bene. Ormai mi ero assuefatta alle possibilità del terminale di un computer coi fiocchi collegato a una rete di ricerca dati su scala mondiale; mi sentivo come Little Jack Horner. Cominciai con l’elencare, per libera associazione, tutti gli argomenti possibili: peste, epidemiologia, pulci, topi, Daniel Defoe, Isaac Newton, cospirazioni, Guy Fawkes, massoneria, iniziati, Cabala, Rosacroce, Kennedy, Oswald, John Wilkes Booth, Pearl Harbor, Berretti Verdi, influenza spagnola, contenimento territoriale della peste, eccetera. Tre giorni dopo, il mio elenco di possibili argomenti correlati alla domanda era dieci volte più lungo. Nel giro di una settimana sapevo che una vita non sarebbe bastata a studiare in profondità tutto il mio elenco. Però mi avevano detto di mettermi all’opera, così cominciai, dando comunque una mia definizione a «al più presto»: studiavo coscienziosamente per almeno cinquanta ore la settimana, ma come e quando volevo, senza farmi fretta o sentirmi assillata… A meno che non fosse arrivato qualcuno a spiegarmi perché avrei dovuto lavorare più sodo o in maniera diversa. La cosa continuò per settimane. Venni svegliata nel cuore della notte dal mio terminale. Chiamata d’emergenza; andando a letto (sola, non ricordo perché) lo avevo spento come al solito. Risposi insonnolita: — Va bene, va bene! Parla, e sarà meglio per te che il discorsetto sia robusto. Nessuna immagine. La voce di Boss disse: — Friday, quando si verificherà la prossima grande epidemia di Morte Nera? Risposi: — Fra tre anni. In aprile. Partirà da Bombay e si diffonderà immediatamente nel mondo. Uscirà dal pianeta con la prima nave. — Grazie. Buonanotte. Lasciai ricadere la testa sul cuscino e mi rimisi diritta a sognare. Mi svegliai alle sette in punto come sempre, restai immobile per diversi istanti e pensai, avvertendo un freddo sempre più forte; decisi che Boss mi aveva davvero chiamata nel mezzo della notte e che gli avevo dato quella risposta assurda. Quindi ingoia il rospo, Friday, e sali i Tredici Scalini. Premetti l’interno uno. — Friday, Boss. Invoco l’infermità mentale temporanea per quello che ti ho detto stanotte. — Idiozie. Ci vediamo alle dieci e quindici. Ero tentata di passare le tre ore seguenti nella posizione del loto, a intonare mantra. Ma nutro la profonda convinzione che non ci si debba presentare nemmeno alla Fine del Mondo senza una buona colazione… Una decisione più che giustificata, visto che i piatti speciali per quel mattino erano fichi freschi con panna, stufato di manzo sotto sale con uova in camicia, e tartine all’inglese con marmellata d’arancia Knott’s Berry Farm. Latte fresco. Caffè colombiano di montagna. Tutto questo migliorò talmente la situazione che passai un’ora a cercare un rapporto matematico fra la storia passata della peste e la data che si era affacciata nella mia mente obnubilata dal sonno. Non ne trovai nessuno, però cominciavo a vedere che la curva prendeva forma quando il terminale, che avevo programmato in precedenza, mi avvertì che mancavano tre minuti. Non mi ero fatta tagliare i capelli e rasare il collo, ma per il resto ero pronta. Mi presentai allo scoccare dell’ora. — Friday a rapporto, signore. — Siediti. Perché Bombay? Credevo che Calcutta fosse un epicentro più adatto. — Forse c’entrano le previsioni del tempo a lungo raggio e i monsoni. Le pulci non sopportano il caldo secco. L’ottanta per cento della massa corporea di una pulce è acqua, e se la percentuale scende al di sotto del sessanta, la pulce muore. Quindi i climi caldi e secchi fermeranno o impediranno un’epidemia. Però, Boss, questa faccenda non ha senso. Mi hai svegliata nel cuore della notte e mi hai fatto una domanda stupida e io ti ho dato una risposta stupida senza nemmeno svegliarmi. Probabilmente è uscita da un mio sogno. Ho avuto incubi sulla Morte Nera, e c’è stata davvero una brutta epidemia che è iniziata a Bombay. Milleottocentonovantasei e anni successivi. — Non brutta quanto la fase di Hong Kong, tre anni dopo. Friday, la sezione analisi delle Operazioni dice che la prossima epidemia di Morte Nera inizierà solo un anno dopo la tua previsione. E non a Bombay. A Giacarta e Ho Chi Minh City. — Assurdo! — Mi fermai subito. — Chiedo scusa, signore. Devo essere tornata a quell’incubo. Boss, non posso studiare qualcosa di più piacevole che pulci e topi e Morte Nera? Mi sto rovinando il sonno. — Concesso. Hai finito di studiare la peste… — Urrà! — …Almeno fin dove la tua curiosità intellettuale non ti spingerà a voler risolvere gli interrogativi in sospeso. Adesso la faccenda passa alle Operazioni per l’azione. Ma l’azione si baserà sulle tue previsioni, non su quelle degli analisti matematici. — Devo ripeterlo, la mia predizione è stupida. — Friday, il tuo più grande punto debole è non essere consapevole della tua vera forza. Non faremmo la figura dei cretini se ci affidassimo agli analisti professionisti e poi l’epidemia scoppiasse un anno prima, come hai predetto tu? Catastrofe. Invece partire con le misure profilattiche con un anno d’anticipo non farà alcun male. — Cercheremo di fermarla? — (Gli uomini hanno combattuto contro topi e pulci per tutta la loro storia. Per il momento, topi e pulci sono in vantaggio.) — Cielo, no! In secondo luogo, l’impresa sarebbe troppo grossa per questa organizzazione. Ma in primo luogo io non accetto incarichi che non posso portare a termine, come sarebbe questo. In terzo luogo, dal punto di vista strettamente umanitario, ogni tentativo di fermare i processi che permettono alle città sovraffollate di spurgarsi non è giusto. La peste è una brutta morte, però è veloce. Anche la morte per fame è brutta… ma è molto lenta. Boss fece una smorfia, poi continuò: — Questa organizzazione si limiterà al problema di impedire alla Pasteurella pestis di lasciare il pianeta. Come dobbiamo fare? Rispondi immediatamente. (Ridicolo! Il ministero della Sanità di qualunque governo, posto di fronte a un interrogativo del genere, organizzerebbe un gruppo di studio ben paludato, esigerebbe ampi fondi per la ricerca, e prevederebbe un tempo ragionevole, cinque anni o più, per l’accurata indagine scientifica.) Io risposi immediatamente: — Facciamole esplodere. — Le colonie spaziali? Mi sembra una soluzione drastica. — No, le pulci. All’epoca delle guerre globali del ventesimo secolo qualcuno scoprì che le pulci e i pidocchi si possono uccidere trasferendoli ad alta quota. Esplodono. Basta un’altitudine di cinque chilometri circa, se ricordo bene, ma si può controllare e verificare sperimentalmente. Mi è venuto in mente perché ho notato che la Piantadifagiolo di Monte Kenia si trova al di sopra della quota critica, e quasi tutto il traffico spaziale si serve delle Piantadifagiolo. Poi c’è il metodo più semplice del caldo secco. Funziona, ma è più lento. Comunque la chiave essenziale, Boss, è non fare assolutamente eccezioni. Un solo caso di immunità diplomatica, un Vip esonerato dalle misure standard, e siamo fritti. Un solo cagnolino. Un topolino. Una fornitura di animali per laboratorio. Se l’epidemia assumesse la forma polmonare, Elle-Cinque sarebbe una città fantasma in una settimana. O Luna City. — Se non avessi altro lavoro per te, ti metterei a capo dell’operazione. E per i topi? — Non voglio questo incarico. Ho la nausea. Boss, uccidere un topo non è un problema. Infilalo in un sacco. Picchia sul sacco con un’accetta. Poi sparagli. Poi affogalo. Brucia il sacco col topo morto dentro. Intanto sua moglie avrà svezzato un’altra cucciolata, e avrai una dozzina di topi al posto di quello che hai ucciso. Boss, coi topi al massimo siamo riusciti a frenarli un po’. Non abbiamo mai vinto. Se tirassimo il fiato un attimo, passerebbero in vantaggio loro. — Aggiunsi, cupa: — Penso siano la squadra di riserva. — Lo studio della peste mi aveva depressa. — Delucida. — Se l’Homo sapiens non ce la fa, e sta cercando in tutti i modi di eliminarsi da solo, i topi sono pronti a prendere il timone. — Balle. Sciocchezze nevrotiche. Friday, tu enfatizzi troppo il desiderio umano di morire. Da generazioni abbiamo i mezzi per commettere il suicidio razziale, e quei mezzi sono oggi e sono stati in molte mani. Non ci siamo suicidati. In secondo luogo, per sostituirci i topi dovrebbero farsi crescere crani enormemente più grandi, sviluppare corpi che li sostengano, imparare a camminare su due zampe, trasformare le zampe anteriori in delicati organi di manipolazione, e far crescere altra corteccia cerebrale per controllare il tutto. Per sostituire l’uomo, un’altra razza deve diventare l’uomo. Bah. Lascia perdere. Prima di abbandonare l’argomento della peste, a che conclusioni sei arrivata sulla teoria della cospirazione? — È un’idea balorda. Hai indicato specificamente sesto, quattordicesimo e diciassettesimo secolo, il che significa navi o carovane in grado di spostarsi e nessuna conoscenza di batteriologia. Prendiamo il nostro sinistro dottor Fu Manchu. Se ne sta chiuso nel suo nascondiglio, alleva un milione di topi, e tutti i topi sono infetti dal bacillo; anche senza conoscenze teoriche, ammettiamolo. Ma come fa a colpire la città che ha scelto per bersaglio? Via mare? In pochi giorni i suoi milioni di topi sarebbero morti, assieme all’equipaggio della nave. Via terra sarebbe ancora più difficile. Portare avanti una cospirazione del genere in quei secoli richiederebbe la scienza moderna e una macchina del tempo gigante. Boss, chi ha partorito quella stupida domanda? — Io. — Mi pareva che avesse il tuo tocco. Perché? — Ti ha spinta a studiare l’argomento con un’angolazione molto ampia. Se no non lo avresti fatto, giusto? — Uh… — Avevo trascorso molto più tempo a studiare i fatti storici significativi che la malattia in sé. — Suppongo di sì. — Lo sai. — Okay, sì. Però guarda, Boss, non esiste una cospirazione ben documentata. A volte sono anche troppo ben documentate, solo che i documenti si contraddicono a vicenda. Se una cospirazione si è verificata un po’ di tempo fa, una generazione fa o più, diventa impossibile stabilire la verità. Hai mai sentito parlare di un certo John F. Kennedy? — Sì. Capo di stato, alla metà del ventesimo secolo, della Federazione che all’epoca occupava il territorio fra il Canada, il Canada Britannico e il Québec, e il Regno Messicano. Lo hanno assassinato. — Esatto. È stato ucciso davanti a centinaia di testimoni, e ogni aspetto dell’omicidio, prima, durante e dopo, è abbondantemente documentato. Una montagna di documenti che si riassume in questo: nessuno sa chi gli abbia sparato, in quanti gli abbiano sparato, quante volte, chi sia stato, perché, e chi fosse coinvolto nella cospirazione, se esisteva una cospirazione. Non è nemmeno possibile stabilire se le fila dell’omicidio fossero rette dall’esterno o dall’interno. Boss, se è impossibile sbrogliare una matassa così recente e indagata tanto a fondo, che possibilità ci sono di decifrare nei dettagli la cospirazione che ha ucciso Caio Giulio Cesare? O di svelare il mistero di Guy Fawkes e della Congiura delle Polveri? L’unica cosa che si può dire è che i vincitori scrivono le versioni ufficiali che si trovano nei libri di storia, una storia che non è più onesta di un’autobiografia. — Friday, di solito l’autobiografia è onesta. — Wow! Boss, cosa hai fumato di recente? — Basta così. In genere l’autobiografia è onesta ma non è mai veritiera. — Mi è sfuggito qualcosa. — Pensaci. Friday, oggi non posso dedicarti altro tempo. Chiacchieri troppo e cambi spesso argomento. Frena la lingua mentre ti dico alcune cose. D’ora in poi sei assegnata in permanenza al lavoro di staff. Stai invecchiando; senza dubbio i tuoi riflessi sono un poco più lenti. Non rischierò più la tua vita in missioni operative… — Non mi sono mai lamentata! — Chiudi il becco. Però non devi diventare sedentaria. Passa meno tempo alla consolle e più tempo in esercizi fisici. Arriverà il giorno che i tuoi riflessi super ti salveranno un’altra volta la vita. E forse salveranno anche le vite degli altri. Nel frattempo, pensa al giorno in cui dovrai strutturare la tua vita senza alcuna assistenza. Dovresti lasciare questo pianeta. Qui per te non c’è niente. La balcanizzazione del Nord America ha posto fine all’ultima possibilità di invertire il degrado della civiltà rinascimentale. Quindi dovresti riflettere su diverse possibilità planetarie, non solo all’interno del sistema solare ma altrove. Pianeti che vanno dal molto primitivo al ben civilizzato. Per ognuno d’essi studia il costo e i vantaggi di un’eventuale emigrazione. Ti serviranno soldi. Vuoi che i miei agenti recuperino il denaro di cui sei stata derubata in Nuova Zelanda? — Come sai che mi hanno derubata? — Andiamo, andiamo! Non siamo mica bambini. — Posso pensarci? — Sì. Per quanto riguarda la tua emigrazione, ti raccomando di non trasferirti sul pianeta Olympia. Per il resto non ho consigli particolari, a parte quello di emigrare. Quando ero più giovane credevo di poter cambiare il mondo. Oggi non lo credo più, ma per ragioni emotive devo continuare la mia battaglia di resistenza. Tu invece sei giovane, e in forza della tua origine unica, singolare, i tuoi legami emotivi con questo pianeta e questa parte di umanità non sono grandi. Non ho potuto parlarne prima che tu spezzassi i tuoi rapporti sentimentali in Nuova Zelanda… — Non li ho spezzati. Mi hanno cacciata a calci in culo! — Come vuoi. Intanto che decidi, guardati la parabola del fischietto di Benjamin Franklin, poi sappimi dire… no, chiedilo a te stessa… se non hai pagato troppo per il tuo fischietto. Adesso basta. Ho due incarichi per te. Studia il complesso di società Shipstone, compresi i collegamenti al di fuori del complesso vero e proprio. Secondo, la prossima volta che ci vediamo voglio che tu mi dica esattamente da cosa si individua una cultura malata. È tutto. Boss spostò l’attenzione sulla consolle, così mi alzai. Ma non ero pronta ad accettare un congedo tanto brusco; non ero riuscita a fargli domande importanti. — Boss. Non ho compiti precisi? Solo studi casuali che non vanno da nessuna parte? — Vanno da qualche parte. Sì, hai compiti precisi. Primo, studiare. Secondo, essere svegliata nel cuore della notte, o fermata in corridoio, per domande stupide. — Solo questo? — Cosa vuoi? Angeli e trombe? — Be’… Un titolo professionale, magari. Prima ero un corriere. Adesso cosa sono? Il buffone di corte? — Friday, stai sviluppando una mentalità burocratica. Titolo professionale. Molto bene. Sei analista intuitivo e farai rapporto solo a me. Però il titolo comporta un’ingiunzione. Ti è proibito discutere di qualcosa di più serio di una partita a carte con qualunque membro della sezione analisti del nostro staff. Dormici pure assieme, se vuoi… so che lo hai fatto, in due casi… ma limita la conversazione ai luoghi comuni più banali. — Boss, a volte vorrei che tu passassi meno tempo sotto il mio letto! — Solo quanto basta per proteggere l’organizzazione. Friday, sai benissimo che l’attuale mancanza di Occhi e Orecchie significa solo che sono nascosti. Stai certa che per proteggere l’organizzazione non mi vergogno di nulla. — Tu non ti vergogni di nulla in assoluto. Boss, rispondi a un’altra domanda. Chi c’è dietro il Giovedì Rosso? La terza ondata si è evaporata. Ce n’è stata una quarta? Cos’è tutta questa faccenda? — Studiala da te. Se te lo dicessi, non sapresti. Avresti sentito una risposta e basta. Studiala attentamente e una di queste notti, quando dormirai sola, te lo chiederò. Tu mi risponderai, e allora saprai. — Cristo santo. Lo sai sempre quando dormo da sola? — Sempre. — Aggiunse: — In libertà — e girò la testa. 23 Lasciando la sancta sanctorum, mi imbattei in Blondie che entrava. Mi sentivo incazzata e mi limitai ad annuire. Non ce l’avevo con Blondie. Con Boss! Accidenti a lui. Voyeur spocchioso e arrogante! Rientrai nella mia stanza e mi misi al lavoro, per smetterla con la rabbia. Dapprima chiesi i nomi e gli indirizzi di tutte le società della Shipstone. Mentre il computer le stampava, richiesi le storie del complesso industriale. Il computer ne citò due: una storia ufficiale della società mescolata a una biografia di Daniel Shipstone, e una storia non ufficiale etichettata «spazzatura». Poi la macchina suggerì svariate altre fonti. Dissi al terminale di stampare i due libri e chiesi gli stampati di altre fonti che non superassero le ventimila battute; se le superavano, bastava un riassunto. Poi guardai l’elenco delle società. Eredi Daniel Shipstone, Inc. Muriel Shipstone Memorial-Laboratorio di Ricerche Shipstone Tempe Shipstone Gobi Shipstone Sahara Shipstone Mai-Mai Shipstone Elle-Quattro Shipstone Elle-Cinque Shipstone Stazionaria Shipstone Tycho Shipstone Ares Shipstone Abissi Sears-Montgomery, Inc. Shipstone Aden Shipstone Africa Shipstone Valle della Morte Shipstone Karoo Coca-Cola Interworld Viaggi Società Colonie Sistemi Esterni Riserva Naturale Wolf Creek Pass Shipstone Unlim., Ltd. Fondazione Prometeo Scuola Billy Shipstone per Bambini Handicap. Piantadifagiolo Inc. Morgan Associates Riserva Naturale Ano Nuevo Museo & Scuola Shipstone di Arti Visive Scrutando la lista, non ebbi problemi a frenare l’entusiasmo. Sapevo che il complesso Shipstone doveva essere grande: chi non ha a portata di mano cinque o sei Shipstone, per non parlare dei più grossi in cantina o nel seminterrato? Ma adesso mi pareva che studiare quel mostro avrebbe richiesto una vita di lavoro. E l’argomento non mi interessava troppo. Mi stavo aggirando ai margini della faccenda quando Blondie fece un salto da me e mi disse che era l’ora della biada. — E ho l’ordine di controllare che tu non passi più di otto ore al giorno davanti al terminale, e per di più ogni settimana devi prenderti un intero weekend. — Ah. Vecchio tiranno bastardo. Ci avviammo in mensa. — Friday… — Sì, Blondie? — Tu trovi il Padrone bisbetico e a volte difficile. — Correzione. È sempre difficile. — Mmm, sì. Ma quello che forse non sai è che soffre di continuo. — Aggiunse: — Non può più prendere farmaci per controllare il Colore. Camminammo in silenzio, mentre io masticavo e inghiottivo l’informazione. — Blondie, cosa ha? — Niente, in effetti. Direi che è in buona salute… Per la sua età. — Quanti anni ha? — Non lo so. Da quello che ho sentito so che ha più di cento anni. Quanti di più non saprei immaginarlo. — Oh, no! Blondie, quando ho cominciato a lavorare per lui non poteva averne più di settanta. Sì, usava già i bastoni, ma era molto agile. Svelto come tutti gli altri. — Be’, non è una cosa importante. Però cerca di ricordarti che soffre. Se ti tratta male, è il suo dolore che parla. Ha un’opinione altissima di te. — Cosa te lo fa pensare? — Ah… Ho parlato troppo del mio paziente. Mangiamo. Studiando il complesso industriale Shipstone non tentai di studiare gli Shipstone. Il modo, l’unico modo per studiarli sarebbe stato tornare a scuola, prendere una laurea in fisica, aggiungere un intenso dottorato di ricerca sullo stato solido e sul plasma, trovare un impiego in una delle aziende Shipstone e fare talmente colpo con la mia lealtà e il mio ingegno da essere ammessa, dopo chissà quanto, nei circoli esclusivi che controllano produzione e standard qualitativi. Siccome tutto ciò significava una ventina d’anni, e visto che non avevo intrapreso quella carriera da ragazzina, partii dal presupposto che Boss non avesse in mente per me quella rotta. Quindi, permettetemi di citare dalla storia ufficiale, ovvero dalla propaganda: Prometeus, Breve Biografia e Sommario Resoconto dellie Incomparabili Scoperte di Daniel Thomas Shipstone, B.S., MA.; Ph.D., LL.D., L.H.D., e del Benevolo Sistema da Lui fondato. …E così il giovane Daniel Shipstone vide immediatamente che il problema non era la scarsezza d’energia, ma stava nel trasporto dell’energia. L’energia è in ogni dove: nella luce del sole, nel vento, nei fiumi di montagna, nei gradienti di temperatura di ogni tipo ovunque essi siano, nel carbone, nel petrolio, nei giacimenti radioattivi, nelle cose verdi che crescono. Soprattutto negli abissi oceanici e nello spazio esterno l’energia è liberamente disponibile in quantità che vanno oltre ogni comprensione umana. Chi parlava di «scarsezza dell’energia» e di «risparmiare energia» semplicemente non capiva la situazione. Dal cielo «pioveva manna»; occorreva soltanto un secchio per raccoglierla. Con l’incoraggiamento della devota moglie Muriel (nata Greentree), che tornò a lavorare per non far mancare il cibo sulla tavola, il giovane Shipstone diede le dimissioni dalla General Atomics e divenne il più americano degli eroi mitici, l’inventore che fa tutto in cantina. Sette faticosi e frustranti anni più tardi aveva fabbricato di propria mano il primo Shipstone. Aveva trovato… Quello che aveva trovato era il modo per immagazzinare più kilowatt-ora in uno spazio più piccolo e in una massa più piccola di quelli mai sognati da ogni altro ricercatore. Definirlo una «batteria migliorata» (qualcuno lo aveva fatto, i primi tempi) è come definire una bomba H un «fuoco d’artificio migliorato». Ciò che Shipstone aveva realizzato era la distruzione totale della maggiore industria (a parte la religione organizzata) del mondo occidentale. Per ciò che accadde dopo devo attingere dalla «spazzatura» e da altre fonti indipendenti, perché non credo alla versione dolce e smielata offerta dalla società. Eccovi un discorso ipotetico attribuito a Muriel Shipstone: — Ragazzo mio, tu non lo brevetterai. Cosa otterresti? Diciassette anni d’esclusiva al massimo… e nemmeno un anno nei tre quarti del globo. Se lo brevettassi o cercassi di farlo, la Edison, la P.G. and E., la Standard ti legherebbero le mani con ingiunzioni e cause e sosterrebbero che hai infranto i loro brevetti e non so che altro. Ma hai detto tu stesso che potresti mettere uno dei tuoi aggeggi in una stanza col miglior gruppo di ricercatori che la G.A. possa mettere assieme, e al massimo potrebbero fonderlo e nel peggiore dei casi finirebbero per saltare in aria. Lo hai detto tu. Parlavi sul serio? — Certo. Se non sanno in che modo inserisco il… — Zitto! Non voglio saperlo. E i muri hanno orecchie. Non faremo nessuna strombazzata d’annuncio. Cominceremo semplicemente a produrre. Nel posto dove oggi l’energia costa meno. Qual è questo posto? L’autore della spazzatura se la prendeva in continuazione col «monopolio crudele e spietato» esercitato dal complesso Shipstone a danno delle necessità basilari della «povera gente di ogni luogo». Io non riuscivo a vederla così. La Shipstone e le sue industrie avevano solo reso abbondante ed economico ciò che prima era scarso e caro; questo sarebbe «crudele» e «spietato»? Le industrie Shipstone non hanno il monopolio dell’energia. Non posseggono carbone o petrolio o uranio o acqua. Hanno in affitto molti, molti acri di terreno deserto… Ma esistono ancora parecchi deserti che la Shipstone non sfrutta e dove nessuno raccoglie la luce del sole. In quanto allo spazio, è impossibile intercettare anche solo l’uno per cento di tutta la luce solare che va sprecata all’interno dell’orbita lunare, impossibile per un fattore di molti milioni. Fate i conti voi stessi, se no non crederete mai alla risposta. Allora qual è il loro delitto? È un duplice delitto. a) Le aziende Shipstone sono colpevoli di fornire energia alla razza umana a prezzi inferiori a quelli dei loro concorrenti. b) In modo malvagio e antidemocratico, si rifiutano di divulgare il segreto industriale sullo stadio finale d’assemblaggio di uno Shipstone. Quest’ultimo, agli occhi di molta gente, è un delitto capitale. Il mio terminale scavò fuori parecchi editoriali sul «diritto di tutti di sapere», altri sulla «insolenza dei monopoli giganti», e ulteriori manifestazioni di sacrosanta indignazione. Il complesso Shipstone è un mammut, vero, perché fornisce energia economica a miliardi di persone che vogliono energia economica e ne vogliono sempre di più ogni anno. Ma non è un monopolio perché non possiede l’esclusiva sull’energia; si limita a impacchettarla e a spedirla ovunque sia richiesta. Quei miliardi di clienti potrebbero mandare in bancarotta il complesso Shipstone praticamente da un giorno all’altro, se tornassero alle vecchie tecniche: «bruciare» uranio, distribuire energia lungo canali in rame e alluminio lunghi interi continenti e/o lunghi treni e lunghe carovane di camion cariche di carbone. Però nessuno, a quanto accertò il mio terminale, vuole tornare ai brutti vecchi giorni quando il paesaggio era sfigurato in un’infinità di modi e l’aria stessa era carica di fetori e agenti cancerogeni e depositi, e gli ignoranti avevano una fifa matta dell’energia nucleare, e tutta l’energia era scarsa e costosa. No, nessuno vuole i vecchi brutti metodi; anche i critici più radicali vogliono un’energia economica e facilmente disponibile… Solo vorrebbero che le aziende Shipstone togliessero il disturbo e andassero a farsi friggere. «Il diritto di tutti di sapere»: il diritto di sapere cosa? Daniel Shipstone, armatosi di robuste conoscenze di matematica superiore e fisica, si è infilato in cantina e ha sopportato pazientemente sette anni di vacche magre e difficoltà, e così ha imparato ad applicare nella pratica un aspetto delle leggi naturali che gli ha permesso di costruire uno Shipstone. Chiunque, ovunque e sempre, è libero di fare come lui; Daniel Shipstone non chiese nemmeno un brevetto. Le leggi naturali sono liberamente disponibili a tutti quanti, compresi i Neanderthal mangiati vivi dalle pulci che si accoccolavano assieme per vincere il freddo. In questo caso, il guaio del «diritto di tutti di sapere» è che somiglia moltissimo al «diritto» di chi vuole diventare un virtuoso del piano senza fare gli esercizi. Però io nutro pregiudizi: non sono umana e non ho mai avuto diritti. Che preferiate la versione alla saccarina della società o la versione al vetriolo della spazzatura, le realtà basilari su Daniel Shipstone e sul complesso Shipstone sono ben note e al di là di ogni discussione. Ciò che mi sorprese (anzi, che mi scioccò) fu quello che scoprii quando iniziai a scavare fra proprietà, consigli d’amministrazione e direzioni. Il primo vero sospetto mi venne da quello stampato iniziale, quando vidi quali aziende facevano parte del gruppo Shipstone senza avere la dizione «Shipstone» nel proprio nome. Se fai una pausa per una Coca… è la Shipstone che te la vende! Ian mi aveva detto che era stata la Interworld a ordinare la distruzione di Acapulco: il che significa che sono stati gli amministratori del patrimonio di Daniel Shipstone a ordinare l’omicidio di un quarto di milione di persone innocenti? Possono essere gli stessi individui che dirigono il miglior ospedale/scuola per bambini handicappati del mondo? E la Sears-Montgomery… Campane dell’inferno, io stessa posseggo qualche azione della Sears-Montgomery. Allora divido, per concatenazione, una parte di responsabilità nella strage di Acapulco? Programmai la macchina per indicarmi quali rapporti esistessero fra le varie direzioni del complesso Shipstone, e poi quali direzioni di altre compagnie fossero in mano ai dirigenti delle compagnie Shipstone; e i risultati furono così incredibili che chiesi al computer di elencarmi tutti i proprietari dell’uno per cento o più di azioni con diritto di voto di tutte le compagnie Shipstone. Trascorsi i tre giorni successivi ad affrontare e risistemare la grande massa di dati che giunse in risposta a quelle due domande, e a cercare modi migliori per riorganizzarla. Alla fine del periodo scrissi le mie conclusioni. a) Il complesso Shipstone è un’unica compagnia. Si limita a sembrare ventotto compagnie diverse. b) I dirigenti e/o azionisti della Shipstone posseggono o controllano tutto ciò che ha maggiore importanza in tutte le maggiori azioni territoriali del sistema solare. c) La Shipstone è potenzialmente un governo a livello planetario (a livello di sistema solare?). In base ai dati non sapevo dire se agisse come tale o meno, perché il controllo (ammesso che esistesse) sarebbe stato esercitato da enti che nominalmente non facevano parte dell’impero Shipstone. d) Mi faceva una paura matta. Qualcosa che avevo notato nella Morgan Associates, una delle compagnie Shipstone, mi spinse a una ricerca sulle aziende di credito e sulle banche. Non mi sorprese (ma mi depresse) scoprire che l’azienda che al momento mi concedeva credito, la MasterCard della California, era in effetti la stessa azienda che garantiva i miei pagamenti, la Ceres & South Africa Acceptances; e questo si ripeteva sempre, si trattasse della Maple Leaf, della Visa, del Crédit Québec, o di che altro. Non è una cosa nuova; i teorici fiscali l’hanno predicata da tempi immemorabili. Ma mi centrò in pieno quando la vidi esemplificata in termini di direzioni coincidenti e comproprietà multiple. D’impulso, chiesi improvvisamente al computer: — Chi ti possiede? Ottenni in risposta: — Programma nullo. Diedi un’altra forma alla frase, seguendo con estrema cura la lingua della macchina. Il computer rappresentato da quel terminale era molto indulgente e intelligente; di solito non sottilizzava su programmi non troppo formali. Però esistono limiti a quello che ci si può aspettare dalla comprensione che una macchina ha del linguaggio verbale; una domanda impegnativa come quella richiedeva forse esattezza semantica. Di nuovo: — Programma nullo. Decisi di girare attorno all’idea. Posi la domanda che segue procedendo passo per passo in perfetto accordo col linguaggio del computer, la grammatica del computer, il protocollo del computer: — Di chi è la proprietà della rete di informazioni ed elaborazione dati che ha terminali in tutto il Canada Britannico? La risposta apparve e lampeggiò diverse volte prima di sparire; e sparì senza un mio ordine. — I dati richiesti non sono presenti nelle banche della memoria. Questo mi spaventò. Per quel giorno smisi e andai a nuotare e mi cercai un amico che venisse a letto con me quella notte, senza aspettare che qualcuno me lo chiedesse. Non ero ipereccitata, ero ipersola, e desideravo ardentemente un corpo caldo e vivo vicino al mio che mi «proteggesse» da una macchina intelligente che si rifiutava di dirmi chi (cosa) fosse in realtà. Il giorno dopo, a colazione, Boss mi mandò a dire che voleva vedermi alle dieci e zero zero. Mi presentai, leggermente perplessa, perché a mio giudizio non avevo avuto abbastanza tempo per portare a termine i due incarichi: la Shipstone, e i tratti distintivi di una cultura malata. Ma quando entrai, lui mi tese una lettera, una lettera di vecchio tipo, chiusa in una busta e consegnata manualmente, come la spazzatura pubblicitaria. La riconobbi, perché l’avevo inviata io a Janet e Ian. Ma mi sorprese vederla in mano a Boss: l’indirizzo del mittente era falso. Guardai e vidi che era stata reindirizzata a uno studio legale di San José, quello che mi era servito da contatto per ritrovare Boss. — Capperi. — Puoi restituirmela e io la spedirò al capitano Tormey… Appena saprò dov’è. — Quando saprai dove sono i Tormey, scriverò una lettera molto diversa. Questa è una specie di sparo nel buio. — Uno sparo pregevole. — L’hai letta? — (Accidenti a te, Boss!) — Leggo tutto quello che deve essere inoltrato al capitano e alla signora Tormey, e al dottor Perreault. Dietro loro richiesta. — Vedo. — (Nessuno mi dice mai un accidenti di niente!) — L’ho scritta a quel modo, con l’indirizzo falso e tutto il resto, perché poteva aprirla la polizia di Winnipeg. — Lo avrà fatto senz’altro. Ritengo che tu abbia coperto la realtà in modo accettabile. Mi spiace di non averti informata che tutta la posta spedita al loro indirizzo sarebbe stata inviata a me. Ammesso che la polizia rispedisca davvero tutto. Friday, non so dove siano i Tormey, però ho un contatto che potrei usare… Una volta sola. Il piano è di usarlo quando la polizia lascerà cadere ogni accusa contro di loro. Mi aspettavo che succedesse settimane fa. Non è accaduto. Dal che concludo che la polizia di Winnipeg nutre intenzioni molto serie di addebitare la scomparsa del tenente Dickey ai Tormey, accusandoli di omicidio. Lascia che te lo chieda un’altra volta. Quel corpo si può ritrovare? Mi concentrai, cercando di applicare l’ottica del «peggiore dei casi». Se la polizia avesse fatto irruzione nella casa, cosa avrebbe trovato? — Boss, la polizia è già entrata in casa? — Certo. L’hanno perquisita il giorno dopo la scomparsa dei proprietari. — In questo caso, la polizia non ha trovato il cadavere il mattino del giorno che mi sono presentata qui. Se lo avessero trovato allora o in seguito, tu lo sapresti? — Lo ritengo probabile. Le mie linee di comunicazione con la centrale di polizia sono meno che perfette, ma pago parecchio per informazioni fresche. — Sai che fine hanno fatto gli animali? Quattro cavalli, una gatta e cinque micini, un maiale, forse altre bestie? — Friday, a cosa ti sta portando la tua intuizione? — Boss, non so esattamente in che modo sia nascosto il cadavere. Però Janet, la signora Tormey, è un architetto specializzato in sistemi di difesa attivi a doppio livello. Ciò che ha fatto degli animali mi direbbe se secondo lei esiste o no la minima probabilità che qualcuno possa scoprire il cadavere. Boss prese un appunto. — Ne discuteremo in seguito. Quali sono i tratti distintivi di una cultura malata? — Boss’, santo cielo! Sto ancora imparando le reali dimensioni del complesso Shipstone. — Non ne imparerai mai le reali dimensioni. Ti ho affidato due incarichi in un colpo solo perché potessi riposarti la mente cambiando argomento. Non dirmi che non hai nemmeno pensato al secondo incarico. — Ci ho pensato, ma poco di più. Ho letto Gibbon e studiato la rivoluzione francese. E poi Dallo Yalu al precipizio di Smith. — Un saggio molto erudito. Leggiti anche Gli ultimi giorni della dolce terra della libertà di Penn. — Sì, signore. Ho cominciato a prendere note. È un brutto segno quando gli abitanti di una nazione smettono di identificarsi con la nazione e iniziano a identificarsi con un gruppo. Un gruppo razziale. O una religione. O una lingua. Qualunque cosa, se non tocca l’intera popolazione. — Un pessimo segno. Particolarismo. Un tempo era considerato un vizio spagnolo, ma qualunque paese se ne può ammalare. — Non conosco la Spagna. La predominanza dei maschi sulle femmine dovrebbe essere uno dei sintomi. Immagino che sarebbe vero anche il contrario, ma in tutta la storia che ho consultato non mi sono mai imbattuta nel caso opposto. Perché, Boss? — Dimmelo tu. Continua. — Da quanto ho sentito finora, prima che una rivoluzione possa verificarsi, la popolazione deve perdere fiducia sia nella polizia sia nei tribunali. — Elementare. Procedi. — Be’… L’alto livello di tassazione è importante, come l’inflazione monetaria e il rapporto numerico fra individui produttivi e dipendenti pubblici. Ma questa è aria fritta. Lo sanno tutti che un paese è conciato male quando entrate e uscite non sono in pareggio e non ti tornano più, anche se si compie sempre un’infinità di tentativi per pareggiare i conti a furia di leggi. Però ho cominciato a cercare piccoli segni, segni insignificanti. Per esempio, lo sapevi che qui è contro la legge starsene nudi al di fuori di casa propria? Anche in casa, se c’è qualcuno che può vederti. — Una norma piuttosto difficile da far rispettare, suppongo. Che significato ci vedi? — Oh, non viene fatta rispettare. Ma non si può nemmeno abrogare. La Confederazione è piena di leggi simili. Secondo me, ogni norma legale che non venga fatta rispettare e non si possa far rispettare indebolisce tutte le altre. Boss, lo sapevi che la Confederazione Californiana sovvenziona le prostitute? — Non me n’ero accorto. A che pro? Per le forze armate? Per la popolazione di carcerati? O come servizio pubblico? Confesso una certa sorpresa. — Oh, no, non è affatto così! Il governo le paga perché tengano le gambe chiuse. Per toglierle dalla piazza. Vengono addestrate, diplomate, esaminate, e immagazzinate. Solo che non funziona. Le artiste dell’arte amatoria che hanno diritto al sussidio incassano l’assegno, e poi tornano a battere. Invece non dovrebbero farlo nemmeno per proprio piacere, perché danneggiano il mercato delle prostitute non sovvenzionate. Così il sindacato delle prostitute, che inizialmente aveva portato avanti la legge per acquistare peso, adesso sta cercando di creare un sistema di controlli per tappare i buchi della legislazione. E non funzionerà nemmeno questo. — Perché non funzionerà, Friday? — Boss, le leggi che vogliono far tornare indietro la marea che sale non funzionano mai. È quello che diceva re Canuto. Lo saprai, no? — Volevo accertarmi che lo sapessi tu. — Penso di essere stata insultata. Ho trovato una ciliegina. Nella Confederazione Californiana è contro la legge rifiutare credito a una persona solo perché la persona ha subito una bancarotta. Il credito è un diritto civile. — Immagino che nemmeno questo funzioni, ma cosa succede se qualcuno non osserva la legge? — Non ho ancora indagato, Boss. Però penso che uno straccione che voglia corrompere un giudice si trovi in svantaggio. Voglio menzionare uno dei sintomi ovvi: la violenza. Le rapine. I cecchini. Gli incendi dolosi. Le bombe. Il terrorismo di ogni tipo. Le sommosse, ovviamente; ma sospetto che i piccoli episodi di violenza, quelli che colpiscono i cittadini giorno dopo giorno, danneggino una cultura ancora più delle sommosse popolari che divampano all’improvviso e poi si spengono. Per il momento è tutto. Oh, coscrizioni e schiavitù e atti di forza di ogni tipo da parte del governo e incarcerazione senza cauzione e senza processi veloci… Ma queste cose sono ovvie. Tutti i testi di storia ne parlano. — Friday, credo ti sia sfuggito il sintomo più allarmante in assoluto. — Davvero? Me lo dici tu? Oppure dovrò brancolare nel buio per cercarlo? — Mmm. Per questa volta te lo dirò. Però poi devi essere tu a cercarlo. Studialo. Le culture malate mostrano lo stesso complesso di sintomi che tu hai descritto… ma una cultura moribonda mostra sempre la cattiveria a livello personale. Le cattive maniere. La mancanza di rispetto per gli altri persino nelle piccole cose. La scomparsa della cortesia, delle buone maniere, è più significativa di una sommossa. — Sul serio? — Puah! Dovevo costringerti a scavarlo fuori da sola, così lo sapresti. Il sintomo è serio soprattutto perché l’individuo che lo sfoggia non lo considera mai un segno di cattiva salute, ma anzi un indice della propria forza. Cercalo. Studialo. Friday, è troppo tardi per salvare questa cultura. La cultura di tutto questo mondo, non solo il carrozzone balordo della California. «Quindi dobbiamo preparare i monasteri per l’Era Oscura che si avvicina. Le registrazioni elettroniche sono troppo fragili. Dobbiamo avere di nuovo libri, con inchiostri stabili e carta resistente. Ma questo potrebbe non bastare. Forse il serbatoio da cui attingerà il prossimo rinascimento dovrà venire da oltre il cielo.» Boss s’interruppe, respirò affannosamente. — Friday… — Sì, signore? — Memorizza questo nome e indirizzo. — Le sue mani si mossero sulla consolle; la risposta apparve su uno schermo in alto. Io memorizzai. — Fatto? — Sì, signore. — Devo ripetere per controllare? — No, signore. — Sei sicura? — Se vuoi, ripeti. — Mmm. Friday, saresti così gentile da versarmi una tazza di tè prima di andartene? Vedo che oggi le mie mani non sono troppo salde. — Sarà un piacere, signore. 24 Né Blondie né Anna si fecero vive il giorno dopo a colazione. Mangiai da sola, quindi piuttosto in fretta; mi attardo sul cibo solo quando sono in compagnia. Tanto meglio, comunque, perché avevo appena finito e mi stavo alzando quando dall’impianto di altoparlanti uscì la voce di Anna. — Attenzione, prego. Ho il triste incarico di annunciarvi che nel corso della notte il nostro Presidente è spirato. Per suo desiderio non vi sarà cerimonia funebre. Il corpo è stato cremato. Alle nove e zero zero, nella sala riunioni principale, si terrà una riunione per chiudere gli affari dell’agenzia. Tutti sono pregati di partecipare e di presentarsi in orario. Fino alle nove passai il tempo a piangere. Perché? Provavo tristezza per me stessa, suppongo. Sono certa che Boss l’avrebbe pensata così. Lui non provava tristezza per sé, nemmeno per me, e mi ha rimproverata più di una volta per la mia tendenza ad autocommiserarmi. L’autocommiserazione, diceva, è il più demoralizzante di tutti i vizi. In ogni caso, ero triste per me stessa. Avevo sempre litigato con lui, anche tanto tempo prima quando mi aveva affrancata, rendendomi una Persona Libera dopo che ero scappata. Mi trovai a rimpiangere ogni volta che gli avevo dato una rispostaccia, che ero stata impudente, che lo avevo insultato. Poi mi tornò in mente che non sarei piaciuta a Boss se fossi stata un verme, una creatura servile senza opinioni mie. Lui doveva essere ciò che era e io dovevo essere ciò che ero ed eravamo vissuti insieme per anni in stretto contatto senza mai, nemmeno una volta, carezzarci la mano. Per Friday è un record. Un record che non m’interessa battere. Chissà se anni addietro, all’inizio del mio rapporto di lavoro con lui, Boss sapeva con quanta facilità gli sarei saltata in braccio se mi avesse invitata. Probabilmente lo sapeva. Il fatto è, anche se non sono mai arrivata a toccargli una mano, che lui è stato l’unico padre che io abbia mai avuto. La grande sala riunioni era affollata. In mensa non avevo mai visto nemmeno metà di quella gente, e alcune facce mi erano sconosciute. Conclusi che qualcuno era stato richiamato da fuori ed era riuscito ad arrivare in tempo. A un tavolo in fondo alla sala, Anna sedeva come una perfetta estranea. Anna aveva cartelle di documenti, una serie imponente di terminali, e attrezzature da segretaria. La sconosciuta era più o meno della stessa età di Anna, però al posto del suo calore aveva un’espressione da cerbero incattivito. Alle nove e due secondi la sconosciuta batté forte sul tavolo. — Silenzio, per favore! Sono Rhoda Wainwright, vicepresidente effettivo di questa agenzia e avvocato fiduciario del defunto dottor Baldwin. Attualmente sono presidente pro tempore e liquidatore per la chiusura delle attività. Sapete tutti che ognuno di voi era legato a questa agenzia da un contratto che lo impegnava personalmente col dottor Baldwin… Avevo mai firmato un contratto simile? Ero molto perplessa da quel «defunto dottor Baldwin». Era il vero nome di Boss? E come mai il suo cognome coincideva col mio più comune nom de guerre? Me lo aveva scelto lui? Era passato tanto tempo. — …Dato che ora siete tutti liberi agenti. Siamo un’organizzazione d’élite e il dottor Baldwin aveva previsto che ogni agenzia del Nord America avrebbe voluto arruolare personale fra i vostri ranghi, dopo che la sua morte vi avesse liberati. Ci sono agenti reclutatori in tutte le sale riunioni più piccole e nell’atrio. Quando chiamerò il vostro nome venite qui a prendere il vostro pacchetto e firmate. Esaminatelo immediatamente ma non, ripeto non, fermatevi a questo tavolo per cercare di discuterne. Per discutere dovrete aspettare che tutti gli altri abbiano ricevuto il loro pacchetto. Vi prego di ricordare che sono rimasta sveglia tutta la notte… Entrare subito al servizio di un’altra agenzia? C’ero costretta? Ero in miseria? Probabilmente sì, a parte quello che restava dei duecentomila orsi vinti a quella stupida lotteria; e con ogni probabilità dovevo il grosso di quella cifra a Janet o alla sua carta Visa. Vediamo, avevo vinto 203,4 grammi d’oro, depositati presso la MasterCard come 200.000 orsi, ma accreditati in oro in base al cambio di quel giorno. Avevo ritirato 36 grammi in contanti e… Ma dovevo tenere presente anche l’altro mio conto, quello gestito dalla Banca Imperiale di Saint Louis. E i contanti e gli addebiti sulla Visa che dovevo a Janet. E Georges doveva lasciarmi pagare metà di… Qualcuno mi stava chiamando. Era Rhoda Wainwright, molto irritata. — State attenta, signorina Friday. Qui c’è il vostro pacchetto e firmate qui la ricevuta. Poi spostatevi a controllare. Guardai la ricevuta. — Firmerò dopo aver controllato. — Signorina Friday. State rallentando la procedura. — Mi metterò in disparte. Ma firmerò solo dopo aver controllato che il pacchetto contenga tutto quello che è scritto sull’elenco. Anna disse, in tono calmo: — Tutto a posto, Friday. Ho controllato io. Risposi: — Grazie. Ma tratterò la cosa come tu tratti i documenti classificati: in mano mia e sotto i miei occhi. Quella cagna della Wainwright era pronta a cuocermi nell’olio, ma io non feci altro che spostarmi di un paio di metri e cominciare a guardare. Il pacchetto era di buone dimensioni: tre passaporti intestati a tre nomi, un assortimento di carte d’identità, documenti vari molto sinceri che corrispondevano all’una o all’altra identità, un assegno intestato a «Marjorie Friday Baldwin» ed emesso dalla Ceres & South Africa Acceptances, Luna City, per l’importo di 297,3 grammi d’oro a diciotto carati; il che mi lasciò esterrefatta, ma non quanto l’articolo successivo: il certificato d’adozione da parte di Hartley M. Baldwin ed Emma Baldwin di Friday Jones, ribattezzata Marjorie Friday Baldwin, documento stilato a Baltimora, Maryland, Unione Atlantica. Nulla sull’orfanotrofio Landsteiner o sul John Hopkins, ma la data era quella del giorno in cui avevo lasciato il Landsteiner. E due certificati di nascita. Uno era per Marjorie Baldwin, nata a Seattle, e l’altro per Friday Baldwin, nata da Emma Baldwin a Boston, Unione Atlantica. Due cose erano certe su quei documenti: erano entrambi falsi, ed entrambi affidabili al cento per cento. Boss non faceva mai le cose a metà. Dissi: — C’è tutto, Anna. — Firmai. Anna accettò la ricevuta e aggiunse in fretta: — Ci vediamo dopo. — Bene. Dove? — Chiedi a Blondie. — Signorina Friday! La vostra carta di credito, per favore! — Di nuovo la Wainwright. — Oh. — Be’, sì, con Boss morto e l’agenzia sciolta, non potevo più usare la carta di credito di Saint Louis. — Ecco qui. Lei fece per prenderla; io non la mollai. — Il punzonatore, per favore. O le forbici. O quello che usate. — Ma piantiamola! Incenerirò la vostra carta assieme a tante altre, dopo aver controllato i numeri. — Signora Wainwright, se devo restituire una carta di credito intestata a me… e lo farò, su questo non c’è dubbio… dovrà essere distrutta e perforata, resa inutilizzabile, sotto i miei occhi. — Siete sfibrante! Non vi fidate di nessuno? — No. — Allora dovrete aspettare qui finché tutti gli altri non avranno finito. — Oh, non credo. — Penso che la MasterCard della California usi un laminato di fenoplasto; in ogni caso le loro carte sono molto robuste, come devono essere le carte di credito. Ero sempre stata attenta a non esibire le mie doti super al quartier generale, non perché lì la cosa avesse importanza, ma perché non era cortese. Però quella era un’occasione speciale. Stracciai la carta in due, le diedi i frammenti. — Dovreste ancora riuscire a leggere il numero di serie. — Molto bene! — Dal tono, era irritata quanto me. Feci per andarmene. Lei abbaiò: — Signorina Friday! L’altra vostra carta di credito, per favore! — Quale carta? — Io mi stavo chiedendo chi, fra i miei cari amici, si trovasse all’improvviso privato di una delle massime necessità dei nostri tempi, una carta di credito valida, per ritrovarsi solo con un assegno e una manciata di contanti. Sgradevole. Scomodo. Ero certa che Boss non aveva predisposto le cose a quel modo. — La MasterCard della California, signorina Friday, emessa a San José. Datemela. — L’agenzia non ha nulla a che fare con quella carta. Mi sono procurata da sola quel particolare credito. — Trovo difficile crederlo. Il vostro credito è garantito dalla Ceres & South Africa, cioè dall’agenzia. Di cui stiamo liquidando le attività. Quindi consegnatemi la carta. — Avete le idee confuse, avvocato. È la Ceres & South Africa che provvede ai pagamenti, ma il capitale è mio. Non vi riguarda per nulla. — Scoprirete al più presto chi riguarda! Il vostro credito verrà annullato. — A vostro rischio, avvocato. Se volete una causa che vi lascerà in mutande. Sarà meglio che controlliate i fatti. — Me ne andai, ansiosa di non dire un’altra parola. Quella donna mi aveva talmente irritata che, per il momento, non provavo più dolore per Boss. Mi guardai attorno e scoprii che Blondie aveva già esaurito le formalità. Aspettava, seduta. Incrociai il suo sguardo, e lei batté sulla sedia vuota al suo fianco. La raggiunsi. — Anna mi ha detto di cercarti. — Bene. Ho prenotato al Cabaña Hyatt di San José per stanotte, per Anna e me, e ho avvertito che poteva esserci una terza persona. Vuoi venire con noi? — Subito? Avete già fatto i bagagli? — Cosa avevo da mettere in valigia? Non molto, visto che i miei bagagli provenienti dalla Nuova Zelanda erano ancora nel deposito del porto di Winnipeg perché sospettavo che la polizia di Winnipeg li sorvegliasse; e sarebbero rimasti lì finché Janet e Ian non fossero stati al sicuro. — Mi aspettavo di fermarmi qui, stanotte, ma non è che ci abbia pensato. — Per stanotte si può dormire qui, ma la cosa non viene incoraggiata. La direzione, la nuova direzione, vuole concludere tutto entro oggi. Il pranzo sarà l’ultimo pasto servito. Se ci sarà ancora qualcuno per cena, avrà panini freddi. Colazione, niet. — Cristo! Boss non avrebbe mai combinato niente del genere. — Infatti. Quella donna… Il Padrone aveva preso accordi col socio anziano, che è morto sei settimane fa. Ma non importa, ce ne andremo. Vieni con noi? — Immagino di sì. Sì. Ma prima sarà meglio che veda quei reclutatori. Mi serve un lavoro. — No. — Perché, Blondie? — Anch’io cerco lavoro. Ma Anna mi ha avvertita. I reclutatori che sono qui oggi hanno tutti un accordo con la Wainwright. Se fra loro ce ne sono un po’ che valgono qualcosa, potremo rintracciarli al Centro Lavoro di Las Vegas… senza regalare una commissione a quella tartaruga sbraitante. Io so cosa voglio. Capoinfermiera dell’ospedale da campo in una compagnia di mercenari ad alto livello. Tutte le migliori compagnie sono rappresentate a Las Vegas. — Allora dovrò cercare lì anch’io. Blondie, in vita mia non sono mai stata costretta a trovarmi un lavoro. Sono confusa. — Te la caverai benissimo. Tre ore più tardi, dopo un pranzo frettoloso, eravamo a San José. Due Vma facevano la spola tra Pajaro Sands e National Plaza; la Wainwright si stava sbarazzando di noi il più in fretta possibile. Mentre partivamo, vidi caricare due grossi furgoni, ciascuno dei quali trainato da sei cavalli; e papà Perry era sulle spine. Chissà che fine avrebbe fatto la biblioteca del Boss. Avvertii una tristezza piccola così e molto egoistica, all’idea che forse non avrei più avuto una possibilità così illimitata di nutrire il Figlio dell’Elefante. Non sarò mai un cervellone, però sono curiosa di tutto, e un terminale direttamente collegato alle migliori biblioteche del mondo è un lusso senza prezzo. Quando vidi cosa stavano caricando, ricordai di colpo qualcosa, quasi in preda al panico. — Anna, chi era la segretaria di Boss? — Non aveva segretarie. A volte gli davo una mano io, se ne aveva bisogno. Cosa ne sarà stato? — A meno che non sia qui… — Prese una busta dalla borsa e me la diede. — È scomparso. Perché da molto tempo ho ricevuto l’ordine di andare al terminale personale di Boss non appena fosse stata annunciata la sua morte e inserire un certo programma. Era un ordine di cancellazione. Lo so anche se lui non lo ha mai detto. Tutto ciò che c’era di personale nelle sue banche della memoria è stato cancellato. Si trattava di una cosa personale. — Molto personale. — Allora non esiste più. Se non è qui. Guardai ciò che mi aveva dato: una busta chiusa. All’esterno c’era scritto solo «Friday». Anna aggiunse: — Doveva entrare nel tuo pacchetto, ma l’ho presa io e l’ho tenuta fuori. Quella stronza ficcanaso stava leggendo tutto quello che le arrivava fra le mani. Sapevo che questa era una comunicazione personale del signor Due-Bastoni… anzi adesso dovrei dire il dottor Baldwin… per te. Non volevo lasciarla prendere a quella là. — Anna sospirò. — Ho lavorato con lei tutta la notte. Non l’ho uccisa. Non so perché. Blondie disse: — Ne avevamo bisogno. Doveva firmare gli assegni. Con noi c’era uno dei dirigenti dello staff. Burton McNye, un tipo tranquillo che solo raramente esprimeva opinioni. In quel momento, parlò: — Mi spiace che ti sia trattenuta. Guardami, non ho un soldo. Ho sempre usato la carta di credito per tutto. Quella sporca idiota non voleva darmi il mio assegno di liquidazione se prima non le consegnavo la carta di credito. Cosa succede con un assegno di una banca lunare? Si può cambiare, oppure lo accettano ma non lo cambiano finché non lo hanno incassato? Forse stanotte dovrò dormire in piazza. — Signor McNye… — Sì, signorina Friday? — Non sono più la signorina Friday. Solo Friday. — Allora io sono Burt. — Okay, Burt, io ho degli orsi in contanti e una carta di credito che la Wainwright non ha potuto toccare, anche se ci ha provato. Quanto ti serve? Lui sorrise, si protese in avanti e mi batté su un ginocchio. — Tutte le belle cose che ho sentito sul tuo conto sono vere. Grazie, cara, ma ci penserò io. Per prima cosa andrò alla Banca d’America. Se non mi cambiano tutto subito, forse mi daranno almeno un anticipo. Se no, mi sposterò all’ufficio della Wainwright al Ccc e mi sdraierò sulla sua scrivania e le spiegherò che sta a lei trovarmi un letto. Porca miseria. Il Capo avrebbe provveduto a far avere a tutti qualche centinaio di dollari o orsi o che altro in contanti. Quella lo ha fatto apposta. Forse per costringerci a firmare coi suoi amici. Scommetto che ne sarebbe capace. Se crea altri pasticci, sono talmente incazzato che sarei pronto a scoprire se ricordo ancora qualcosa di quello che mi hanno insegnato all’addestramento di base. Ribattei: — Burt, non affrontare mai un avvocato con le mani. Per combattere un avvocato ci vuole un altro avvocato, uno più in gamba. Senti, noi saremo al Cabaña. Se non riesci a incassare l’assegno, accetta la mia offerta. Non sarà un fastidio. — Grazie, Friday. Ma stringerò quella là per il collo finché non si arrende. La stanza che Blondie aveva prenotato era un piccolo appartamento: una stanza con un grande letto ad acqua e un soggiorno con un divano che si trasformava in letto matrimoniale. Sedetti sul divano a leggere la lettera di Boss intanto che Anna e Blondie usavano il bagno; poi lo usai anch’io quando loro uscirono. Quando riemersi, loro due erano distese sul letto ad acqua, addormentate come sassi. Non mi sorpresi: erano rimaste sveglie tutta la notte, impegnate in un lavoro da spossare i nervi. Zitta zitta, tornai a sedere e ricominciai a leggere la lettera. Cara Friday, dato che questa è la mia ultima occasione per comunicare con te, debbo dirti cose che non ho potuto dirti quando ero vivo ed ero ancora il tuo datore di lavoro. La tua adozione: non la ricordi perché non è successa in quel modo. Scoprirai che tutti i documenti sono legalmente validi. Tu sei davvero la mia figlia adottiva. Emina Baldwin possiede lo stesso tipo di realtà dei tuoi genitori di Seattle, cioè è reale a ogni scopo pratico e legale. Devi stare attenta a una sola cosa: non sovrapporre l’una all’altra le tue molte identità. Ma hai già camminato sul filo di quel rasoio svariate volte, nella tua professione. Assicurati di essere presente o rappresentata alla lettura del mio testamento. Sono un cittadino lunare, (eh?) quindi la lettura si terrà a Luna City immediatamente dopo la mia morte, dato che la Repubblica Lunare non soffre di tutti i ritardi avvocateschi della maggioranza delle nazioni terrestri. Chiama Fong, Tomosawa, Rothschild, Fong e Finnegan, Luna City. Non aspettarti troppo; il mio testamento non ti solleverà dalla necessità di guadagnarti da vivere. Le tue origini: hai sempre nutrito una forte curiosità sull’argomento, ed è comprensibile. Poiché il tuo patrimonio genetico è stato assemblato da svariate fonti e tutta la documentazione è andata distrutta, posso dirti poco. Vorrei menzionarti due fonti della tua eredità genetica di cui puoi andare fiera, due persone note alla storia come signor Joseph Green e signora. C’è un monumento che li commemora in un cratere nei pressi di Luna City, ma il viaggio non vale la pena perché c’è pochissimo da vedere. Se chiederai informazioni sul monumento alla Camera di Commercio di Luna City, potrai avere una cassetta con un resoconto ragionevolmente preciso di ciò che hanno fatto. Dopo averla sentita, capirai perché ti ho chiesto di non giudicare troppo in fretta gli assassini. Di solito l’omicidio è un lavoro sporco… ma gli assassini per bene possono essere eroi. Ascolta la cassetta e giudica da te. I Green erano miei colleghi tanti anni fa. Siccome il loro lavoro era estremamente pericoloso, ho fatto in modo che tutti e due depositassero materiale genetico: quattro ovuli di lei, lo sperma di lui. Quando vennero uccisi, feci compiere un’analisi genetica con un occhio particolare alla possibilità di figli postumi, e scoprii che i materiali erano incompatibili; la semplice fertilizzazione avrebbe rafforzato alcuni caratteri negativi. Invece, quando divenne possibile la creazione di persone artificiali, i loro geni furono usati in modo selettivo. Il tuo fu l’unico progetto coronato da successo; altri tentativi col loro materiale non furono possibili o dovettero essere distrutti. Un buon ingegnere genetico lavora esattamente come un buon fotografo: il risultato perfetto nasce se si è pronti a scartare drasticamente ogni tentativo meno che perfetto. Nessuno cercherà più di utilizzare i Green: gli ovuli di Gail non esistono più, e lo sperma di Joe probabilmente non serve più a nulla. Non è possibile definire il rapporto che ti lega a loro, ma tu sei all’incirca qualcosa fra la loro nipote e la pronipote; il resto di te viene da molte fonti, ma puoi andare fiera del fatto che tutto di te è stato scelto con estrema cura per portare al massimo livello i tratti migliori dell’H. sapiens. Questo è il tuo potenziale; raggiungerlo, o meno sta soltanto a te. Prima che i documenti che ti riguardano venissero distrutti, una volta ho cercato di soddisfare la mia curiosità elencando le fonti che hanno contribuito alla tua creazione. Da quanto ricordo, tu discendi da: finlandesi, polinesiani, amerindi, eschimesi, danesi, irlandesi, swazi, coreani, tedeschi, indù, inglesi; e a brandelli provenienti da ogni altra parte del mondo, visto che nulla di ciò che è elencato prima era allo stato puro. Tu non potrai mai permetterti di essere razzista. Ti morderesti la coda da sola! Il vero significato di tutto questo è che per farti sono stati scelti i materiali migliori, a prescindere dalla fonte. Il fatto che tu sia risultata anche bella è semplice fortuna. (Bella! Boss, ho uno specchio anch’io. Possibile che mi considerasse davvero bella? Okay, ho un fisico non male; il che riflette sul fatto che sono un’atleta in perfetta forma; il che a sua volta riflette il fatto che, invece di essere nata, sono stata progettata. Be’, è un piacere sapere che la pensava così, se è proprio quello che pensava… Perché non ho molto da scegliere: io sono quello che sono, in ogni caso.) Su un punto ti devo una spiegazione, se non una scusa. Era stato deciso che tu fossi affidata a genitori scelti da noi e cresciuta come loro figlia. Ma quando pesavi ancora meno di cinque chili, io finii in galera. Tempo dopo riuscii a evaderne, ma potei tornare sulla Terra solo dopo la Seconda Ribellione Atlantica. Tu hai ancora addosso le cicatrici di questo spiacevole episodio, lo so. Spero che un giorno o l’altro ti libererai dalle paure e dalla sfiducia nei confronti degli «umani»; non ne ricavi nulla e ne sei grandemente handicappata. Un giorno, non so come, dovrai capire a livello emotivo quello che già sai a livello intellettuale, e cioè che sono legati come te alla Grande Ruota. In quanto al resto, cosa posso dire in un ultimo messaggio? Che una coincidenza sfortunata, il mio imprigionamento al momento sbagliato, ti ha lasciata troppo vulnerabile, troppo incline al sentimentalismo. Mia cara, devi liberarti da ogni paura, da ogni senso di colpa e di vergogna. Penso che tu abbia sradicato l’autocommiserazione. (Un corno!) Ma se non è così, devi lavorarci. Credo tu sia immune alle tentazioni della religione. Se non lo sei, non posso aiutarti, non più di quanto potrei impedirti di diventare una drogata. Una religione, talora, è fonte di felicità, e io non voglio privare nessuno della felicità. Ma è un conforto adatto ai deboli, non ai forti; e tu sei forte. Il grosso guaio delle religioni, di qualunque religione, è che il credente, una volta accettate per fede certe verità, non può più giudicarle in base al metro delle prove concrete. Ci si può crogiolare al fuoco caldo della fede oppure scegliere di vivere nell’incertezza totale della ragione; ma non si possono avere entrambe le cose. Ho un’ultima cosa da dirti; per mia soddisfazione, per mio orgoglio. Io sono uno dei tuoi «antenati»; non uno dei maggiori, ma qualcosa del mio patrimonio genetico vive in te. Tu sei non solo la mia figlia adottiva, ma anche, in parte la mia figlia naturale. Con mio sommo orgoglio. Permettimi quindi di chiudere con una parola che non ho mai potuto dirti quando ero vivo… Con amore, Hartley M. Baldwin Rimisi la lettera nella busta e mi raggomitolai e mi abbandonai al peggiore dei vizi, l’autocommiserazione; fino in fondo, con abbondanza di lacrime. Non vedo niente di sbagliato nel piangere; lubrifica la psiche. Dopo aver espulso tutto, mi alzai e mi lavai la faccia e decisi che i lamenti funebri per Boss erano finiti. Ero compiaciuta e mi sentivo adulata all’idea che mi avesse adottata, e mi riscaldava sapere che una piccola parte di lui vivesse nel mio corpo; ma era sempre Boss. Probabilmente mi avrebbe concesso una seduta catartica di dolore, ma se l’avessi tirata per le lunghe, si sarebbe irritato. Le mie amiche russavano ancora, esauste. Quindi chiusi la porta per escluderle, notai con piacere che era una porta a isolamento acustico e sedetti al terminale, infilai la carta di credito nella fessura, e chiamai Fong, Tomosawa, eccetera. Avevo già chiesto il numero al servizio informazioni, dopo di che lo composi direttamente. È il sistema più economico. Riconobbi la donna che mi rispose. Non c’è dubbio, la gravità bassa è meglio del reggiseno. Fossi vissuta anch’io a Luna City, avrei portato solo un monokini. O i trampoli, magari. Con uno smeraldo nell’ombelico. — Chiedo scusa — dissi. — Non so come, ho fatto il numero della Ceres & South Africa. Volevo chiamare Fong, Tomosawa, Rothschild, Fong e Finnegan. L’inconscio mi sta giocando scherzi. Scusate se vi ho disturbata, e grazie per l’aiuto che mi avete dato mesi fa. — Wow! — rispose lei. — Non avete sbagliato codice. Io sono Gloria Tomosawa, socia anziana di Fong, Tomosawa eccetera, adesso che nonno Fong è andato in pensione. Però questo non interferisce col fatto di essere vicepresidente della Ceres & South Africa Acceptances. Siamo noi i legali della banca. E io sono anche prima esecutrice testamentaria dello studio, il che significa che ho questioni da sbrigare con voi. Qui siamo tutti molto colpiti dalla notizia della morte del dottor Baldwin, e io spero che non l’abbiate presa troppo male, signorina Baldwin. — Ehi, ricominciate da capo! — Chiedo scusa. Di solito, quando qualcuno chiama la Luna vuole tagliare corto il più possibile, per via del costo. Volete che ripeta tutto frase per frase? — No. Credo di avere assimilato. Il dottor Baldwin mi ha lasciato un messaggio. Mi dice di essere presente o rappresentata alla lettura del suo testamento. Non posso esserci, quando sarà letto, potete consigliarmi voi su come trovare qualcuno che mi rappresenti a Luna City? — Sarà letto non appena ci arriverà la comunicazione ufficiale della morte dalla Confederazione Californiana, il che dovrebbe accadere da un momento all’altro perché il nostro rappresentante a San José ha già pagato la bustarella. Qualcuno che vi rappresenti… Io posso andare? Forse dovrei dirvi che papà Fong è stato l’avvocato di Luna City di vostro padre per molti anni… Per cui l’ho ereditato io, e adesso che vostro padre è morto, eredito voi. — Lo fareste davvero? Signorina… Signora… Siete signorina o signora? — Lo farei davvero e lo farò e sono signora. Grazie al cielo. Ho un figlio della vostra età. — Impossibile! — (Quella vincitrice di concorsi di bellezza aveva il doppio della mia età?) — Possibilissimo. Qui a Luna City siamo conservatori di vecchio stampo mica come la California. Ci sposiamo e facciamo figli e sempre in quest’ordine. Non oserei essere signorina con un figlio della vostra età. Non avrei un solo cliente. — Alludevo all’idea che abbiate un figlio della mia età. Non si possono avere figli a cinque anni. A quattro. Lei sorrise. — Voi dite cose meravigliose. Perché non venite qui e sposate mio figlio? Ha sempre desiderato un’ereditiera. — Sono un’ereditiera? Lei tornò seria. — Uhm! Non posso rompere i sigilli di quel testamento prima che vostro padre sia ufficialmente morto, e qui a Luna City non lo è. Non ancora. Ma lo sarà presto, e non avrebbe senso farvi richiamare. Ho steso io il testamento. Ho controllato se era stato cambiato qualcosa quando mi è stato rispedito. Poi ho messo i sigilli e l’ho chiuso in cassaforte. Quindi so cosa dice. E voi saprete ufficialmente quello che sto per dirvi solo fra diverse ore. Siete un’ereditiera, ma i cacciatori di dote non vi perseguiteranno. Non avrete un centesimo in contanti. Però la banca, cioè io, ha istruzioni di finanziare la vostra emigrazione dalla Terra. Se scegliete la Luna, vi paghiamo il biglietto. Se scegliete un pianeta da colonizzare vi diamo un coltello da scout e preghiamo per voi. Se scegliete un posto costoso come Kaui o Alcione, il fondo a vostra disposizione vi paga il viaggio e il contributo che dovete versare e vi fornisce il capitale iniziale. Se non emigrerete mai dalla Terra, alla vostra morte la cifra destinata ad aiutarvi sarà devoluta agli altri obiettivi del fondo. Ma la vostra emigrazione avrà precedenza assoluta. Se emigrate a Olympia, pagate di tasca vostra. Da noi non avrete nulla. — Il dottor Baldwin me ne aveva accennato. Cos’ha di tanto brutto Olympia? Non ricordo una colonia con quel nome. — Non la ricordate? No, probabilmente siete troppo giovane. È il posto dove si sono trasferiti tutti quei superuomini arroganti. Inutile mettervi in guardia, comunque. Non ci sono navi di linea che arrivino lì. Tesoro, questa conversazione vi costerà una fortuna. — Probabile. Ma mi costerebbe ancora di più se dovessi richiamare. L’unica cosa che mi dispiace è dover pagare anche gli intervalli di silenzio. Potete cambiare panni un attimo e diventare la Ceres & South Africa? O forse no. Potrei avere bisogno di consigli legali. — Sparate pure. Indosso entrambi i panni. Chiedete quello che volete; oggi non si paga. Consideriamola promozione pubblicitaria. — No. Pagherò per quello che avrò. — Sembrate il vostro povero padre. Secondo me è lui che ha inventato il do ut des. — Non è veramente mio padre, e io non l’ho mai considerato mio padre. — Conosco la storia, tesoro. Alcuni dei documenti che vi riguardano li ho stesi io. Lui vi considera una figlia. Era enormemente orgoglioso di voi. La prima volta che mi avete chiamata, ero curiosissima. Ho dovuto tenere la bocca chiusa su cose che sapevo, ma ho potuto vedervi. Cosa avete in mente? Le spiegai i guai che avevo avuto con la Wainwright per le carte di credito. — Senz’altro la MasterCard della California mi ha concesso un credito molto superiore ai miei bisogni e alle mie possibilità. Ma quella cosa c’entra? Non ho ancora usato tutti i soldi che ho depositato, e rimpinguerò il conto con la liquidazione. Duecentonovantasette grammi e tre decimi di oro a diciotto carati. — Rhoda Wainwright non vale un fico secco, come avvocato. Quando il signor Esposito è morto, vostro padre avrebbe dovuto cambiare studio legale. È ovvio che il credito che la MasterCard vi concede non la riguarda, e comunque lei non ha alcuna autorità su questa banca. Signorina Baldwin… — Chiamatevi Friday. — Friday, vostro padre era un dirigente di questa banca ed è, o era, un azionista di maggioranza. Anche se non riceverete direttamente nulla delle sue ricchezze, dovreste accumulare un passivo enorme e non saldarlo per parecchio tempo e rifiutarvi di dare spiegazioni prima che il vostro conto vada in rosso. Quindi, lasciate perdere. Però adesso che Pajaro Sands chiude, mi occorre un altro vostro indirizzo. — Al momento siete voi l’unico indirizzo che ho. — Vedo. Be’, datemene uno appena lo avrete. C’è altra gente con lo stesso problema, un problema inutilmente peggiorato da Rhoda Wainwright. Ci sono altre persone che dovrebbero essere presenti alla lettura del testamento. La Wainwright avrebbe dovuto avvertirle, non lo ha fatto, e ormai hanno lasciato Pajaro Sands. Sapete dove posso trovare Anna Johansen? O Sylvia Havenisle? — Conosco una donna di nome Anna che era a Pajaro. Era l’addetta ai documenti classificati. L’altro nome mi è sconosciuto. — Dev’essere l’Anna giusta. A me risulta come «impiegata confidenziale». La Havenisle è infermiera diplomata. — Oh! Sono tutte e due dietro la porta che ho qui davanti. Dormono. Sono rimaste sveglie tutta notte. La morte del dottor Baldwin. — È il mio giorno fortunato. Per favore informatele, quando si sveglieranno, che dovrebbero essere rappresentate alla lettura del testamento. Ma non svegliatele adesso; posso sistemare le cose più tardi. Qui non siamo troppo maniaci della burocrazia. — Potreste rappresentarle voi? — Se me lo chiedete, sì. Ma fatemi chiamare. Mi serviranno indirizzi nuovi anche per loro. Al momento dove sono? Glielo dissi, ci salutammo, e interruppi la comunicazione. Poi restai perfettamente immobile, lasciai che la mia testa assorbisse i fatti. Ma Gloria Tomosawa mi aveva reso tutto più facile. Sospetto che esistano solo due tipi di avvocati: quelli che si sforzano di facilitare la vita agli altri, e i parassiti. Uno scampanellio e una spia rossa mi fecero tornare al terminale. Era Burton McNye. Gli dissi di salire ma non fare rumore. Lo baciai senza fermarmi a pensarci, poi ricordai che non era un amico di bacio. Oppure sì? Non sapevo se avesse dato una mano a salvarmi dal «Maggiore»; dovevo chiederglielo. — Nessun problema — mi informò. — La Banca d’America ha accettato l’assegno. Mi verseranno tutto solo dopo aver riscosso, ma mi hanno anticipato qualche centinaio d’orsi per la notte. Mi dicono che un assegno in oro di Luna City può essere incassato in ventiquattro ore circa. Il che, oltre alla solida reputazione economica del nostro defunto datore di lavoro, mi ha tolto dai pasticci. Quindi non c’è bisogno che mi lasci dormire qui per stanotte. — La notizia dovrebbe rallegrarmi? Burt, adesso che sei di nuovo solvente puoi portarmi a cena. Fuori. Perché le mie compagne di stanza sono zombie. Morte, forse. Le povere care sono rimaste in piedi tutta notte. — È troppo presto per cenare. Non era troppo presto per quello che facemmo poi. Io non lo avevo previsto, ma Burt giurava di averci pensato sul Vma; non gli credetti. Gli chiesi di quella notte alla fattoria, e certo anche lui faceva parte del gruppo di soccorso. Disse che lo avevano messo nella riserva, che aveva semplicemente fatto un giretto, ma ancora nessuno ha ammesso di avere fatto qualcosa di pericoloso, quella notte; però, lo ricordo, Boss mi ha detto che vennero arruolati tutti perché il personale era scarsissimo; anche Terence, che quasi non deve ancora farsi la barba. Lui non protestò quando cominciai a spogliarlo. Burt era esattamente quello che mi ci voleva. Erano successe troppe cose e io mi sentivo emotivamente esausta. Come tranquillante, il sesso è superiore a tutti i medicinali ed è molto meglio per il metabolismo. Non vedo perché gli umani diano tanta drammatica importanza al sesso. Non è complesso; è semplicemente la cosa migliore della vita, anche meglio del cibo. Il bagno del nostro appartamento si poteva raggiungere senza passare in camera da letto. Probabilmente la disposizione era quella perché il soggiorno, all’occasione, si trasformava in una seconda camera da letto. Così ci ripulimmo tutti e due e io indossai la tuta Superpelle con la sua aria appetitosa che mi era servita da esca per agganciare Ian, la primavera scorsa; e capii di averla messa perché i miei pensieri e i miei sentimenti erano tornati a Ian, però non ero più preoccupata per Ian e Jan, o Georges. Li avrei ritrovati, adesso ne avevo la serena certezza. Se anche non fossero mai tornati a casa, al peggio li avrei rintracciati tramite Betty e Freddie. Burt emise i doverosi suoni animaleschi quando apparvi in Superpelle, e io lo lasciai guardare e mi agitai un po’ e gli dissi che l’avevo comperata esattamente per quello, perché ero il tipo di donna che non si vergogna nemmeno un po’ di essere femmina, e volevo ringraziarlo per quello che aveva fatto per me; i miei nervi, prima, erano tesi come corde d’arpa e adesso erano talmente rilassati da strisciare per terra e io avevo deciso di offrire la cena per dimostrargli la mia riconoscenza. Lui si offrì di fare a braccio di ferro per il conto. Non gli dissi che dovevo stare ben attenta, nei momenti di passione, a non rompere le ossa maschili; sfoggiai qualche risatina e basta. Probabilmente le risatine sono un po’ stupide in una donna della mia età, ma va così: quando sono felice, io ridacchio. Non dimenticai di lasciare un biglietto per le mie amiche. Quando tornammo sul tardi, le due erano scomparse, così Burt e io andammo a letto, dopo aver aperto il divano matrimoniale. Mi svegliai quando Anna e Blondie, di ritorno dalla cena, rientrarono in punta di piedi. Ma finsi di continuare a dormire, immaginando che il mattino non fosse troppo lontano. Il mattino dopo, a un certo punto, mi resi conto che Anna ci scrutava e non era troppo allegra; e, onestamente, solo allora per la prima volta mi sfiorò l’idea che ad Anna potesse dispiacere trovarmi a letto con un uomo. Sicuro, avevo capito da che parte pendesse tanto tempo prima; sicuro, sapevo che pendeva dalla mia parte. Ma lei stessa aveva frenato gli ardori e io avevo smesso di considerarla una questione in sospeso da affrontare un giorno o l’altro; lei e Blondie erano semplicemente due care ragazze, amiche del cuore di cui mi fidavo e che si fidavano di me. Burt disse, in tono lamentoso: — Non guardarmi in cagnesco, donna. Sono finito qui per ripararmi dalla pioggia. — Non ti guardavo in cagnesco — ribatté lei, troppo seria. — Stavo semplicemente cercando il modo per aggirare il letto e arrivare al mio terminale senza svegliarvi. Voglio ordinare la colazione. — Ordini per tutti? — chiesi. — Certo. Cosa volete? — Un po’ di tutto con contorno di patate fritte. Anna, tesoro, mi conosci. Se non è morto, lo uccido e me lo mangio tutto, comprese le ossa. — E lo stesso per me — aggiunse Burt. — Vicini di stanza casinari. — Blondie, sbadigliante, era apparsa sulla soglia. — Juke-box umani. Rimettetevi a dormire. — Io la guardai e mi resi conto di due cose: prima non l’avevo mai guardata sul serio, nemmeno alla spiaggia. E, secondo, se Anna era irritata con me perché avevo dormito con Burt, non aveva la minima scusa: Blondie esprimeva una sazietà quasi indecente. — Significa «isola del porto» — stava dicendo Blondie — e dovrebbe avere almeno un trattino d’unione, perché nessuno riesce a scriverlo o pronunciarlo. Così mi faccio chiamare Blondie e basta. Facile nell’agenzia del Padrone, dove i cognomi sono sempre stati scoraggiati. Però come cognome è molto più difficile Tomosawa. Dopo che l’ho sbagliato per la terza o quarta volta, lei mi ha chiesto di chiamarla Gloria. Stavamo terminando una grossa colazione, e le mie due amiche avevano parlato con Gloria e il testamento era stato letto e tutte e due (e anche Burt, con sorpresa mia e sua) erano adesso un po’ più ricche e ci stavamo preparando a partire per Las Vegas: tre di noi in cerca di lavoro, mentre Anna ci avrebbe semplicemente tenuto compagnia finché noi non fossimo decollati o che altro. A quel punto, Anna sarebbe andata in Alabama. — Forse mi stancherò di oziare. Ma ho promesso a mia figlia che mi sarei messa in pensione, ed è il momento giusto. Rifarò la conoscenza dei miei nipotini prima che diventino troppo grandi. Anna una nonna? Ma ci si conosce mai, a questo mondo? 25 Las Vegas è un circo a tre piste col mal di testa da dopo-sbronza. Per un po’ mi piace. Ma quando ho visto tutti gli show arrivo al punto che le luci e la musica e il frastuono e l’attività frenetica diventano troppo. Quattro giorni sono più che sufficienti. Arrivammo a Vegas verso le dieci, dopo una partenza protratta perché tutti noi avevamo affari da sbrigare. Tutti, a parte me, dovevano fare i preparativi per poter ricevere i soldi del testamento di Boss, e io dovevo depositare l’assegno per chiudere il conto con la MasterCard. Cioè, cominciai a farlo. Mi fermai di botto quando il signor Chambers disse: — Volete firmarci l’ordine di pagare le tasse sul reddito per questa cifra? Tasse sul reddito? Che proposta oscena! Non credevo alle mie orecchie. — Di cosa si tratta, signor Chambers? — Delle tasse che dovete alla Confederazione. Se chiedete a noi di occuparcene, ecco qui il modulo, i nostri esperti fanno i conti e noi le paghiamo e le deduciamo dal vostro capitale e voi non avete fastidi. Addebitiamo solo un onorario nominale. Diversamente, dovrete calcolare tutto da voi e riempire i moduli e fare la fila per pagare. — Ma era il premio di una lotteria nazionale! La vostra lotteria, libera da ogni balzello! Lo Stile Democratico! E poi il governo ci guadagna già con gli incassi dei biglietti. Che percentuale di guadagno ha? — Credetemi, signorina Baldwin, questa domanda va rivolta al governo, non a me. Se volete firmare qui in fondo, io riempirò il resto. — Tra un attimo. Quant’è questo «onorario nominale»? E quant’è la tassa? Me ne andai senza depositare l’assegno, e il povero signor Chambers se la prese un’altra volta con me. Anche se gli orsi sono talmente inflazionati che bisogna metterne assieme un bel mucchio per comperare un Big Mac, non considero «nominali» mille orsi; sono più di un grammo d’oro, trentasette dollari del Canada Britannico. Con l’otto per cento in più per il servizio, la MasterCard ci guadagnava parecchio a raccogliere i soldi per l’apparato fiscale (il Fisco Eterno) della Confederazione. Non ero certa di dovere tasse sul reddito nemmeno con la legislazione balorda della California: la maggior parte di quel denaro non era stato guadagnato in California, e proprio non vedevo che diritti potesse accampare la Confederazione sul mio stipendio. Volevo prima consultare un buon avvocato. Tornai al Cabaña Hyatt. Blondie e Anna erano ancora fuori, ma Burt c’era. Gli parlai della faccenda; sapevo che si era occupato di servizi logistici e contabilità. — È un punto dubbio — mi disse. — I contratti fra il personale e il Presidente portavano tutti la clausola «esente da tasse», e nell’Impero le bustarelle da sborsare venivano negoziate ogni anno. Qui avrebbe dovuto essere pagato qualcosa tramite il signor Esposito, cioè tramite la signora Wainwright. Puoi chiedere a lei. — Col cavolo! — Appunto. Avrebbe dovuto avvertire il Fisco Eterno e aver pagato le tasse dovute… Dopo qualche negoziato, se mi spiego. Però forse è una che tira bidoni, non so. In ogni caso, tu hai un passaporto extra, no? — Certo! Sempre. — Allora usalo. È quello che farò io. Poi trasferirò il denaro quando saprò dove sono finito. Nel frattempo lo lascerò al sicuro sulla Luna. — Burt, sono sicura che la Wainwright ha un elenco di tutti i passaporti extra. Mi stai dicendo che ci controlleranno ai punti d’uscita? — E se anche ha l’elenco? Non lo cederà alla Confederazione senza prima assicurarsi il suo guadagno, e dubito che abbia avuto il tempo di farlo. Quindi paga la solita bustarella e tieni il naso per aria e supera tranquillamente la barriera. Finalmente qualcosa che capivo. Per un attimo mi ero talmente indignata a quell’idea lurida che avevo smesso di pensare da corriere. Entrammo nello Stato Libero di Vegas a Dry Lake; la capsula si fermò solo il tempo sufficiente per le stampigliature d’uscita della Confederazione. Ognuno di noi usò un passaporto alternativo col solito malloppo dentro. Non ci furono guai. E nessun visto d’entrata, perché lo Stato Libero se ne frega della Dsi; da loro, ogni ospite solvente è benvenuto. Dieci minuti più tardi eravamo al Dunes. La sistemazione era più o meno la stessa che a San José, solo che questo appartamento aveva l’etichetta «orgiastico». Non capivo perché. Uno specchio sul soffitto e aspirina e Alka-Seltzer in bagno non bastavano a giustificare il nome; il mio istruttore al corso per etere avrebbe riso di scherno. Comunque immagino che la maggior parte dei clienti non possedesse il vantaggio di un’istruzione a livello superiore; mi è stato detto che la maggior parte della gente non ha alcuna educazione formale. Mi sono chiesta spesso chi faccia loro da insegnante: i genitori? Il rigido tabù dell’incesto fra gli umani è solo un tabù che riguarda il parlare dell’incesto, non il praticarlo? Un giorno o l’altro spero di avere le risposte, ma non ho mai trovato qualcuno a cui chiederlo. Forse me lo dirà Janet. Un giorno o l’altro… Decidemmo di rivederci a cena, poi Burt e Anna partirono per il salone e/o casinò, mentre Blondie e io ci trasferimmo al Parco Industriale. Burt voleva cercare un lavoro, ma aveva espresso l’intenzione di fare il diavolo a quattro prima di sistemarsi. Anna non disse nulla, ma secondo me voleva assaggiare il frutto proibito prima di intraprendere la carriera di nonna in pianta stabile. Solo Blondie aveva serie intenzioni di andare a caccia di un lavoro quel giorno. Io volevo trovare un lavoro, sì, ma prima dovevo pensare un po’. Probabilmente, quasi certamente, sarei emigrata. Boss riteneva che dovessi farlo, ed era un motivo sufficiente. A parte quello, però, lo studio sui sintomi di decadenza nelle culture che mi aveva fatto iniziare aveva focalizzato la mia attenzione su cose che sapevo da tempo ma non avevo mai analizzato. Non ho mai avuto l’occhio critico per le culture in cui ho vissuto o che ho incontrato in viaggio. Vi prego di capire che una persona artificiale è uno straniero perenne ovunque si trovi, per quanto a lungo si fermi. Nessuna nazione poteva essere la mia, quindi, perché pensarci? Ma quando cominciai a studiare, vidi che questo vecchio pianeta era conciato male. La Nuova Zelanda è un posto discreto, come anche il Canada Britannico, ma persino quei due paesi mostravano grossi segni di decadenza. Eppure, fra tutti, sono il meglio in assoluto. Ma non acceleriamo i tempi. Cambiare pianeta è una cosa che non si fa due volte, a meno di essere favolosamente ricchi, e io non lo ero. Mi avrebbero sovvenzionato una emigrazione, quindi mi conveniva decisamente scegliere il pianeta giusto perché una volta partita, nessuno avrebbe corretto i miei errori. A parte quello… Dov’era Janet? Boss aveva un indirizzo o un codice telefonico per stabilire i contatti. Non io! Boss aveva qualcuno infiltrato nella centrale di polizia di Winnipeg. Non io! Boss possedeva la sua rete di Pinkerton estesa a tutto il pianeta. Non io! Potevo provare a chiamarli di tanto in tanto. Lo avrei fatto. Potevo sentire l’Anzac e l’università di Manitoba. Lo avrei fatto. Potevo provare quel codice di Auckland e anche il Dipartimento biologia dell’università di Sydney. Lo avrei fatto. Se niente di tutto questo funzionava, che altro potevo fare? Potevo andare a Sydney e cercare di convincere qualcuno, con le buone, a darmi l’indirizzo di casa o l’indirizzo del posto dove stava compiendo ricerche o che altro il professor Farnese. Ma non sarebbe costato poco; e di colpo ero stata forzata a capire che i viaggi, una cosa che in passato avevo sempre dato per scontata, sarebbero stati difficoltosi e forse impossibili. Un viaggio alla Nuova Galles del Sud prima che i semibalistici riprendessero il servizio sarebbe stato molto costoso. Era possibile, con la sotterranea e gli shuttle e facendo il giro di tre quarti del mondo… ma non sarebbe stato né facile né economico. Forse potevo arruolarmi come etera di bordo sulla prima nave in partenza da San Francisco per l’altro emisfero. Questo sarebbe stato economico e facile; ma lunghissimo, anche a bordo di una cisterna a propulsione Shipstone in partenza da Watsonville. Un incrociatore a vele? Grazie, no. Forse era meglio assumere un Pinkerton a Sydney. Cosa chiedevano? Me lo potevo permettere? Mi occorsero meno di trentasei ore dalla morte di Boss per sbattere il muso nel fatto che non avevo mai imparato il vero valore di un grammo d’oro. Riflettete su questo: sino ad allora, la mia esistenza aveva seguito solo tre binari economici. a) In missione spendevo tutto ciò che occorreva. b) A Christchurch spendevo qualcosa, ma non molto; soprattutto regali per la famiglia. c) Alla fattoria, poi all’altro quartier generale, e più tardi a Pajaro Sands, avevo speso quasi nulla. Vitto e alloggio erano previsti dal contratto. Non bevevo e non giocavo. Se Anita non mi avesse dissanguata, avrei accumulato una bella sommetta. Avevo condotto una vita nella bambagia, e di soldi non avevo mai saputo niente. Però l’aritmetica semplice mi riesce anche senza usare un terminale. Avevo pagato in contanti la mia parte al Cabaña Hyatt. Per il biglietto per lo Stato Libero avevo usato la carta di credito, ma annotai anche quel costo. Annotai il prezzo giornaliero dell’appartamento al Dunes e tutte le altre spese, sia in contanti sia con la carta di credito; segnai anche quelle addebitate sul conto dell’hotel. Vidi subito che vitto e alloggio in hotel di prima categoria avrebbero consumato in fretta ogni grammo d’oro di mia proprietà, anche se avessi speso zero, nix, swabo, nulla in viaggi, abiti, articoli di lusso, amici, emergenze. Come volevasi dimostrare. Dovevo trovarmi un lavoro, oppure partire per un viaggio di sola andata verso un pianeta colonizzato. Mi venne l’orribile sospetto che Boss mi pagasse molto più di quanto io valga. Oh, sono un buon corriere, non ne esistono di migliori; ma quali sono gli stipendi medi dei corrieri? Potevo arruolarmi come soldato semplice, poi (ne ero ragionevolmente certa) diventare sergente in fretta. Non che la cosa mi affascinasse troppo, ma forse avrei fatto quella fine. La vanità non è uno dei miei difetti; non posseggo la minima competenza per la maggior parte dei lavori civili, lo so. C’era qualcosa che mi tirava, e qualcosa che mi spingeva. Non volevo andare da sola su un pianeta sconosciuto. Avevo paura. Avevo perso la mia famiglia ennezeta (se mai l’avevo avuta), Boss era morto, e mi sentivo come un povero pulcino sotto un cielo che sta per cadere. I veri amici che avevo tra i colleghi si erano dispersi ai quattro venti (a parte quei tre, che sarebbero partiti presto), ed ero riuscita a perdere Georges e Janet e Ian. Persino con tutto lo sfavillio di Las Vegas attorno a me mi sentivo sola come Robinson Crusoe. Volevo che Janet e Ian e Georges emigrassero con me. Allora non avrei avuto paura. Allora avrei potuto sorridere per l’intero viaggio. E poi… La Morte Nera. Stava per arrivare la peste. Sì, sì, avevo detto a Boss che la mia profezia di mezzanotte era assurda. Ma lui aveva ribattuto che il suo staff d’analisti aveva previsto la stessa cosa, entro quattro anni invece che tre. (Bella consolazione!) Ero costretta a prendere sul serio la mia previsione. Dovevo avvertire Ian e Janet e Georges. Non mi aspettavo di spaventarli; non credo che a quei tre vengano mai i brividi. Però volevo dire loro: — Se non vi va di emigrare, almeno prendete il mio avvertimento sul serio. State lontani dalle grandi città. Se salterà fuori un vaccino, fatevelo iniettare. Ma date retta al mio avvertimento. Il Parco Industriale è sulla strada per la diga di Hoover; è lì che si trova il Centro Lavoro. Vegas non permette Vma all’interno della città, ma ci sono marciapiedi mobili dappertutto, e uno arriva al Parco Industriale. Per andare più oltre, fino alla diga o a Boulder City, c’è una linea di Vma. Avevo intenzione di servirmene, perché la Shipstone Valle della Morte ha in affitto una parte di deserto fra Las Vegas Est e Boulder City. La usa come centrale di carica, e volevo vederla per rendere più completo il mio studio. Era possibile che il complesso Shipstone fosse la multinazionale che stava dietro il Giovedì Rosso? Non vedevo alcun motivo. Però doveva trattarsi di una potenza tanto ricca da coprire l’intero globo e arrivare a Cerere nel giro di una sola notte. Non ne esistevano molte. Poteva trattarsi di un uomo super-ricco o di un gruppo di uomini? Di nuovo, le possibilità non erano troppe. Morto Boss, probabilmente non lo avrei mai scoperto. Lo trattavo male, ma mi rivolgevo sempre a lui, quando non capivo qualcosa. Non avevo realizzato quanto dipendessi da lui finché non mi era stato tolto il suo appoggio. Il Centro Lavoro è un grosso viale coperto. C’è di tutto: dagli eleganti uffici del Wall Street Journal ai tizi che hanno l’ufficio nel cappello e non stanno mai seduti e smettono raramente di parlare. Ci sono insegne dappertutto e gente dappertutto e a me ricorda la zona di Vicksburg sul fiume, però l’odore è migliore. Le libere agenzie militari e semi-militari sono raggruppate all’estremità est. Blondie passò dall’una all’altra, e io la seguii. Lasciò a tutte il nome e una copia del suo curriculum. Ci eravamo fermate in città a far stampare i fogli e lei si era presa un recapito postale a una segreteria pubblica, e aveva convinto anche me a pagare per un recapito postale e telefonico. — Friday, se restiamo qui per più di un giorno o due, io lascio il Dunes. Hai notato le tariffe della stanza, no? È un posto carino, ma ti fanno pagare un letto nuovo ogni santo giorno. Io non posso permettermelo. Forse tu puoi… — No, non posso. Così, più o meno, mi feci un indirizzo, e trasmisi al cervello l’appunto di informare Gloria Tomosawa. Pagai un anno in anticipo, e scoprii che la cosa mi dava uno strano senso di sicurezza. Non era nemmeno una baracca di legno… però era una base, un indirizzo che non sarebbe svanito. Blondie non firmò quel pomeriggio, ma non sembrava delusa. Mi disse: — Al momento non ci sono guerre, tutto qui. Però la pace non dura mai più di un mese o due. Poi ricominceranno ad arruolare e nei loro archivi ci sarà il mio nome. Nel frattempo mi iscriverò all’ufficio di collocamento e accetterò lavori sostitutivi. C’è una cosa da dire del mio mestiere, Friday: un’infermiera non muore mai di fame. La scarsezza attuale di infermiere dura da più di un secolo e non finirà presto. Il secondo reclutatore da cui andò (rappresentava i Rettificatori di Royer, la Colonna di Cesare e i Mietitori Incazzati, tutte compagnie di prima scelta, con una reputazione a livello mondiale) si rivolse a me dopo che Blondie ebbe fatto il suo discorsetto. — E tu? Sei infermiera anche tu? — No — dissi. — Sono un corriere da combattimento. — Non ce n’è molta richiesta. Oggi quasi tutte le compagnie usano la posta espressa, se il terminale non serve. Mi sentii punta sul vivo. Boss mi aveva messa in guardia su quella possibilità. — Sono un corriere d’élite — ribattei. — Vado dappertutto… E quello che porto arriva anche quando la posta non funziona. Come per esempio nella recente emergenza. — È vero — disse Blondie. — Non sta esagerando. — Comunque le tue capacità non sono troppo richieste. Sai fare altro? (Non dovrei lasciarmi andare a spacconate!) — Qual è la tua arma migliore? Ti sfido a duello, per semplice gara o all’ultimo sangue. Chiama la tua vedova e cominciamo. — Accidenti, un tipo che fa le scintille! Mi ricordi un fox terrier che ho avuto. Senti, tesoro, non posso giocare con te. Devo tenere aperto l’ufficio. Adesso dimmi la verità e metterò il tuo nome negli schedari. — Scusa, capo. Non dovevo strombazzare. Va bene, sono un corriere d’élite. Se porto qualcosa, arriva, e le mie tariffe sono alte. O il mio stipendio, se vengo assunta come ufficiale consulente specializzato. In quanto al resto, è ovvio che devo essere il meglio del meglio, a mani nude o armata, perché quello che porto deve passare. Puoi schedarmi come ufficiale istruttore, se vuoi. Combattimento a mani nude o qualunque arma. Però combattere mi interessa solo se la paga è alta. Preferisco il lavoro di corriere. Lui prese appunti. — Va bene. Non sperare troppo. I tizi irsuti per cui lavoro potrebbero al massimo usare corrieri da campo di battaglia… — Sono anche quello. Tutto ciò che porto, arriva. — O finisci ammazzata. — L’uomo sorrise. — È più probabile che usino un supercane. Senti, dolcezza, le industrie hanno più bisogno di militari che di corrieri come te. Perché non lasci il tuo nome alle multinazionali? Qui sono rappresentate tutte le maggiori. E poi hanno più soldi. Molti più soldi. Lo ringraziai e ce ne andammo. Alle insistenze di Blondie, mi fermai al primo ufficio postale e preparai gli stampati del mio curriculum. Volevo abbassare le mie richieste salariali, perché ero certa che Boss mi avesse viziata; ma Blondie non me lo permise. — Alza il prezzo! È la tua migliore possibilità. Se qualcuno ha bisogno di te pagherà senza battere ciglio… o almeno ti chiamerà e proverà a mercanteggiare. Ma abbassare le richieste? Senti, tesoro, nessuno compera a una svendita se può permettersi di meglio. Lasciai una copia a ogni multinazionale. Non mi aspettavo che abboccassero, ma se qualcuno voleva il miglior corriere del mondo, poteva studiare le mie referenze. Quando gli uffici cominciarono a chiudere, tornammo all’hotel per l’appuntamento per cena, e trovammo Anna e Burt un po’ su di giri. Non sbronzi, soltanto allegri e un po’ troppo attenti a come si muovevano. Burt si mise in posa e annunciò: — Signore! Guardatemi e ammirate! Sono un grande uomo… — Sei ubriaco marcio. — Anche quello, Friday, amore mio. Però davanti a te vedi, iup! l’uomo che ha sbancato Monte Carlo. Sono un genio, un puro vero genuino autentico genio finanziario. Puoi toccarmi. Avevo intenzione di toccarlo: più tardi, di notte. Mi venne qualche dubbio. — Anna, Burt ha fatto saltare il banco? — No, però gli ha dato un bel colpo. — Lei si interruppe per coprirsi la bocca con la mano e ruttare in santa pace. — Chiedo scusa. Abbiamo giocato qualcosa qui, poi siamo andati al Flamingo per dare una sterzata alla fortuna. Siamo arrivati in tempo per puntare sulla terza corsa a Santa Anita e Burt ha puntato un superbigliettone sul naso di una puledrina che aveva il nome di sua madre. Nessuno ci credeva, e invece ha vinto. Poi fuori della sala corse c’era una roulette e Burt ha puntato la vincita sullo zero… — Era ubriaco — dichiarò Goldie. — Sono un genio! — Tutte e due le cose. Esce lo zero, e Burt punta questo gruzzolo enorme sul nero e vince, e lo lascia lì e vince, e lo sposta sul rosso e vince, e il croupier manda a chiamare il boss. Burt voleva puntare tutto, ma il boss lo ha costretto a limitarsi a cinque kilobigliettoni. — Bifolchi. Gestapo. Delinquenti prezzolati. Non c’era un solo gentiluomo sportivo in tutto il casinò. Ho spostato la mia insigne persona da un’altra parte. — E hai perso tutto — disse Blondie. — Blondie, vecchia mia, questa è mancanza di rispetto. — Poteva perdere tutto — ammise Anna — ma io ho fatto in modo che seguisse il consiglio del boss. Con sei sceriffi del casinò fra i piedi siamo andati diritti all’ufficio del casinò della Banca di Stato e abbiamo depositato. Se no non gli avrei permesso di uscire. Immaginatevi, trasportare mezzo megabigliettone dal Flamingo al Dunes in contanti. Non sarebbe riuscito ad attraversare la strada. — Assurdo! Vegas ha meno crimini e violenza di tutte le altre città del Nord America. Anna, mio unico amore, tu sei una donna di ferro piena di idee stupide. Una schiavista. Non ti sposerò nemmeno quando cadrai in ginocchio fra la Freemont e la Main e mi implorerai. Ti ruberò le scarpe e ti picchierò e ti nutrirò di croste di pane vecchio. — Sì, tesoro. Adesso puoi metterti le tue scarpe perché offri da mangiare a tutte e tre. Croste di caviale e tartufi. — E champagne. Ma non perché mi stai trattando come una pezza da piedi. Signore, Friday, Blondie, miei unici amori, volete aiutarmi a celebrare il mio genio finanziario? Con libagioni e fagiani in vassoi di cristallo e splendide ballerine coi loro fantastici cappellini? — Sì — risposi. — Sì, prima che tu cambi idea. Anna, hai detto mezzo megabigliettone? — Burt. Falle vedere. Burt estrasse un libretto di deposito nuovo di zecca, ce lo lasciò guardare mentre lui si passava le unghie sullo stomaco e prendeva l’aria del furbo. 504.000 dollari canadesi. Più di mezzo milione nell’unica moneta solida del Nord America. Uh, qualcosa in più di trentun chili d’oro. No, nemmeno io avrei voluto portare per strada tutti quei soldi, in lingotti. Non senza una carriola. Sarebbero stati quasi metà della mia massa. Un libretto di deposito bancario è più comodo. Sì, avrei bevuto lo champagne di Burt. Lo bevemmo, nella sala-teatro dello Stardust. Burt sapeva che mancia dare al capo dei camerieri per ottenere posti in prima fila (oppure gli diede troppo, non saprei) e lappammo champagne e divorammo una deliziosa cena che aveva come piatto forte una gallina nostrana che sul conto prese il nome di «piccione» e le ballerine erano giovani e carine e allegre e sane e avevano il profumo di chi ha appena fatto il bagno. E c’erano i ballerini coi reggitesticoli imbottiti da far ammirare a noi donne, però io non restai lì a guardarli, non molto, perché quelli non avevano l’odore giusto ed ebbi l’impressione che fossero più interessati l’uno all’altro che non alle donne. Affari loro, è chiaro, ma nell’insieme preferii le ragazze. E avevano un prestigiatore fantastico che faceva uscire dall’aria piccioni vivi, con lo stesso trucco che molti prestigiatori usano per far apparire monete. Adoro i prestigiatori e non capisco mai come fanno e li guardo sempre a bocca aperta. Quello fece qualcosa che doveva essergli concesso da un patto col diavolo. A un certo punto fece sostituire da una ballerina la sua bella assistente. L’assistente non era troppo vestita, ma la ballerina indossava, le scarpe a un’estremità e un cappello all’altra, e in mezzo c’era solo un sorriso. Il prestigiatore cominciò a estrarre piccioni dalla ragazza. Non credo a quello che vidi. Non c’è poi tanto spazio, e i piccioni farebbero solletico. Quindi non è mai successo. Però ho intenzione di tornare a vedere lo show da un altro angolo. Non può essere vero. Quando rientrammo al Dunes, Blondie voleva vedere lo spettacolo nel salone, ma Anna voleva andare a letto. Così io accettai di restare giù con Blondie. Burt disse di tenergli il posto; sarebbe tornato dopo aver accompagnato su Anna. Solo che non tornò. Quando salimmo, non mi sorprese trovare chiusa a chiave la porta della seconda stanza; prima di cena, il naso mi aveva avvertita che era improbabile che Burt mi calmasse i nervi per due notti di fila. Affari loro, e io non mi sentivo in calore. Burt era stato un signore con me quando ne avevo veramente bisogno. Pensai che forse Blondie ci sarebbe rimasta male, ma non fu così. Andammo a letto, ridacchiammo sul posto impossibile da cui erano usciti i piccioni, e ci addormentammo. Blondie russava piano quando io chiusi gli occhi. Mi svegliò di nuovo Anna, ma quel mattino non era seria; era raggiante. — Buongiorno, tesori! Fate la pipì e lavatevi i denti. La colazione arriva in due secondi. Burt sta uscendo dal bagno, quindi non perdete tempo. Verso la seconda tazza di caffè Burt disse: — Allora, amore? Anna disse: — Devo? — Forza, tesoro. — Va bene. Blondie, Friday… Spero che stamattina abbiate un po’ di tempo libero da concederci, perché vogliamo bene a tutte e due e vogliamo avervi con noi. Stamattina ci sposiamo. Blondie e io inscenammo ottime esibizioni di stupore totale e grande piacere, e saltammo su e li baciammo tutti e due. Nel mio caso, il piacere era sincero; la sorpresa era finta. Per Blondie mi parve che potesse essere il contrario, ma tenni per me i miei sospetti. Blondie e io uscimmo a comperare fiori, con l’accordo di trovarci più tardi alla cappella Gretna Green; e io fui sollevata e soddisfatta nello scoprire che Blondie sembrava felice della cosa sia in loro presenza sia in loro assenza. Mi disse: — Quei due sono perfetti l’uno per l’altra. Il progetto di Anna di diventare nonna professionista non mi è mai sembrato un granché. È una forma di suicidio. — Aggiunse: — Spero che tu non te la sia troppo presa. Ribattei: — Eh? Io? Perché diavolo dovrei prendermela? — L’altra notte Burt ha dormito con te. Stanotte con Anna, e oggi la sposa. Per certe donne sarebbe un colpo tremendo. — Cristo santissimo, perché? Non sono innamorata di Burt. Oh, lo amo perché è uno del vostro gruppo, uno di quelli che in una notte esagitata mi ha salvato la vita. Così l’altra notte ho cercato di ringraziarlo, e lui è stato dolcissimo con me. Quando ne avevo bisogno. Ma non è un buon motivo per aspettarmi che Burt si dedichi a me ogni notte o nemmeno semplicemente una seconda notte. — Hai ragione, Friday, ma non sono molte le donne della tua età capaci di pensare con tanta chiarezza. — Oh, non lo so. A me pare ovvio. Nemmeno tu ti sei sentita ferita. Stessa cosa. — Eh? Come sarebbe a dire? — Che è la stessa identica cosa. L’altra notte Anna ha dormito con te, stanotte con lui. Non mi sembri sconvolta. — Perché dovrei esserlo? — Non c’è motivo. Ma i casi sono paralleli. — (Blondie, non prendermi per un’idiota, tesoro. Non solo ho visto il tuo volto; l’ho anche intuito). — A dire il vero, mi hai un po’ sorpresa. Non credevo avessi certe inclinazioni. Naturalmente sapevo di Anna, e lei mi ha sorpresa portandosi a letto Burt. Non sapevo le piacessero. Gli uomini intendo. Nessuno mi ha mai detto che è stata sposata. — Oh. Sì, immagino che tu possa vederla così. Ma più o meno è come hai detto tu per Burt. Anna e io ci amiamo, da anni, e a volte lo esprimiamo a letto. Però non siamo innamorate. Tutte e due abbiamo una forte propensione per gli uomini, a prescindere dalle impressioni che puoi aver avuto l’altra notte. Quando Anna ti ha praticamente rubato Burt dalle braccia, sono stata contenta, a parte un pizzico di apprensione per te. Ma non troppa, perché tu hai sempre un branco di uomini che ti girano attorno, mentre ormai con Anna succede di rado. Così mi ha fatto piacere. Non mi aspettavo che si arrivasse al matrimonio, ma è grande. Siamo all’Orchidea Dorata… Cosa comperiamo? — Aspetta un momento. — La fermai all’esterno del negozio di fiori. — Blondie… Qualcuno, mettendo in pericolo la propria vita, si è catapultato nella camera da letto di quella fattoria tirandosi dietro una barella. Per me. Blondie si irritò: — Qualcuno parla troppo. — Io avrei dovuto parlare prima. Ti amo. Più di quanto ami Burt, perché ti amo da più tempo. Non ho bisogno di sposare lui e non posso sposare te. Ti amo e basta. Va bene? 26 Forse, in un certo senso, sposai Blondie. Dopo che Anna e Burt furono formalmente sposati, tornammo tutti all’hotel; Burt si trasferì con la moglie nell’«appartamento nuziale» (niente specchio sul soffitto, decorazioni interne in bianco e rosa anziché nero e rosso, per il resto la stessa zuppa; però molto più costoso), e Blondie e io lasciammo l’hotel e subaffittammo una piccola scatola da cracker nella zona dove la Charleston sfocia nella Freemont. Da lì potevamo raggiungere a piedi il marciapiede mobile che portava al Centro Lavoro, e Blondie aveva a disposizione mezzi di trasporto per tutti gli ospedali, e per me era facile fare compere; se no avremmo dovuto comperare o noleggiare cavallo o calesse, oppure biciclette. La posizione era l’unica virtù di quella casa, forse, ma per me era un cottage da luna di miele di fiaba, con le rose arrampicate su per la porta. Non aveva rose ed era brutta, e l’unica cosa moderna che contenesse era un terminale a prestazioni limitate. Ma per la prima volta in vita mia avevo una casa tutta per me ed ero una «donna di casa». La casa di Christchurch non era mai stata veramente mia; di sicuro non ne ero mai stata la padrona, e mi era sempre stato ricordato in svariati modi che ero un’ospite provvisoria, non una residente fissa. Lo sapete quant’è divertente comperare una casseruola per la vostra cucina? Divenni donna di casa subito, perché Blondie venne chiamata quel giorno stesso e cominciò a montare di turno dalle ventitré di sera alle sette del mattino. Il giorno dopo preparai la mia prima cena mentre Blondie dormiva… e bruciai le patate senza speranza e piansi, il che, a quanto ne so, è privilegio della donna di casa. Se è così, io ho già sfruttato il mio privilegio senza aspettare il giorno (arriverà?) in cui sarò una vera moglie; non una moglie fasulla come a Christchurch. Fui una donna di casa come si deve. Comperai persino semi di pisello odoroso e li piantai al posto della rosa rampicante che mancava alla porta; e scoprii che per fare giardinaggio non basta infilare semi nel terreno: quei semi non germogliarono. Così consultai la biblioteca di Las Vegas e acquistai un libro, un vero libro con pagine di carta e illustrazioni su quello che il giardiniere completo deve fare. Lo studiai. Lo imparai a memoria. Una cosa non feci: per quanto enormemente tentata, non presi un gattino. Blondie poteva sparire da un giorno all’altro; mi avvertì che se io fossi stata fuori casa, poteva partire senza nemmeno salutarmi (anch’io avevo avvertito Georges, e poi l’avevo fatto). Avessi preso un gattino, mi sarei assunta l’obbligo morale di tenerlo. Un corriere non può portarsi un micio dappertutto in una cesta da viaggio; non è il modo adatto di allevare un piccolo. Un giorno o l’altro sarei partita anch’io. Così non presi un gattino. A parte questo, godetti di tutte le calde delizie dell’essere donna di casa; comprese le formiche nello zucchero e una tubatura di scarico che si ruppe nel cuore della notte, due delizie che preferirei non ripetere. Fu un periodo molto felice. Blondie aggiustò gradualmente il mio modo di cucinare. Prima credevo di saper cucinare; adesso so farlo. E imparai a preparare il martini esattamente nel suo modo preferito: tre parti e mezzo di gin Beefeater, una di vermouth secco Noilly Prat, una shakerata, niente liquori amari; io invece bevevo Bristol Cream con ghiaccio. I martini sono troppo forti per me, ma capivo benissimo perché un’infermiera coi piedi indolenziti ne volesse uno appena rientrata a casa. Dio m’aiuti, se Blondie fosse stata un maschio avrei eliminato la mia sterilità e sarei stata contentissima di allevare bambini e piselli odorosi e gatti. Burt e Anna partirono per l’Alabama all’inizio di quel periodo, e prendemmo tutte le misure possibili per non perderci di vista. Non intendevano vivere lì, ma Anna pensava di dovere una visita alla figlia (e doveva a se stessa, credo, l’occasione di sfoggiare il nuovo marito). In seguito intendevano arruolarsi con una compagnia militare o semi-militare, purché accettassero di prenderli tutti e due e lasciarli assieme. In combattimento. Sì. Erano tutti e due stanchi del lavoro di ufficio; tutti e due erano pronti a retrocedere di grado pur di lasciare la riserva e unirsi a una squadra operativa. — Meglio un’ora densa di vita che un intero ciclo di Catai. — Può darsi. Era la loro vita. Io continuai a frequentare il Centro Lavoro perché sarebbe arrivato il giorno in cui non solo avrei voluto partire, ma avrei dovuto. Blondie lavorava sodo e insisteva per pagare tutte le spese di casa. Io tenni duro e pretesi di pagare la mia metà fino al millesimo. Dato che tenevo il conto di ogni dollaro, sapevo esattamente cosa costasse vivere a Las Vegas. Troppo, anche in una scatola da cracker. Una volta partita Blondie, avrei potuto sopravvivere qualche mese, poi avrei fatto bancarotta. Ma non sarei rimasta. Un cottage da luna di miele non è un buon posto per vivere soli. Continuai a tentare di raggiungere Georges e Ian e Janet, Betty e Freddie, ma mi limitai a due volte al mese; le bollette del terminale erano considerevoli. Due volte la settimana trascorrevo mezza giornata al Centro Lavoro, controllando dappertutto. Non mi aspettavo più di trovare un lavoro da corriere che valesse la metà di quello con Boss, ma passavo sempre alle multinazionali, che in effetti usavano i corrieri con una buona esperienza. E controllavo tutte le altre possibili fonti di lavoro, in cerca di qualcosa, qualunque cosa richiedesse i miei insoliti talenti. Boss aveva lasciato intendere che sono una specie di superuomo; se è vero, posso testimoniare che la richiesta di superuomini è scarsissima. Riflettei sulla possibilità di studiare per diventare croupier o giocatore professionista; poi passai quella possibilità in fondo all’elenco. Un buon giocatore o esperto di dadi o croupier può lavorare molti anni con ottimi salari; ma per me sarebbe stata la noia assoluta. Un modo di sopravvivere, ma non vita. Meglio arruolarmi come soldato semplice e cercare di fare carriera. Ma c’erano altre possibilità che non avevo mai preso in considerazione. Prendete queste: Madre ospite — Regolarmente autorizzata, con garanzia TransAmerica e/o Lloyd. Niente sovrapprezzi per parti multipli fino al quadrigemellare. Tariffe da concordare. Tariffa standard per colloquio con esame medico del fisiometrista di vostra scelta. BABIES UNLIMITED, Inc. LV 7962M 4/3 Potevo cercare di firmare con la Babies Unlimited o diventare libera professionista. La mia attuale condizione di sterilità sarebbe stata un punto di forza, perché la cosa che i clienti delle madri ospiti temono di più è la donna che tira il bidone; cioè che resta incinta appena prima di offrirsi come ospite. La sterilità non è un handicap, visto che l’obiettivo non è produzione dell’ovulo; il tecnologo opera semplicemente delle modifiche per cambiare la chimica dell’organismo e renderlo adatto all’impianto. L’ovulazione è solo un fastidio. Avere figli per altra gente poteva essere un rimedio temporaneo, però possibile: rendeva bene. CERCASI: moglie per 90 giorni di vacanza extraplanetaria. Tutte le spese pagate, lusso 9+, premio e tariffe sindacali. Razza bianca, allegria temperamentale 8, capacità amatorie 7 o più. Il cliente possiede una licenza di procreazione dell’Impero di Chicago. La cederà alla moglie dei 90 giorni se resterà incinta, oppure si sottoporranno tutti e due a sterilizzazione per 120 giorni, a scelta della donna. Contattare Amelia Trent, Ruffiana Autorizzata, 18/20 New Cortex Mezzanine. Un buon affare per chi desidera tre mesi di vacanze e ama la roulette russa. Per me, la gravidanza non era un rischio, e la mia classificazione in fatto di capacità sessuali è superiore al sette; di molto! Ma le tariffe sindacali per le etere dello Stato Libero non sono tanto alte da giustificare la perdita della possibilità di un lavoro più continuativo; e quel cliente senza faccia doveva essere mortalmente noioso, se no non avrebbe assunto una sconosciuta da infilare nel letto delle vacanze. NECESSITÀ URGENTE — Due ingegneri spazio-temporali, sesso indifferente esperti di progettazione n-dimensionale. Devono essere disposti a rischiare trasferimento temporale irreversibile. Creatività-Divertimenti-Assicurazione Termini da negoziare Babcock and Wilcox, Ltd. Rivolgersi a Wall Street Journal, LV Cr La Questo qui sopra è esattamente il tipo di lavoro che volevo. L’unico guaio era che non possedevo la minima preparazione professionale. La prima Chiesa Plasmita («In principio era il Plasma, privo di forma e vuoto») subito dopo il Centro aveva un pannello che riportava gli orari delle cerimonie. Un pannello più piccolo a lettere mobili, incluso nell’altro, attirò la mia attenzione: «La Prossima Vergine Sarà Sacrificata alle 02,51 del 22 ottobre.» Quello che pareva un posto fisso, ma di nuovo io non ero qualificata. Restai affascinata. Mentre guardavo a bocca aperta, un uomo uscì e cambiò il pannello e io mi resi conto di aver perso il sacramento della notte prima. Il sacrificio seguente era lì a due settimane, il che mi lasciò imperterrita. Ma la mia curiosità, come al solito, ebbe la meglio. Chiesi all’uomo: — Sacrificate davvero le vergini? Lui rispose: — Non io. Io sono solo un accolito. Però… Be’, no, in effetti non devono essere vergini. Però devono sembrare vergini. — Mi squadrò dalla testa ai piedi. — Tu potresti andare. Vuoi entrare a parlare col sacerdote? — No, no. Vuoi dire che le sacrificano sul serio? Lui mi guardò un’altra volta. — Sei nuova di qui, eh? Lo ammisi. — Mettiamo così — disse lui. — Se tu cercassi gente per uno di quei film in cui gli attori vengono uccisi sul serio, gli snuff, entro mezzogiorno avresti trovato tutti i tuoi interpreti, e nemmeno uno ti chiederebbe se dovrà lasciarci davvero la pelle. Questa città è fatta così. Può darsi. È più probabile che io sia una zerbinotta scesa in città. O forse tutte e due le cose. C’erano un sacco di annunci per lavori sui pianeti esterni, o per cose che avevano a che fare coi pianeti esterni. Non pensavo di dovermi trovare un impiego in quel settore perché mi aspettavo di partire come colona con tanti soldi a disposizione da poter scegliere liberamente il pianeta che preferivo, da Proxima, quasi a portata di mano, al Regno così lontano che merci e persone viaggiavano su navi-n; solo che le ultime notizie dal Regno erano che il Primo Cittadino lo aveva chiuso a tutti gli emigranti, a prescindere da quanto potesse pagare, fatta eccezione per certi artisti e scienziati con trattative individuali. Non che io volessi andare al Regno, a dispetto della sua reputazione di ricchezza. Troppo lontano! Ma quelli di Proxima sono i vicini più vicini; dall’Isola del Sud il loro sole è diritto sopra la testa, una stella luminosa. Simpatica. Ma lessi tutti gli annunci. La divisione Transuranica Oro cercava per Golden (Procione B) ingegneri minerari, qualificati per supervisore coboldi, cinque anni rinnovabili, premio d’ingaggio, premi di produzione. L’annuncio non diceva che è raro che un umano non modificato sopravviva cinque anni su Golden. Le Linee Iper-Spazio reclutavano per la rotta al Regno via Proxima, Avamposto, Paese di Cuccagna, Foresta, Botany Bay, Alcione e Mezzavia. Quattro mesi per il viaggio completo da Stazione Stazionaria, un mese di ferie pagate sulla Terra o sulla Luna, e via un’altra volta. Saltai le competenze richieste e gli stipendi offerti per ultra-astrogatori e specialisti di contrazione spaziale e supercargo e addetti alle comunicazioni e personale medico, ma controllai le altre categorie: Cameriere, steward di cabina, carpentiere, elettricista, idraulico, elettronico, elettronico (computer), cuoco, fornaio, vicechef, lavandaio, chef, cuoco specializzato, barista, croupier giocatore, animatore turistico, olografo/fotografo, odontotecnico, cantante, istruttore di danza, supervisore ai giochi, dama di compagnia-segretaria-cameriera, assistente direttore di crociera, maestro di disegno, istruttore di carte, hostess, maestro di nuoto, infermiera, infermiera/pediatra, addetto alla sicurezza (armato), addetto alla sicurezza (disarmato), direttore d’orchestra/di banda, regista teatrale, musicista (erano citati ventitré strumenti, ma era richiesta la conoscenza di due o più), estetista, parrucchiere, massaggiatore, impiegato di negozio, impiegato specialista in vendite all’ingrosso, direttore di vendite, guida escursionistica… E questo è solo un assaggio. In generale, se si fa qualcosa a terra, si fa anche (o si fa l’equivalente) in cielo. Non so nemmeno come tradurre alcuni dei lavori legati ad attività esclusive dello spazio; che diavolo (o che angelo) è un «iperchioscatore l/c»? Una professione elencata era quella di etera, anche se le Linee IperSpazio si vantano di aderire al Codice Diritti Uguali per Tutti. Per comunicazione orale venni informata di quanto fossero uguali quei diritti. Se volete essere assunti per uno dei lavori non troppo tecnici, è di enorme aiuto essere giovani, belli/carini, sani, infoiati, bisessuali, affamati di soldi, e aperti a ogni ragionevole proposta. Lo stesso capitano di porto tiene i piedi in due staffe ed era stato commissario di bordo della vecchia Newton dopo essere partito dalla gavetta come steward. Nei giorni in cui solcava i cieli, ha sempre fatto in modo che i suoi passeggeri di prima classe avessero tutto quello che volevano; e che pagassero bene per averlo. Come capitano di porto, è ancora il suo obiettivo. Si dice che agli scapoli preferisca le coppie sposate o affini, se sanno lavorare in squadra a letto e fuori. Al Centro ho sentito la storia di una coppia gigolò/etera che si è arricchita in soli quattro viaggi: maestri di danza al mattino, maestri di nuoto al pomeriggio, cavalieri e dama di ballo, prima e dopo cena, due canzoni e una farsa, poi, di notte, intrattenimenti privati singoli o di coppia. Quattro viaggi, ed erano pronti ad andare in pensione… E dovettero andarci perché furono licenziati: non erano più molto attraenti, non splendevano più di vitalità; avevano tenuto quel ritmo assurdo a furia di stimolanti e calmanti. Non credo che i soldi possano tentarmi tanto. Sono pronta a restare sveglia di notte più o meno tutte le volte che me lo chiedono, ma il giorno dopo voglio recuperare le ore di sonno. Mi chiesi come mai le Linee IperSpazio, che disponevano di quattro sole navi passeggeri, assumessero in continuazione tutto quel mare di personale. L’agente reclutatore della linea mi chiese: — Davvero non lo sai? Le risposi di no. — A tre delle nostre fermate occorrono quintali e quintali di materia che fa girare il mondo per comperarsi la residenza. Altre tre non sono economiche, anche se certe capacità vengono accettate al posto dei contributi in denaro. Solo uno è un pianeta gratuito, e lì la diserzione è un grosso problema. Paese di Cuccagna è un posto così desiderabile che anni fa il primo ufficiale della Dirac ha piantato la nave. La compagnia non ha troppi problemi col personale reclutato qui… Ma immagina di abitare a Rangoon o Bangkok o Canton, e stai scaricando merce su Alcione e il sorvegliante ti toglie gli occhi di dosso quanto basta. Tu cosa faresti? La donna scrollò le spalle e continuò: — Non ti sto confidando segreti. Chiunque ci rifletta un attimo capisce che per molta gente l’unico modo di lasciare la Terra, magari di arrivare solo alla Luna, è arruolarsi come membro di un equipaggio, poi abbandonare la nave. Lo farei anch’io, se potessi. — Perché non lo fai? — chiesi. — Perché ho un figlio di sei anni. (Dovrei imparare a impicciarmi degli affari miei!) Alcuni annunci eccitarono la mia immaginazione. Eccone uno: Nuovo Pianeta Appena Aperto — Tipo T-8 Massimo Pericolo Garantito Solo Coppie o Gruppi Piano di Sopravvivenza Super Churchill e Figlio, Agenti Immobiliari Las Vegas Centro Lavoro 96/98 Ricordavo qualcosa che mi aveva detto Georges, che ogni pianeta al di sopra dell’ottavo livello della scala terrestre richiedeva almeno un grosso premio d’ingaggio. Ma adesso ne sapevo di più su quella scala: otto era il livello base della Terra stessa. Buona parte di questo pianeta non si era lasciata domare facilmente. Spesso si era dovuto fare tutto da capo, ricostruire. Lo stesso terreno su cui mi trovavo in quel momento era buono solo per lucertoloni velenosi e serpenti del deserto finché non era stato trattato con tonnellate di denaro e molte, molte tonnellate d’acqua. Chissà cosa significava «massimo pericolo»: qualcosa che richiedeva i talenti di una donna piuttosto veloce nei momenti difficili? L’idea di finire a capo di un plotone d’amazzoni non mi attirava troppo, perché qualcuna delle mie ragazze sarebbe finita ammazzata e io ci sarei rimasta male. Ma non mi sarebbe dispiaciuto affrontare una tigre dai denti a sciabola, o l’equivalente, perché ero certa di potermi avvicinare, colpirla e andarmene prima che quella si rendesse conto che era successo qualcosa. Forse un T-8 primitivo per Friday sarebbe stato meglio di un posticino laccato come Paese di Cuccagna. D’altro canto, quel «massimo pericolo» poteva derivare da troppi vulcani o troppa radioattività. Chi ha voglia di diventare fosforescente? Informati bene, Friday; non avrai due occasioni. Quel giorno restai al Centro fino a tardi, perché Blondie faceva ancora il turno di notte. Le avevo servito la cena al mattino, quando era tornata a casa; l’avevo messa a letto verso le dieci, sperando che riuscisse a dormire fino alle diciotto. Così bivaccai finché gli uffici del Centro non cominciarono a chiudere. Quando rientrai, la nostra casa era al buio, e io ne fui contenta, perché significava che Blondie non si era ancora svegliata. Con un po’ di fortuna avrei potuto servirle la colazione prima che si alzasse. Così entrai in punta di piedi… e mi resi conto che la casa era vuota. Non cercherò di definire il fenomeno, ma una casa vuota non da le sensazioni, l’odore, i suoni o il gusto di una casa dove qualcuno sta dormendo. Andai diritta in camera da letto: letto deserto. Accesi le luci e lo trovai: un lungo stampato per me al terminale. Cara Friday, ormai ho l’impressione che non tornerai prima della mia partenza, e probabilmente è meglio, perché ci metteremmo a piangere tutte e due e non servirebbe a niente. Ho trovato un lavoro, ma non nel modo che prevedevo. Tenermi in contatto col mio vecchio boss ha dati i suoi frutti. Il dottor Krasny mi ha chiamata dopo che ero appena andata a letto. È ufficiale comandante di un nuovo ospedale da campo in via di allestimento per gli Scout di Sam Houston. Non sono scout normali, ovviamente; ogni battaglione serve da quadro per una squadra triangolare di combattimento, una brigata in miniatura. Non dovrei dirti da dove partiamo o dove andiamo, ma (brucia questo stampato dopo averlo letto!) se tu ti spostassi in direzione ovest da Plainview, potresti imbatterti in noi a Los Llanos Estacados, prima di arrivare a Portales. Dove andremo? Questa è davvero un’informazione classificata! Ma se non raggiungiamo Ascension, diverse mogli cominceranno a incassare la pensione del marito. Ho chiamato Anna e Burt; mi raggiungeranno a El Paso alle diciotto e dieci (18,10? Allora Blondie è già in Texas. Mio Dio!) perché il dottor Krasny mi ha assicurato che ci sarà lavoro anche per loro, o come combattenti o come ausiliari medici se dovessero sorgere complicazioni. C’è un posto anche per te, mia cara; in prima linea, se vuoi. Oppure ti classificherò paramedico-3 e ti terrò con me e ti porterò al grado di sergente maggiore (medico) in un lampo, perché conosco le tue qualità e le conosce anche il dottor Krasny. Sarebbe bello tornare assieme tutti e quattro, cioè tutti e cinque. Ma non voglio costringerti a nulla. So che sei preoccupata per quei tuoi amici canadesi scomparsi. Se pensi di dover restare libera come l’aria per cercarli, che Dio ti benedica e buona fortuna. Ma se vuoi tuffarti nell’azione con un’ottima paga, vieni subito a El Paso. L’indirizzo è Panhandle Investments, Divisione El Paso, Ufficio Operazioni, Fattori Ambientali, John Krasny, Ingegnere capo; e non ridere: imparalo a memoria e distruggilo. Quando si sarà sparsa la notizia ufficiale dell’operazione, potrai raggiungerci senza problemi tramite l’ufficio di Houston degli Scout. Ma per il momento io sono il «capo personale» dei «Fattori Ambientali». Che un Dio benevolo si prenda cura di te e ti protegga da ogni male. Con tutto il mio amore, Blondie. 27 Bruciai immediatamente lo stampato. Poi andai a letto. Non avevo voglia di cenare. Il mattino dopo andai al Centro Lavoro, mi presentai al signor Fawcett, agente delle Linee IperSpazio e gli dissi che volevo arruolarmi come addetto alla sicurezza disarmato. Quel verme arrogante mi rise in faccia. Cercai sostegno morale nella sua assistente, ma quella distolse gli occhi. Frenai l’ira e chiesi dolcemente: — Vi spiacerebbe spiegarmi cosa c’è da ridere? Lui la piantò col suo gracchiare rauco e disse: — Senti, pollastra, addetto è maschile. Anche se potremmo assumerti come addetto a qualche altro ramo di attività. — La vostra insegna dice che seguite il Codice Diritti Uguali per Tutti. E sotto, a lettere piccole, c’è scritto che cameriere significa anche cameriera, steward significa stewardess, eccetera. È vero? Fawcett smise di sorridere. — Assolutamente vero. Ma c’è anche scritto FISCAMENTE ADATTI A SVOLGERE LE MANSIONI RICHIESTE DALLA POSIZIONE. Su una nave, l’addetto alla sicurezza è un agente di polizia. L’addetto alla sicurezza disarmato è un poliziotto che deve saper mantenere l’ordine senza ricorrere alle armi. Deve sapersi aprire la strada in una zuffa e arrestare l’epicentro del casino, a mani nude. È chiaro che tu non puoi farlo. Quindi non rompermi le scatole con le tue proteste sindacali. — Non andrò ai sindacati. Però voi non avete letto il mio curriculum. — Non vedo che importanza abbia. Comunque… — Lanciò un’occhiata distratta al foglio. — Qui dice che sei un corriere da combattimento, qualunque cosa sia. — Significa che quando ho un lavoro da fare, non mi ferma nessuno. Se qualcuno ci prova con troppa insistenza, è carne da macello. Un corriere viaggia disarmato. A volte ho un coltello laser o una bomboletta di lacrimogeno. Però dipendo principalmente dalle mie mani. Date uno sguardo al mio addestramento. Lui guardò. — Okay, sei stata a una scuola di arti marziali. Questo non significa che tu possa affrontare un bestione che pesa cento chili più di te ed è più alto di mezzo metro. Non farmi perdere tempo, ragazzina. Non riusciresti ad arrestare nemmeno me. Raggiunsi la sua scrivania, poi lo trascinai di peso alla porta e lo lasciai andare prima che qualcuno fuori vedesse. Non vide nemmeno la sua assistente; fece uno sforzo del diavolo per non vedere. — Voilà — dissi. — Ci riesco senza fare del male a nessuno. Ma voglio essere messa alla prova col vostro addetto alla sicurezza più grosso. Gli romperò il braccio. A meno che non mi chiediate di rompergli il collo. — Mi hai preso quando non guardavo! — Naturale. È così che affronto un ubriaco indemoniato. Però adesso state guardando, per cui rifacciamolo da capo. Siete pronto? Questa volta dovrò farvi un po’ di male, ma non troppo. Non romperò nemmeno un osso. — Ferma dove sei! È ridicolo. Noi non assumiamo addetti alla sicurezza semplicemente perché conoscono qualche trucchetto orientale. Assumiamo uomini grossi, tanto grossi da imporre rispetto solo per le dimensioni fisiche. Così non si picchiano con nessuno. — Okay — dissi. — Assumetemi come poliziotto in borghese. Mettetemi in abito da sera e piazzatemi nel salone da ballo. Quando qualcuno delle mie dimensioni un po’ su di giri tirerà un colpo al plesso solare del vostro grosso poliziotto e quello si piegherà in due, io smetterò di fingere di essere una signora e correrò a dargli una mano. — I nostri addetti alla sicurezza non hanno bisogno di protezione. — Forse. Un uomo molto grosso in genere è lento e goffo. Sa pochissimo dell’arte di combattere perché non ha mai dovuto fare a pugni. Va bene per mantenere l’ordine a un tavolo da poker. O per sistemare un ubriaco. Ma immaginiamo che il capitano abbia bisogno di vero aiuto. Una rivolta. Un ammutinamento. A quel punto, vi occorre qualcuno che sappia combattere. Io. — Lascia la tua domanda alla mia assistente. Non chiamarci. Ti chiameremo noi. Tornai a casa e mi chiesi da che altre parti potessi cercare; oppure dovevo andare in Texas? Col signor Fawcett avevo fatto lo stesso stupido, imperdonabile errore che avevo già fatto con Brian… E Boss si sarebbe vergognato di me. Invece di raccogliere la sua sciocca sfida avrei dovuto insistere per una prova equa di professionalità; ma non avrei mai dovuto sfiorare con un dito l’uomo che poteva offrirmi lavoro. Stupida, Friday, stupida. Non mi preoccupava il fatto di avere perso quel posto; era che ormai avevo perso qualunque possibilità di trovare un lavoro nelle Linee IperSpazio. Un posto dovevo trovarlo al più presto, per provvedere al sacro dovere di riempire lo stomaco di Friday (ammettiamolo, io mangio come un porcellino), ma non era detto che il lavoro dovesse essere proprio quello. Avevo deciso di partire con la IperSpazio perché un solo viaggio con loro mi avrebbe permesso di vedere di persona più di metà dei mondi colonizzati nello spazio sconosciuto. Ormai non avevo più dubbi. Dovevo seguire il consiglio di Boss, emigrare; ma l’idea di scegliere un pianeta solo in base agli opuscoli delle agenzie pubblicitarie, senza la garanzia soddisfatti-o-rimborsati, mi turbava. Prima volevo fare ricognizione coi miei occhi. Per esempio: Eden è stato pubblicizzato e strombazzato più di ogni altra colonia spaziale. Udite le sue virtù: un clima simile a quello della California del Sud su quasi tutte le terre emerse, nessun predatore pericoloso, niente insetti fastidiosi, gravità di superficie inferiore del nove per cento a quella terrestre, undici per cento in più di ossigeno presente nell’aria, ambiente metabolico compatibile con la vita terrestre e suolo talmente ricco che due o tre raccolti giganti l’anno sono la norma. Panorama delizioso dappertutto. Popolazione attuale inferiore ai dieci milioni. Dove sta il trucco? Lo scoprii una sera a Luna City, quando mi lasciai rimorchiare e portare a cena da un ufficiale spaziale. La compagnia faceva pagare salatissima la residenza su Eden fin dal giorno in cui lo avevano scoperto, ed era considerato il posto ideale per andare in pensione. In effetti, lo è. Dopo il lavoro preparatorio del primo gruppo di pionieri, i nove decimi della popolazione emigrata lì son composti da gente vecchia e ricca. Il governo è una repubblica democratica, però non come nella Confederazione Californiana. Per avere diritto al voto, una persona deve avere settanta anni terrestri ed essere un contribuente regolare (cioè possedere terreni). Gli abitanti fra i venti e i trent’anni sono soggetti al servizio pubblico, e se pensate che questo significhi prendersi cura degli anziani giorno e notte avete perfettamente ragione; però significa anche svolgere tutti gli altri compiti più sgradevoli e più necessari, cioè lavori che sarebbero pagati profumatamente se la legge non obbligasse a farli gratis. Di tutto questo si parla negli opuscoli pubblicitari della compagnia? Non fatemi ridere! Dovevo conoscere tutte le realtà di ogni singolo pianeta che vengono tenute nascoste prima di comperare il mio biglietto di sola andata. Però avevo distrutto la mia migliore occasione «dimostrando» al signor Fawcett che una donna disarmata può neutralizzare un uomo più grosso di lei. In quel modo, ero finita sulla sua lista nera. Spero di crescere prima di arrivare al giorno del respiro Cheyne-Stokes. Boss disprezzava il fatto di piangere sul latte versato quanto l’autocommiserazione. Vanificata la possibilità di essere assunta dalla IperSpazio, era tempo di lasciare Las Vegas, intanto che avevo ancora due soldi. Se non potevo fare il Grande Giro Turistico di persona, avevo ancora un modo per scoprire la verità sulle colonie spaziali, come l’avevo scoperta su Eden: coltivare gli equipaggi delle navi spaziali. Per farlo dovevo trasferirmi nell’unico posto dove ero sicura di trovarli: a Stazione Stazionaria, via Piantadifagiolo. Le navi da carico non si sarebbero mai avvicinate troppo al campo gravitazionale della Terra; al massimo sarebbero arrivate a Elle-Quattro-Cinque, cioè all’orbita lunare senza lo svantaggio di entrare nel campo gravitazionale della Luna. Ma le navi passeggeri di solito atterravano a Stazione Stazionaria. Tutti gli incrociatori giganti delle Linee IperSpazio (Dirac, Newton, Forward e Maxwell) partivano da lì, tornavano lì, ricevevano manutenzione e rifornimenti lì. Il complesso Shipstone aveva una dipendenza lì (Shipstone Stazionaria), soprattutto per vendere energia alle navi, e in particolare a quelle grosse navi. Ufficiali e membri d’equipaggio che avevano concluso il turno di servizio arrivavano lì e ripartivano da lì; chi era di servizio poteva dormire sulle navi, ma era più probabile che bevesse e mangiasse e facesse baldoria alla Stazione. Non mi piace la Piantadifagiolo e non vado matta per la Stazionaria. A parte la visuale spettacolare e sempre diversa della Terra, ha da offrire solo prezzi alti e locali da claustrofobia. La gravità artificiale ha sbalzi molto sgradevoli e sembra sempre sul punto di sparire, giusto in tempo per scaraventarvi in faccia la minestra. Però ci si può lavorare, se non si va troppo per il sottile. Sarei dovuta riuscire a sopravvivere quanto bastava per avere la certezza di ricevere opinioni franche su tutte le colonie spaziali da uno o più assatanati uomini d’equipaggio. Era persino possibile che riuscissi a scavalcare Fawcett, imbarcandomi da lì con la IperSpazio. A quanto si dice, le navi arruolano sempre qualcuno all’ultimo minuto, per coprire buchi imprevisti. Se mi si fosse offerta una possibilità del genere, avrei desistito dalla mia follia; non avrei chiesto il posto di addetto alla sicurezza. Cameriera, sguattera, valletta di camera, addetta ai bagni; un lavoro qualunque, purché mi permettesse di fare il Grande Giro Turistico. Dopo aver scelto la mia nuova patria, avrei atteso con impazienza di imbarcarmi sulla stessa nave, per mia libera volontà come passeggera di prima classe; con tutte le spese pagate, in base alle bizzarre disposizioni testamentarie del mio patrigno. Avvertii il proprietario della trappola per topi in cui vivevo, poi provvidi a qualche ultimo impegno prima di partire per l’Africa. L’Africa: avrei dovuto passare da Ascención? Oppure gli Sb avevano ripreso a funzionare? L’Africa mi fece pensare a Blondie, e ad Anna e a Burt, e al dolce doc Krasny. Forse sarei arrivata in Africa prima di loro. Irrilevante, dal momento che lì esisteva un solo possibile epicentro di guerra (a quanto ne sapevo), e volevo evitare quella zona come la peste. La peste! Dovevo preparare immediatamente un rapporto sulla peste per Gloria Tomosawa e per i miei amici di Elle-Cinque, il signore e le signore Mortenson. Era assurdamente improbabile che le mie parole potessero convincere loro o chiunque altro che entro due anni e mezzo sarebbe scoppiata un’epidemia di Morte Nera; all’inizio non ci credevo nemmeno io. Però, se fossi riuscita a trasmettere a persone responsabili un minimo di disagio, in modo che le misure antitopi venissero rafforzate e i controlli sanitari alle barriere Dsi diventassero qualcosa di più di un inutile rituale, forse, solo forse, le colonie spaziali e la Luna si sarebbero salvate. Improbabile; ma dovevo tentare. L’unica altra cosa che mi restasse da fare era un ultimo tentativo coi miei amici scomparsi; dopo di che, avrei abbandonato le ricerche finché non fossi tornata da Stazione Stazionaria o (mai perdere le speranze!) dal Grande Giro Turistico. Certo, da Stazione Stazionaria si può chiamare Sydney o Winnipeg o qualunque altro posto, ma costa molto di più. Ultimamente avevo scoperto che volere qualcosa e potersi permettere di pagarla sono due cose molto diverse. Feci il codice di Winnipeg dei Tormey, rassegnata a sentirmi rispondere: «Il numero che avete chiamato è temporaneamente fuori servizio dietro richiesta dell’abbonato». Quello che sentii fu: — Pizzeria I Pirati! Borbottai. — Chiedo scusa, ho sbagliato numero — e chiusi. Poi rifeci il codice, con estrema cura… e sentii: — Pizzeria I Pirati! Questa volta dissi: — Scusate il disturbo. Mi trovo nello Stato Libero di Las Vegas e sto cercando di raggiungere un amico a Winnipeg, ma mi avete risposto due volte voi. Non capisco quale sia lo sbaglio. — Che codice avete battuto? Diedi il codice a quella voce simpatica. — Siamo noi — confermò la voce. — Le migliori pizze giganti del Canada Britannico. Però abbiamo aperto solo da dieci giorni. Forse il vostro amico aveva questo codice? Convenni all’idea, ringraziai, interruppi la comunicazione; e restai a pensare. Poi chiamai l’Anzac di Winnipeg, con lo struggente desiderio che quel terminale a prestazioni minime non si limitasse, per le immagini, alla sola Las Vegas; se cerchi di fare il detective, è utile vedere in faccia gli altri. Mi rispose il computer dell’Anzac e io chiesi subito il funzionario operativo di turno; ormai sapevo come affrontare quel computer. Dissi alla donna che rispose. — Sono Friday Jones, un’amica neozelandese del capitano e della signora Tormey. Ho provato a chiamarli a casa e non li trovo. Potresti aiutarmi voi? — Temo di no. — Davvero? Nemmeno un suggerimento? — Mi spiace. Il capitano Tormey ha dato le dimissioni. Ha persino incassato la liquidazione. A quanto so ha venduto la casa, per cui immagino che se ne sia andato da qui per sempre. So che l’unico suo indirizzo che abbiamo è l’indirizzo del cognato, all’università di Sydney. Ma non possiamo dare indirizzi. Dissi: — Credo alludiate, al professor Federico Farnese, dipartimento di biologia dell’università. — Esatto. Vedo che lo sapete già. — Sì. Freddie e Betty sono vecchi amici. Li conoscevo quando abitavano ad Auckland. Be’, aspetterò di essere a casa per chiamare Betty, così potrò parlare anche con Ian. Grazie della cortesia. — Non c’è di che. Se trovate il capitano Tormey, ditegli per favore che il secondo pilota Pamela Heresford gli manda i suoi saluti. — Me ne ricorderò. — Se dovete tornare a casa presto, ho buone notizie per voi. La linea per Auckland è di nuovo in piena attività. Abbiamo fatto solo trasporto merci per dieci giorni e adesso siamo certi che i sabotaggi alle nostre navi sono impossibili. Per di più offriamo anche uno sconto del quaranta per cento su tutte le tariffe. Vogliamo ritrovare tutti i nostri vecchi amici. La ringraziai di nuovo ma le dissi che, trovandomi a Vegas, prevedevo di partire da Vandenberg, poi chiusi prima di dover improvvisare altre bugie. Mi misi a riflettere un’altra volta. Se gli Sb avevano ripreso a funzionare, dovevo prima andare a Sydney? C’era, o almeno c’era in passato, una traiettoria settimanale dal Cairo a Melbourne, e viceversa. Se non era ancora in attività, era possibile arrivare a Nairobi in sotterranea e shuttle via Singapore, Rangoon, Delhi, Teheran, Cairo; ma sarebbe stato costoso, lungo e insicuro, con rischi a ogni tappa e la continua possibilità di trovarmi bloccata da qualche pasticcio locale. Magari sarei finita in Kenia senza i soldi per prendere la Piantadifagiolo. Un’ultima risorsa. Una risorsa disperata. Chiamai Auckland, e non mi sorprese sentire che il codice di Ian era disattivato. Controllai che ora fosse a Sydney, poi chiamai l’università, senza passare per l’amministrazione, ma arrivando direttamente al Dipartimento di biologia: un numero che avevo ottenuto un mese prima. Riconobbi un accento australiano familiare. — Marjorie Baldwin, Irene. Sono ancora in cerca della mia pecorella smarrita. — Diavolo! Tesoro, ho tentato, te lo giuro, di trasmettere il tuo messaggio. Ma il professor Freddie non è mai tornato in ufficio. Ci ha piantati. Se n’è andato. — Andato? Andato dove? — Non hai idea di quanta gente vorrebbe saperlo. Non dovrei raccontarti nemmeno questo. Qualcuno ha ripulito la sua scrivania, nel suo appartamento non c’è più un capello. Scomparso! Non posso dirti più di questo perché nessuno sa niente. Dopo quella comunicazione enigmatica restai ancora a pensare, poi chiamai i Licantropi di Winnipeg. Arrivai il più in alto possibile, fino a un uomo che disse di essere vicecomandante, e gli spiegai sinceramente chi ero (Marjorie Baldwin), dove mi trovavo (Las Vegas), e cosa volevo, un indizio per rintracciare i miei amici. — La vostra agenzia sorvegliava la loro casa prima che la vendessero. Potete dirmi chi l’ha comperata, o qual era l’agenzia immobiliare che l’ha venduta, o tutte e due le cose? Dopo di che desiderai ancora di più il video, oltre all’audio! Quello mi rispose: — Senti, io fiuto uno sbirro anche da un terminale. Riferisci al tuo capo che non ha cavato niente da noi l’ultima volta, e non caverà nulla neppure ora. Mi diedi una calmata e ribattei dolcemente: — Non sono uno sbirro, anche se capisco perché la pensiate così. Sono davvero a Las Vegas. Potete averne conferma se mi richiamate a mie spese. — La cosa non m’interessa. — Molto bene. Il capitano Tormey possedeva una pariglia di Morgan neri. Potete dirmi chi li ha comperati? — Sbirro, fottiti. Ian aveva fatto un’ottima scelta: i Licantropi erano davvero fedeli ai clienti. Avessi avuto tanto tempo e tanti soldi, avrei potuto concludere qualcosa andando a Winnipeg e/o Sydney e mettendomi a scavare in proprio. Se i desideri avessero le ali… Lascia perdere, Friday. Adesso sei completamente sola. Non li ritroverai. Hai tanta voglia di rivedere Blondie da farti coinvolgere in una guerra nell’Est africano? Ma Blondie non aveva tanta voglia di restare con te da rinunciare a quella guerra; questo ti dice niente? Sì, mi dice qualcosa che so ma odio ammettere: io ho sempre bisogno degli altri più di quanto gli altri abbiano bisogno di me. È la tua vecchia insicurezza di base, Friday, e sai da dove viene e sai cosa ne pensava Boss. D’accordo, domani andremo a Nairobi. Oggi scriviamo il rapporto sulla Morte Nera per Gloria e i Mortenson. Poi ci facciamo una bella notte di sonno e partiamo. Ehi, ci sono undici ore di differenza di fuso orario; cerca di darti una mossa in fretta. E non preoccuparti più per Janet e soci finché non sarai tornata dalla Piantadifagiolo e avrai deciso dove emigrare. Allora potrai permetterti di spendere il tuo ultimo grammo d’oro nell’estremo tentativo di rintracciarli… Perché Gloria Tomosawa penserà a tutto, quando le avrai detto che pianeta hai scelto. Mi feci davvero una bella notte di sonno. Il mattino dopo avevo preparato i bagagli (la solita vecchia sacca, semivuota) e mi aggiravo in cucina, gettando alcune cose e mettendone da parte altre scrivendo un biglietto per il padrone di casa, quando squillò il terminale. Era la ragazza simpatica della IperSpazio, quella col figlio di sei anni. — Lieta di averti trovata — disse. — Il mio capo ha un lavoro per te. (Timeo Danaos et dona ferentes.) Aspettai. Apparve la faccia idiota di Fawcett. — Dici di essere un corriere. — Sono il migliore. — In questo caso, meglio per te se non esageri. È un lavoro interplanetario. Okay? — Certo. — Scrivi. Franklin Mosby, Finders Inc., appartamento seicento, palazzo Shipstone, Beverly Hills. Spicciati. Vuole vederti prima di mezzogiorno. Non scrissi l’indirizzo. — Signor Fawcett, vi costerà un kilodollaro, più il biglietto di andata e ritorno per la sotterranea. In anticipo. — Eh? Ridicolo! — Signor Fawcett, sospetto che nutriate qualche risentimento. Forse vi piacerebbe di farmi partire per nulla e farmi perdere un giorno e il costo del biglietto per Los Angeles. — Ragazzina, senti, potrai ritirare il prezzo del biglietto qui in ufficio, dopo il colloquio. Adesso devi partire. In quanto al kilodollaro, devo proprio dirti cosa puoi farne? — Non datevi pensiero. Come addetto alla sicurezza mi aspetto solo uno stipendio da addetto alla sicurezza. Ma come corriere… Io sono il meglio, e se quest’uomo vuole veramente il meglio, pagherà il colloquio con me senza batter ciglio. — Aggiunsi: — State scherzando, signor Fawcett. Addio. — Interruppi. Richiamò undici minuti dopo. Parlava con l’aria di chi soffre molto. — I soldi per il biglietto e il kilodollaro saranno alla stazione. Ma il kilodollaro ti sarà dedotto dal salario e lo restituirai se non avrai il lavoro. In entrambi i casi, io avrò la mia commissione. — Non lo restituirò per nessun motivo, e voi non avrete alcuna commissione da me perché non vi ho nominato mio agente. Forse potrete avere qualcosa dal signor Mosby, ma in questo caso non verrà dal mio stipendio o dal mio compenso per il colloquio. E non andrò ad aspettare alla stazione come un ragazzino che gioca a nasconderello. Se fate sul serio, manderete i soldi qui. — Sei impossibile! — Il suo viso svanì dallo schermo, ma la comunicazione non s’interruppe. Apparve l’assistente di Fawcett. — Senti — disse — questo lavoro è di un’urgenza pazzesca. Vogliamo vederci alla stazione sotto New Cortez? Farò il più in fretta possibile, e porterò i soldi per il biglietto e il tuo compenso. — Certo, tesoro. Sarà un piacere. Chiamai il padrone di casa, gli dissi che lasciavo la chiave in frigorifero, e che non facesse marcire la roba. Quello che Fawcett non sapeva era che nulla mi avrebbe impedito di presentarmi a quel colloquio. Il nome e l’indirizzo erano gli stessi che Boss mi aveva fatto imparare a memoria prima di morire. Non ne avevo mai fatto nulla perché lui non mi aveva spiegato perché dovevo memorizzarli. Adesso lo avrei scoperto. 28 La targhetta sulla porta diceva solo FINDERS, INC. E SPECIALISTI IN PROBLEMI INTERPLANETARI. Entrai e un’impiegata in carne e ossa mi disse: — Il posto non è più libero, cara. L’ho avuto io. — Chissà per quanto lo terrai. Sono qui perché ho un appuntamento col signor Mosby. Lei mi scrutò attentamente, senza fretta. — Ragazza squillo? — Grazie. Dov’è che ti fai tingere i capelli? Senti, mi mandano le Linee IperSpazio, ufficio di Las Vegas. Ogni secondo costa orsi al tuo capo. Sono Friday Jones. Annunciami. — Scherzi? — quella toccò la consolle, parlò in un microfono smorzavoce. Io tesi le orecchie. — Frankie, qui c’è una scema che dice di avere un appuntamento con te. Dice che la manda la Ipo di Las Vegas. — Porcaccia miseria, ti ho detto di non chiamarmi Frankie su! lavoro. Falla entrare. — Secondo me non la manda Fawcett. Mi stai tirando il bidone? — Chiudi il becco e falla entrare. Quella spinse via il microfono. — Siediti lì. Il signor Mosby è in riunione. Ti saprò dire appena si libera. — Non è quello che ti ha detto lui. — Eh? Da quando in qua ne sai tanto? — Ti ha detto di non chiamarlo Frankie sul lavoro e di farmi entrare. Tu hai risposto qualche fesseria e lui ti ha ordinato di chiudere il becco e lasciarmi entrare. Quindi entro. È meglio che mi annunci. Mosby era sulla cinquantina e cercava di dimostrare trentacinque anni. Aveva un’abbronzatura costosa, un abito costoso, un grosso sorriso e settantaquattro denti e occhi freddi. Mi indicò una poltroncina. — Perché ci avete messo tanto? Ho detto a Fawcett che volevo vedervi prima di mezzogiorno. Mi guardai l’indice, poi l’orologio sulla scrivania. Le dodici e quattro. — Dalle undici ad adesso ho percorso quattrocentocinquanta chilometri, più uno shuttle urbano. Devo tornare a Vegas e vedere se mi riesce di battere il record? Oppure vogliamo parlare d’affari? — Ho detto a Fawcett di fare in modo che prendeste la sotterranea delle dieci. Okay, okay. A quanto ne so, avete bisogno di lavorare. — Non sono ridotta alla fame. Mi è stato detto che vi serve un corriere per un lavoro interplanetario. — Tirai fuori una copia del mio curriculum, gliela passai. — Queste sono le mie referenze. Guardatele, e se io sono quello che volete, parlatemi del lavoro. Vi ascolterò e vi dirò se mi interessa o no. Lui diede uno sguardo al foglio. — I rapporti che ho in mano mi dicono che siete alla fame. — Solo nel senso che è quasi ora di pranzo. Lì ci sono le mie tariffe. Possiamo discuterne… solo per alzarle. — Siete molto sicura di voi. — Guardò di nuovo il mio curriculum. — Come sta Marmittone? — Chi? — Qui c’è scritto che avete lavorato per la System Enterprises. Vi ho chiesto come sta Marmittone. Marmittone Baldwin. (Era un test? Tutto quanto, dalla colazione in poi, era stato calcolato al millimetro per farmi perdere le staffe? Se sì, la risposta più adatta era non perdere affatto le staffe, in qualunque situazione). — Il presidente della System Enterprises era il dottor Hartley Baldwin. Non l’ho mai sentito chiamare Marmittone. — Sì, credo che abbia una laurea o un’altra. Ma nel nostro mestiere lo chiamano tutti Marmittone. Vi ho chiesto come sta. (Attenta, Friday!) — È morto. — Sì, lo so. Volevo sapere se lo sapete anche voi. Nel nostro mestiere si incontrano un sacco di imbroglioni. Okay, vediamo il vostro marsupio. — Prego? — Sentite, ho fretta. Fatemi vedere l’ombelico. (Quando si è sparsa la notizia? Be’… No, quelli li abbiamo uccisi. Tutti, o così credeva Boss. Ovviamente, la notizia può essere partita da lì prima che li uccidessimo. Cosa importa? È partita, come aveva previsto Boss.) — Frankie, ragazzo mio, se vuoi fare giochetti col mio ombelico, devo avvertirti che la bionda fasulla qui fuori ci ascolta, e quasi certamente sta registrando. — Oh, non ci ascolta. Ha istruzioni in proposito. — Istruzioni che segue come segue il tuo ordine di non chiamarti Frankie nelle ore di lavoro. Senti, signor Mosby, tu hai cominciato a parlare di faccende classificate in condizioni di sicurezza minima. Se vuoi che sappia tutto anche lei, falla entrare. Se non vuoi, escludila dal circuito. Ma finiamola con queste infrazioni alle misure di sicurezza. Lui tamburellò sulla scrivania, poi si alzò di colpo, passò nell’altro ufficio. L’isolamento acustico della porta non era perfetto; udii, smorzate, voci furibonde. Mosby tornò, piuttosto irritato. — È andata a pranzo. Adesso basta con le stronzate. Se tu sei davvero chi dici di essere, Friday Jones, alias Marjorie Baldwin, ex corriere di Marmi… del dottor Baldwin, direttore della System Enterprises, devi avere dietro l’ombelico una sacca artificiale. Fammela vedere. Dimostra la tua identità. Ci pensai su. La richiesta di provare la mia identità non era assurda. L’identificazione in base alle impronte digitali è una barzelletta, almeno per noi del mestiere. Chiaramente, l’esistenza della mia sacca era un segreto ormai divulgato. Non mi sarebbe più servita a nulla; solo che in quel momento mi serviva per dimostrare che io ero me. Che io ero io? Mi sembrava stupido in tutte e due le forme. — Signor Mosby, hai pagato un kilodollaro per questo colloquio con me. — Puoi giurarci! E per adesso ho sentito solo scemenze. — Mi spiace. Nessuno mi aveva mai chiesto di mostrare la sacca del mio ombelico, perché fino a poco tempo fa era un segreto gelosamente custodito. O così pensavo. È chiaro che non è più un segreto, se tu ne sei al corrente. Dal che deduco che non potrò più usarla per lavori classificati. Se l’incarico che vuoi offrirmi richiede l’uso della sacca, forse dovresti ripensarci. Un segreto un poco conosciuto è come una ragazza un poco incinta. — Be’, sì e no. Fammi vedere. Gli fece vedere. Tengo sempre una sfera di nylon, un centimetro di diametro, dentro la sacca; non voglio che si restringa o magari si chiuda fra un lavoro e l’altro. Tirai fuori la sfera, lo lasciai guardare, la rimisi a posto; dopo di che, gli dimostrai che il mio ombelico era assolutamente identico a un ombelico normale. Lui studiò tutto con cura. — Non contiene molto. — Preferisci assumere un canguro? — È grande abbastanza per quello che ci occorre, più o meno. Trasporterai il carico più prezioso dell’intera galassia, ma non occuperà troppo spazio. Rivestiti e mettiti in ordine. Andiamo a pranzo e non dobbiamo, non dobbiamo, arrivare in ritardo. — Cos’è questa storia? — Te lo dico per strada. Andiamo. C’era una carrozza ad aspettarci. Dietro Beverly Hills, fra le colline che danno il nome a questa città, c’è un hotel molto vecchio che è anche molto snob. Puzza di dollari, un odore che non disprezzo. Tra gli incendi e il Grande Terremoto è stato ricostruito diverse volte, sempre con lo stesso aspetto, però (a quanto mi dicono) l’ultima volta è stato ricostruito assolutamente a prova di incendio e di terremoto. Occorsero una ventina di minuti a un trotto discreto per andare dal palazzo Shipstone all’hotel. Mosby li usò per informarmi. — Questa carrozza è l’unico posto dove possiamo essere sicuri che non ci sia qualche Orecchio ad ascoltarci… (Ci credeva sul serio? A me venivano in mente tre posti ovvi per un Orecchio: la mia sacca, le sue tasche, e i cuscini della carrozza. E poi c’era un’altra infinità di posti meno appariscenti. Ma era un problema suo. Io non avevo segreti, nessuno, adesso che il mio ombelico era stato svelato al mondo.) — … Quindi lascia parlare me. Accetto le tue tariffe. Ci sarà anche un premio a missione completata. Il viaggio è dalla Terra al Regno. Ti paghiamo per questo. Il viaggio di ritorno non riveste il minimo interesse, ma per tornare qui occorrono quattro mesi, quindi ti pagheremo per quattro mesi. Il premio di ingaggio lo avrai alla capitale imperiale. Lo stipendio… Un mese di anticipo, il resto di mese in mese. Okay? — Okay. — Dovetti sforzarmi di non sembrare troppo entusiasta. Un viaggio pagato fino al Regno? Mio caro, solo ieri ero ansiosa di imbarcarmi coi miseri stipendi dell’equipaggio di bordo. — E per le spese? — Non ne avrai molte. Gli incrociatori di linea offrono già tutti i lussi necessari. — Mance, bustarelle, escursioni planetarie, soldi in tasca, spiccioli per il bingo e per altri giochi di bordo… Come minimo, queste spese non sono mai del venticinque per cento del prezzo del biglietto. Se devo fingere di essere una turista straricca, devo stare nella parte. Ci ho azzeccato? — Be’… Sì. Va bene, va bene. Nessuno farà storie se spenderai qualche migliaio di dollari per entrare nella parte della riccona. Tieni il conto e presentacelo alla fine. — No. Anticipatemi i soldi. Il venticinque per cento del biglietto. Non terrò i conti. Non sarebbe adatto al personaggio. La riccona non terrebbe i conti di queste miserie. — Va bene! Chiudi il becco e lasciami parlare. Arriveremo tra poco. Tu sei una creatura artificiale. Non provavo più da un pezzo quel brivido gelido. Mi feci forza e decisi di fargli pagare cara quella frase cattiva, vigliacca. — Stai cercando di essere offensivo? — No, affatto. Non scaldarti. Tu e io sappiamo che è impossibile, così a occhio, distinguere una persona artificiale da una naturale. Tu porterai, in stasi, un ovulo umano modificato. Lo terrai nella sacca dell’ombelico, dove la temperatura costante e gli strati di carne proteggeranno la stasi. Quando arriverai al Regno, ti prenderai l’influenza o qualcosa del genere e andrai in ospedale. Mentre sarai lì, quello che trasporti sarà trasferito nel luogo più adatto. Ti verrà pagato il premio e lascerai l’ospedale… con la felice certezza di avere aiutato una giovane coppia ad avere un figlio perfetto, mentre era quasi sicuro al cento per cento che sarebbe nato malato. Emofilia. Decisi che la storia era abbastanza vera. — La delfina. — Cosa? Non essere idiota! — Ed è qualcosa di molto di più dell’emofilia, che di per sé potrebbe essere ignorata in una persona di rango reale. Il Primo Cittadino stesso è interessato, visto che questa volta la successione passa attraverso una figlia e non un figlio. Il mio lavoro è molto più importante e pericoloso di quello che mi hai detto… Quindi il prezzo sale. La pariglia di splendidi bai percorse un altro centinaio di metri di Rodeo Drive prima che Mosby rispondesse. — Va bene. Dio ti aiuti se aprirai bocca. Non vivresti a lungo. Aumenteremo il premio. E… — Sarà meglio che tu lo raddoppi e lo depositi sul mio conto prima della partenza. In lavori del genere, la gente tende a dimenticare a cose fatte. — Okay, farò quello che posso. Stiamo per pranzare col signor Sikmaa… E tu sei tenuta a non accorgerti che è il rappresentante personale del Primo Cittadino, con le cariche interplanetarie di ambasciatore straordinario e minimostro plenipotenziario. Adesso datti un contegno e stai attenta a come ti comporti a tavola. Quattro giorni più tardi stavo ancora attenta a come comportarmi a tavola, seduta sulla destra del capitano della Forward, Linee IperSpazio. Il mio nome era adesso signorina Marjorie Friday, ed ero così oltraggiosamente ricca da aver percorso il tragitto Terra/Stazione Stazionaria sullo yacht antiG del signor Sikmaa, dopo di che ero salita sulla Forward senza dovermi preoccupare di noie plebee come il controllo del passaporto, l’esame sanitario, eccetera. I miei bagagli erano arrivati nello stesso momento (scatola dopo scatola di abiti costosi, d’alta classe, coi gioielli del caso), ma se n’era occupata altra gente; io non avevo dovuto pensare a nulla. Avevo trascorso tre di quei giorni in Florida, in quello che pareva un ospedale ma era (lo sapevo!) un superbo laboratorio d’ingegneria genetica. Avevo anche dedotto quale laboratorio fosse, ma tenni per me le mie ipotesi, perché lì nessuna deduzione veniva incoraggiata. Mi fecero l’esame fisico più minuzioso di cui abbia mai sentito parlare. Non sapevo perché controllassero il mio stato di salute in modo generalmente riservato a capi di stato e presidenti multinazionali, ma probabilmente erano un tantino nervosi all’idea di affidare a qualcuno che non godesse di una salute di ferro l’ovulo che, col trascorrere degli anni, sarebbe diventato Primo Cittadino del favolosamente ricco Regno. Per me fu la migliore delle occasioni per tenere la bocca chiusa. Il signor Sikmaa non usò le tecniche intimidatorie tentate da Fawcett e Mosby. Dopo aver deciso che io andavo bene, rispedì Mosby a casa e mi coprì talmente d’oro che non ebbi bisogno di mercanteggiare. Il venticinque per cento delle spese extra? Non basta; facciamo il cinquanta per cento. Ecco qui, prendete (in oro e certificati di credito in oro di Luna City), e se vi serve dell’altro ditelo al commissario di bordo; basterà una vostra firma per addebitare a me tutte le spese. No, non ci sarà un contratto scritto; non è quel tipo di missione. Ditemi cosa volete e lo avrete. Ed ecco qui un opuscoletto che vi dice chi siete e dove avete studiato e tutto il resto. Nei prossimi tre giorni avrete tutto il tempo per memorizzarlo e se vi scorderete di bruciarlo, non preoccupatevi; la carta è impregnata di una sostanza che lo farà autodistruggere nel giro di tre giorni. Non stupitevi se il quarto giorno le pagine saranno gialle e un po’ bruciacchiate. Il signor Sikmaa aveva pensato a tutto. Prima di lasciare Beverly Hills, fece venire una fotografa, che mi riprese da diversi angoli: io vestita di un sorriso, coi tacchi alti, coi tacchi bassi, a piedi nudi. Quando i miei bagagli arrivarono sulla Forward, tutto mi andava alla perfezione, stili e colori erano adatti a me, e gli abiti erano firmati dai più famosi stilisti italiani, parigini, dei Bei-Jing, eccetera. Non sono abituata all’haute couture e non so come affrontarla, ma il signor Sikmaa aveva provveduto anche a quello. Al boccaporto mi accolse una piccola e deliziosa creatura orientale, Shizuko, che mi disse di essere la mia cameriera personale. Dato che mi lavavo e vestivo da sola dall’età di cinque anni, non sentivo alcun bisogno di una cameriera, ma per l’ennesima volta bisognava abbandonarsi alla corrente. Shizuko mi guidò alla cabina Bb (non abbastanza grande per un campo da pallavolo). Una volta lì, scoprii che a giudizio di Shizuko c’era appena il tempo sufficiente per prepararmi per cena. La cosa mi parve eccessiva, visto che alla cena mancavano tre ore. Ma lei era decisa e io avevo intenzione di accettare tutto ciò che mi veniva suggerito; non mi occorreva un diagramma per capire che me l’aveva messa alle costole il signor Sikmaa. Mi fece il bagno. Mentre lei mi lavava, ci fu un aumento improvviso della gravità alla partenza della nave. Shizuko mi tenne ferma e impedì che il tutto si trasformasse in un disastro, e lo fece talmente bene da convincermi che era pratica di navi a contrazione spaziale. Strano, non sembrava abbastanza vecchia. Trascorse un’ora intera sui miei capelli e sulla mia faccia. In passato, mi ero lavata la faccia quando ce n’era bisogno e mi ero pettinata i capelli, più che altro, scostandoli quel tanto da non vederli penzolare davanti agli occhi. Scoprii quanto fosse abissale la mia inettitudine. Mentre Shizuko mi reincarnava nelle spoglie della Dea dell’Amore e della Bellezza, il piccolo terminale della cabina trillò. Le lettere apparvero sullo schermo e lo stesso messaggio uscì dalla stampante, come una lingua impertinente: Il capitano della nave IperSpazio Forward chiede il piacere della compagnia della signorina Marjorie Friday per sherry e allegria nel salone di comando alle ore diciannove. In caso di rifiuto, si prega di comunicare. Io restai sorpresa. Shizuko no. Aveva già appeso e preparato un abito da cocktail. Mi copriva completamente, e in vita mia non sono mai stata vestita in modo così indecente. Shizuko si rifiutò di lasciarmi andare in orario. Mi condusse al salone di comando in maniera che facessi il mio ingresso con sette minuti di ritardo. L’hostess conosceva già il mio (attuale) nome e il capitano s’inchinò sulla mia mano. È mia modesta opinione che sia meglio fare il Vip su una nave che l’addetto alla sicurezza sulla stessa nave. Lo «sherry» comprendeva highball, cocktail, Morte Nera islandese, Pioggiadiprimavera del Regno (micidiale: non toccatelo mai), birra danese, un liquore roseo di Paese di Cuccagna, e, non ne dubito, Sudoredipantera a richiesta. Comprendeva anche trentun tipi diversi (li contai) di gustosi stuzzichini da mangiare con le dita. Fui fedele al signor Sikmaa; presi lo sherry, e solo un bicchiere piccolo così, e feci sforzi tremendi per rifiutare quando mi offrirono, di nuovo e di nuovo e di nuovo, quelle trentuno appetitose tentazioni. E resistere fu un bene. Su questa nave la pappa viene servita otto volte al giorno (ho contato anche qui): caffè del primo mattino (café complet, cioè con dolci), colazione, spuntino di metà mattina, pranzo, tè del pomeriggio con panini e altri dolci, ora del cocktail con stuzzichini (quelle trentun trappole micidiali), cena (sette portate, se riuscite a reggerle), buffet di mezzanotte. Ma se vi viene appetito in qualunque momento, potete sempre ordinare alla dispensa panini e spuntini. La nave ha due piscine, una palestra, un bagno turco, una sauna svedese, e una clinica per il «controllo pancia». Il rettilineo più lungo per le passeggiate, a percorrerlo da cima a fondo, è un chilometro. Secondo me non è abbastanza; certi passeggeri si stanno letteralmente mangiando il viaggio nella galassia. Arrivando alla capitale imperiale, il mio problema maggiore sarà riuscire a ritrovare l’ombelico. Il dottor Jerry Madsen, ufficiale medico giovane, che non sembra tanto vecchio da poter essere un tagliaossa, mi individuò tra la folla allo sherry del capitano, poi mi aspettò dopo cena. (Non mangia al tavolo del capitano, e nemmeno nel salone da pranzo; mangia con gli altri ufficiali giovani nel quadrato ufficiali.) Mi portò nel salone galattico, dove ballammo, poi ci fu uno spettacolo di cabaret: canzoni, balletti, e un giocoliere che faceva anche il prestigiatore (e a me tornarono in mente quei piccioni, e Blondie, e di colpo mi sentii malinconica, ma soffocai la sensazione.) Poi ripresero le danze e due altri giovani ufficiali, Tom Udell e Jaime Lopez, fecero a turno con Jerry, e alla fine il salone chiuse e tutti e tre mi portarono a un piccolo cabaret, il Buco Nero, e io rifiutai decisamente di sbronzarmi ma ballai tutte le volte che me lo chiesero. Il dottor Jerry riuscì a fregare gli altri e mi riportò alla cabina Bb a un’ora notevolmente tarda per il tempo della nave ma non particolarmente tarda per il tempo della Florida, e in fin dei conti io mi ero imbarcata quel giorno in Florida, no? Shizuko mi aspettava, vestita in un bellissimo kimono, ciabattine di seta, e trucco d’alto livello e di stampo particolare. Ci fece un inchino, indicò che dovevamo sederci nella zona salotto (la zona letto è schermata da un paravento), e ci servì tè e pasticcini. Dopo un po’ Jerry si alzò, mi augurò la buonanotte e uscì. Poi Shizuko mi spogliò e mi mise a letto. Non avevo nessun piano preciso su Jerry, anche se senz’altro lui sarebbe riuscito a convincermi, se ci si fosse messo; la mia resistenza è scarsa, lo so. Ma tutti e due sapevamo fin troppo bene che seduta lì c’era Shizuko, le mani in grembo, a controllarci e aspettare. Jerry non mi diede nemmeno il bacio della buonanotte. Dopo avermi messa a letto, Shizuko si coricò sull’altro lato del pavimento, accontentandosi di lenzuola e coperte che prese da una credenza. Nessuno, nemmeno a Christchurch, mi aveva tenuta sotto una sorveglianza così stretta. Rientrava anche questo nel mio contratto non scritto? 29 Un’astronave, un’astronave iperspaziale, è un posto terribilmente interessante. Ovviamente occorre una conoscenza molto avanzata della meccanica ondulatoria e della geometria multidimensionale per capire cosa faccia andare la nave, e io non ho questa cultura e probabilmente non l’avrò mai (anche se mi piacerebbe studiare e farmi una competenza, anche adesso). I razzi, nessun problema: ci ha spiegato tutto Newton. L’antigravità, un mistero finché non arrivò a spiegarcela il dottor Forward; adesso è dappertutto. Ma come fa una nave con una massa di centomila tonnellate circa (così mi ha detto il capitano) a raggiungere una velocità quasi milleottocento volte superiore a quella della luce? Senza far rovesciare la minestra o svegliare qualcuno? Non lo so. Questa nave ha gli Shipstone più grossi che io abbia mai visto… però Tim Flaherty (ingegnere assistente in seconda) mi dice che la loro energia viene utilizzata in pieno solo a metà di ogni balzo; per il resto del viaggio viene utilizzata solo energia «parassita» (il calore della nave, le cucine, i servizi ausiliari della nave, eccetera). A me questa pare una violazione della legge della conservazione dell’energia. Sono stata cresciuta nella convinzione che ci si deve lavare regolarmente e che il cibo gratis non esiste; gliel’ho detto. Lui è diventato un tantino impaziente e mi ha assicurato che è proprio la legge della conservazione dell’energia a permettere la cosa. Dice che è come una funicolare: quella che prima immetti poi ti torna indietro. Non lo so: qui non ci sono cavi; non può essere una funicolare. Però funziona. La navigazione di questa nave è ancora più incomprensibile. Solo che non la chiamano navigazione, e nemmeno astrogazione; la chiamano «cosmonautica». Ora, forse qualcuno ha voluto prendere in giro la povera Friday, perché gli ufficiali che stanno sul ponte (non è un ponte) e si occupano della cosmonautica sono ufficiali cosmetici, perché stanno lì solo per bellezza; è il computer che fa tutto il lavoro; e il signor Lopez, l’ufficiale in seconda, dice che la nave deve avere ufficiali tecnici perché lo impone il sindacato, ma è il computer a fare tutto. Non conoscendo le rispettive competenze, mi sento come se fossi andata a una conferenza senza conoscere la lingua del conferenziere. Una cosa l’ho imparata: a Las Vegas pensavo che tutti i Grandi Giri Turistici fossero Terra, Proxima, Avamposto, Paese di Cuccagna, Foresta, Botany Bay, Alcione, Mezzavia, il Regno, e ritorno alla Terra, perché così sta scritto sui cartelli dei reclutatori. Sbagliato. Ogni viaggio è tagliato su misura. Di solito vengono toccati tutti e nove i pianeti, ma gli unici due punti fissi della sequenza sono che la Terra sta a un’estremità e il Regno, lontano quasi un centinaio di anni luce (98,7 +), all’estremità opposta. Le sette stazioni intermedie possono essere raggiunte all’andata o al ritorno. Comunque, esiste una regola generale per la successione delle soste: all’andata, la distanza dalla Terra deve essere sempre più grande a ogni sosta; al ritorno, la distanza deve decrescere. Non è complicato come sembra; significa solo che la nave non torna mai sui suoi passi, esattamente come fareste voi nel programmare un giro di compere che prevede molti negozi. Ma questo lascia spazio a una notevole flessibilità. Le nove stelle, i soli dei pianeti, sono più o meno allineati lungo una retta. Guardate lo schizzo col Centauro e il Lupo. Viste dalla Terra, come potete vedere, tutte le stelle si trovano o nella metà anteriore del Centauro o lì vicino, nel Lupo. (So che il Lupo ha un’aria un po’ sofferente, ma il Centauro lo sta infilzando da migliaia d’anni. D’altra parte, io non ho mai visto un lupo, un lupo a quattro zampe, e meglio di così non so fare. Adesso che ci penso, non ho mai visto nemmeno un centauro.) Le stelle sono raggruppate a quel modo nel cielo notturno della Terra. Per vederle bisogna trovarsi abbastanza a sud, diciamo in Florida o a Hong Kong, e anche così, a occhio nudo si vede solo Alpha Centauri. Ma Alpha Centauri (Rigil Kentaurus) brilla parecchio; per luminosità è la terza stella del cielo terrestre. In realtà si tratta di tre stelle: una molto brillante che è gemella del nostro sole, una meno brillante che sta in coppia con la prima, e un terzo compagno lontano, fioco, piccolo, che ruota attorno alle altre due a un quindicesimo circa di anno luce di distanza. Anni fa, Alpha Centauri ora nota come Proxima. Poi qualcuno si prese la briga di misurare la distanza da questo terzo, insignificante cugino e scoprì che era più vicino a noi di un pelo, per cui il titolo di «Proxima» (più vicina) passò a questo insignificante corpo celeste. Poi, quando insediammo una colonia sul terzo pianeta di Alpha Centauri A (la gemella del nostro sole), i coloni chiamarono il pianeta Proxima. Dopo un po’ gli astronomi che avevano cercato di passare il titolo alla stella fioca erano tutti morti, e i coloni continuarono a usare quel nome. Meglio così, perché quella stellina, che oggi ci è più vicina di un pelo, presto si allontanerà; trattenete il respiro per qualche millennio. Essendo «balisticamente unita», la sua distanza media dalla Terra è più o meno la stessa delle altre due del terzetto. Adesso guardate il secondo schizzo, quello con «ascensione retta» in alto e «anni luce» di lato. Devo essere l’unica persona, fra le centinaia che si trovano su questa nave, che non sapeva che la prima tappa del viaggio non sarebbe stata Proxima. Il signor Lopez, che mi stava facendo vedere il ponte, mi guardò come se fossi una bambina ritardata che aveva appena fatto un’altra delle sue infelici gaffes. (Ma la cosa non ha importanza perché a lui non interessa il mio cervello.) Non osai spiegargli che ero stata trascinata a bordo all’ultimo momento; avrei mandato all’aria la mia copertura. Comunque, Miss Dollaro Facile non è tenuta a essere intelligente. Di solito la nave si ferma a Proxima sia all’andata sia al ritorno. Il signor Lopez spiegò che quella volta avevano poche merci e solo qualche passeggero per Proxima, il che non bastava a pagare la sosta. Così, merci e passeggeri dovranno aspettare fino al mese prossimo, quando partirà la Maxwell; per questo viaggio, la Forward si fermerà su Proxima solo al ritorno, con merci e, sperabilmente, passeggeri provenienti dagli altri sette pianeti. Il signor Lopez spiegò (e io non capii) che viaggiare per molti anni luce nello spazio costa quasi nulla (il grosso sono le razioni per i passeggeri), ma fermarsi su un pianeta è terribilmente costoso, quindi ogni sosta deve essere economicamente giustificata nel bilancio del viaggio. Quindi ecco qui la rotta del nostro viaggio (guardate di nuovo il secondo schizzo): prima Avamposto, poi Botany Bay, poi il Regno, Mezzavia, Alcione, Foresta, Paese di Cuccagna, Proxima (finalmente!), e a casa sulla Terra. La faccenda non mi dispiace; al contrario! Mi sbarazzerò del «carico più prezioso della galassia» meno di un mese dopo la partenza da Stazione Stazionaria; a quel punto, il lungo viaggio di ritorno a casa sarà una vera crociera turistica. Grande! Nessuna responsabilità. Un sacco di tempo per studiarmi le colonie, scortata da giovani ufficiali che hanno un buon profumo e sono sempre cortesi. Se Friday (o Miss Dollaro Facile) non riesce a divertirsi in una situazione simile, è ora di cremarmi; sono morta. Adesso guardare il terzo schizzo, declinazione in alto, anni luce di lato. Questo fa apparire piuttosto ragionevole la nostra rotta; ma se ridate un’occhiata al secondo schizzo, vedrete che il tratto da Botany Bay ad Avamposto, che nel terzo schizzo sembra sfiorare la fotosfera del sole di Foresta, in realtà manca questo solo di parecchi anni luce. Per dare un’immagine esatta del nostro viaggio occorrono le tre dimensioni. Potete prendere i dati dai tre schizzi e dalla tabella sotto il terzo e batterli sul vostro terminale e ottenere un ologramma tridimensionale; in quel modo, tutto avrà un senso. Ce n’è uno sul ponte, coi pianeti non in movimento, per poterlo studiare nei particolari. Il signor Lopez, che ha eseguito questi schizzi (a parte quello col centauro cattivone e il lupo triste), mi ha avvertita che un disegno bidimensionale proprio non può rappresentare la cosmonautica tridimensionale. Però è utile considerare i tre schizzi rispettivamente come planimetria, vista laterale e vista frontale di una casa; è la stessa identica cosa. Quando il signor Lopez mi ha dato lo stampato della tabella, mi ha avvertita che i dati hanno una precisione da scuola elementare. Se puntate un telescopio con queste coordinate, troverete la stella giusta, ma per la scienza e per la cosmonautica occorrono più decimali, e poi bisogna apportare le correzioni dell’«epoca»; un modo carino per dire che bisogna aggiornare i dati perché ogni stella si muove. Il sole di Avamposto è quello che si muove di meno; grosso modo, tiene il ritmo del traffico nella nostra zona della galassia. Ma la stella di Paese di Cuccagna (Nu [2] Lupi) ha un vettore di 138 chilometri al secondo; quanto basta perché Paese di Cuccagna si sposti di più di un miliardo di chilometri fra due visite della Forward distanti fra loro cinque mesi. Questo può essere un guaio. Stando al signor Lopez, può essere un guaio capace di fare perdere il posto a un capitano, perché il fatto che un viaggio sia economicamente redditizio o meno dipende dalla precisione con cui il capitano riesce a centrare un pianeta uscendo dall’iperspazio senza colpire qualcosa d’altro (per esempio una stella!). È come guidare un Vma a occhi bendati. Ma io non piloterò mai una nave iperspaziale, e il capitano van Kooten ha un’aria solida, affidabile. Quella sera, a cena, gli chiesi informazioni. Lui annuì. — Li troveremo. Solo ke una folta abbiamo dofuto mantare giù qualche rakazzo in sialuppa a komperare qualkosa in panetteria e leggere i kartelli. Non sapevo se si aspettasse che ridessi o gli credessi, così gli chiesi cosa comperarono in panetteria. Lui si rivolse alla signora alla sua sinistra e finse di non sentirmi. (La panetteria della nave fa le paste migliori che io abbia mai assaggiato, e dovrebbero tenerla chiusa a chiave.) Il capitano van Kooten è un uomo gentile, paterno; eppure me lo immagino benissimo con una pistola in mano e una sciabola nell’altra, mentre affronta un branco di tagliagole ammutinati. Da una sensazione di sicurezza a tutta la nave. Shizuko non è l’unica persona a farmi da guardia. Credo di averne identificate altre quattro, e mi chiedo se sono tutte. Quasi certamente no, perché a volte, guardandomi attorno, non ne ho vista nemmeno una; eppure direi che la tattica è tenermi sempre qualcuno vicino. Paranoia? Parrebbe di sì, ma non è vero. Sono una professionista che è rimasta in vita accorgendosi sempre della minima stranezza. La nave ha seicentotrentadue passeggeri di prima classe, una sessantina di ufficiali in uniforme, equipaggio a sua volta in uniforme, e lo staff del direttore di crociera: steward e hostess e ballerini e artisti vari, eccetera. Questi ultimi vestono come i passeggeri, ma sono giovani e sorridono e considerano proprio dovere fare in modo che i passeggeri stiano allegri. I passeggeri: su questa nave, un passeggero di prima classe con meno di settant’anni è una rarità; come me, per esempio. Abbiamo due ragazzine, un ragazzino, due giovani signore, e una coppia di ricchi in luna di miele. Per il resto, in prima classe sono tutti candidati a una clinica geriatrica. Sono molto vecchi, molto ricchi, ed estremamente egoisti; a parte quei cinque o sei che sono riusciti a invecchiare senza inacidirsi. Ovviamente nessuno di questi vecchi mi fa la guardia, e nemmeno i più giovani. In quanto al personale di crociera, ho individuato tutti nelle prime quarantotto ore, fossero musicisti o che altro. Potrei sospettare che qualcuno dei giovani ufficiali sia stato incaricato di sorvegliarmi, però fanno tutti il loro turno di servizio, in genere otto ore su ventiquattro, e quindi non possono accettare un altro lavoro a tempo pieno. Ma il mio naso non mi inganna; so perché mi seguono in continuazione. Di solito a terra non sono oggetto di tante attenzioni, però sulla nave c’è una penuria notevole di giovani donne da portare a letto: trenta giovani ufficiali di sesso maschile contro quattro giovani signore non coniugate in prima classe, oltre a Friday. Con una sproporzione del genere, una donna giovane dovrebbe avere un alito tremendo per non trascinarsi dietro una coda come una cometa. Comunque, inquadrate tutte queste categorie, mi risulta inspiegabile la presenza di alcuni uomini. Prima classe? Sì, mangiano nel salone Ambrosia. Uomini d’affari? Forse; però, stando al primo vice commissario di bordo, gli uomini d’affari viaggiano in seconda, che non è lussuosa come la prima ma altrettanto comoda, e costa la metà. Esempio: quando Jerry Madsen mi porta al Buco Nero con i suoi amici, c’è questo tizio solitario chino sul suo drink in un angolo. Il mattino dopo, Jimmy Lopez mi porta a nuotare; alla piscina c’è lo stesso tipo. In sala da gioco mi faccio una partita a carte con Tom; il mio pedinatore è intento a un solitario all’angolo opposto. Una volta o due potrebbero essere coincidenze… ma dopo tre giorni sono certa che appena esco dalla cabina Bb, appare uno o l’altro dei quattro uomini. Di solito si tiene lontano da me per quanto glielo permette la geometria degli spazi; però c’è. Il signor Sikmaa mi ha ficcato in testa che avrei trasportato «l’oggetto di maggior valore che sia mai stato affidato a un corriere». Ma non mi aspettavo che trovasse necessario farmi circondare da guardie sulla nave. Pensava che qualcuno potesse cogliermi di sorpresa e rubarmelo dall’ombelico? Oppure non sono uomini del signor Sikmaa? Il segreto è stato divulgato prima che io lasciassi la Terra? Il signor Sikmaa pareva un professionista attento… Però Mosby e la sua segretaria gelosa? Non so; e non ne so abbastanza di politica interna del Regno per azzardare ipotesi. Più tardi: tutte e due le giovani donne fanno parte della squadra che mi sorveglia, ma spuntano solo dove e quando gli uomini non possono. Nel salone di bellezza, in bagno, nella sauna per signore, eccetera. Non mi danno mai fastidio, ma io sono già stanca. Sarà un piacere consegnare il mio «oggetto» per potermi poi godere questo viaggio meraviglioso. Per fortuna il meglio verrà dopo che avremo lasciato il Regno. Avamposto è un tale gelo (letteralmente!) che non sono previste escursioni esterne. Botany Bay ha fama di essere molto bello, e devo vederlo perché è un posto dove potrei emigrare. Del Regno si racconta che sia ricco e bello, e voglio vederlo come turista, ma non mi trasferirò lì. Gode della reputazione di essere ben governato, ma è una dittatura assoluta come quella dell’Impero di Chicago, e ne ho avuto abbastanza. Comunque, c’è un motivo più sostanzioso per non chiedere un visto d’immigrazione: so troppo. Ufficialmente non so nulla, perché il signor Sikmaa non l’ha mai ammesso e io non gliel’ho chiesto; però non forzerò la mano alla fortuna pretendendo di vivere lì. Mezzavia è un altro posto che voglio vedere senza restarci. Due soli in cielo bastano a renderlo speciale… ma è il papa in esilio che lo rende davvero speciale: per una visita, non per la residenza perenne. È perfettamente vero che lì celebrano la messa in pubblico! Lo dice il capitano van Kooten, e Jerry mi racconta di averlo visto coi propri occhi e potrò vederlo anch’io; non si paga il biglietto, ma un’offerta caritatevole fatta da un laico rientra nelle buone maniere. Sono tentata di farlo. Non è realmente pericoloso, e con molta probabilità non avrò mai più un’occasione del genere in vita mia. Ovviamente vedrò Alcione e Paese di Cuccagna. Devono essere tutti e due extraspeciali, o non imporrebbero prezzi così alti… Però cercherò il verme nella mela ogni minuto, come l’ho cercato per Eden. Odierei chiedere a Gloria di pagare una cifra enorme per farmi emigrare, e poi scoprire che odio il posto. Foresta non dovrebbe essere un granché per un turista, niente divertimenti, ma voglio studiarmelo a fondo. È la colonia più recente, è ovvio, ancora a livello delle case di legno e totalmente dipendente dalla Terra e/o dal Regno per arnesi e strumenti. Ma non è proprio quello il periodo più adatto per unirsi a una colonia, se si vuole provare la gioia selvaggia a ogni minuto? Jerry ha un’aria cupa. Mi dice di andare a vedere… e di scoprire da sola che la vita nella foresta primordiale è notevolmente sopravvalutata. Non so. Forse potrei trattare, chiedere il privilegio di una sosta; reimbarcarmi su questa nave o su una delle sue sorelle fra qualche mese. Devo chiedere al capitano. Ieri al cinema Stardust c’era un olo che volevo vedere, una commedia musicale, Lo yankee del Connecticut e la regina Ginevra. Doveva essere molto divertente, con musiche in stile revival romantico, pieno di bei cavalli e di sfarzo. Sfuggii ai miei corteggiatori e andai sola. O quasi sola; non riuscii a sbarazzarmi delle mie guardie. Quest’uomo (il «numero tre» nella mia mente, anche se la lista dei passeggeri dice che è HOWARD J. BULLFINCH, SAN DIEGO) mi seguì e sedette direttamente dietro di me… Insolito, perché in genere se ne stanno il più lontano possibile, a seconda delle dimensioni del locale. Forse pensava di potermi perdere quando le luci si fossero abbassate; non so. La sua presenza lì dietro mi distrasse. Quando la regina azzannò lo yankee e lo trascinò nel suo boudoir, anziché pensare al divertimento che l’olo mi offriva, cercai di dividere e analizzare tutti gli odori che mi arrivavano; non facile, in un cinematografo affollato. Finito l’olo, riaccese le luci, raggiunsi il corridoio laterale in contemporanea con l’uomo; lui mi cedette il passo. Sorrisi e ringraziai, poi uscii dalla porta centrale; lui mi seguì. L’uscita porta a una scaletta, quattro gradini in tutto. Inciampai, caddi indietro, e lui mi afferrò. — Grazie! — dissi. — Adesso ti porto al bar Centauro e ti offro un drink. — Oh, ma niente affatto! — Oh, e invece sì. Così mi spiegherai perché mi segui e chi ti paga e diverse altre cose. Lui esitò. — Vi sbagliate. — Non io, Mac. Mi segui tranquillamente, o preferisci spiegarti col capitano? Quello uscì in un sorriso perplesso (o era cinico?). — Le vostre parole sono molto convincenti, anche se vi sbagliate. Però insisto, pagherò io da bere. — Va bene. Me lo devi. E mi devi anche qualche altra cosina. Scelsi un tavolo all’angolo, dove gli altri clienti non potevano sentirci; il che mi diede la certezza che un Orecchio poteva sentirci. Ma come si può evitare un Orecchio a bordo di una nave? Non si può. Ci servirono, poi io gli dissi, quasi in silenzio totale: — Sai leggere sulle labbra? — Non molto bene — ammise lui, allo stesso livello bassissimo. — Benissimo, vediamo di non alzare il volume e speriamo che il caos sonoro confonda l’Orecchio. Mac, dimmi una cosa. Di recente hai stuprato altre ragazze indifese? Lui sobbalzò. Credo che nessuno possa ricevere un colpo del genere senza sobbalzare. Però lui mi fece la cortesia di rispettare il mio cervello, e dimostrò a sua volta di avere cervello, rispondendo: — Signorina Friday, come avete fatto a riconoscermi? — Dall’odore — ribattei. — Per prima cosa dall’odore. Ti sei seduto troppo vicino. Poi, uscendo dal cinema, ti ho costretto a un test vocale. E ho inciampato sulle scale e ti ho costretto ad abbracciarmi. A quel punto ho avuto la certezza. Qui c’è un Orecchio che ci spia? — Probabile. Però forse non registra, ed è possibile che al momento nessuno lo stia seguendo. — Troppo rischioso. — Riflettei. Camminare fianco a fianco sulla passeggiata? Lì un Orecchio avrebbe avuto guai senza una sintonizzazione continua, ma la sintonia poteva essere automatica se Mac aveva addosso un raggio. O forse lo avevo addosso io. La piscina Aquarius? L’acustica di una piscina è sempre pessima, il che mi stava bene. Però, accidenti, mi occorreva più privacy. — Pianta qui il drink e vieni con me. Lo portai alla cabina Bb. Shizuko ci fece entrare. Per quanto ne sapevo, lei faceva la guardia ventiquattro ore su ventiquattro; si limitava a dormire contemporaneamente a me. O credevo che dormisse. Le chiesi: — Cosa ci aspetta, Shizuko? — Il party del commissario di bordo, signorina. Alle diciannove. — Vedo. Vai a fare due passi o quello che vuoi. Torna fra un’ora. — Troppo tardi. Trenta minuti. — Un’ora! Lei rispose deferente: — Sì, signorina. — Ma io feci in tempo a vedere lei che guardava Mac, e lui che annuiva impercettibilmente. Scomparsa Shizuko, chiusa la porta, chiesi piano: — Sei tu il suo capo, o viceversa? — Ci sarebbe da discutere — ammise lui. — Forse la definizione migliore è agenti indipendenti che collaborano. — Vedo. È molto professionale. Mac, sai dove sono le Orecchie qui, oppure dobbiamo trovare il modo per scavalcarle? Sei disposto a parlare del tuo sordido passato sapendo che qualcuno lo registra su nastro? Personalmente, nulla mi imbarazzerebbe… dopo tutto, io ero la vittima innocente… ma voglio che tu parli senza timori. Anziché rispondere, lui puntò l’indice: sopra il mio divano al lato soggiorno, sopra la testata del letto, in bagno; poi si toccò l’occhio e indicò un punto dove la paratia si univa a una sporgenza del soffitto, davanti al divano. Annuii. Poi trascinai due sedie nell’angolo più lontano dal divano, fuori dalla visuale dell’Occhio che lui mi aveva indicato. Accesi il terminale, impostai la richiesta di musica, scelsi un nastro del coro di Salt Lake City. Forse un Orecchio poteva filtrare le voci e individuare le nostre, ma ne dubitavo. Sedemmo e io continuai: — Mac, ti viene in mente qualche buona ragione perché io non debba ucciderti subito? — Così? Senza nemmeno un processo? — A che serve un processo? Mi hai violentata. Lo sai tu, lo so io. Però ti sto dando una possibilità di parlare. Ti viene in mente una ragione per cui non dovrei sottoporti a esecuzione sommaria per il tuo crimine? — Be’, se la mettete così… No, non me ne vengono in mente. I maschi saranno la mia morte. — Mac, sei un uomo molto esasperante. Non capisci che non voglio ucciderti e sto cercando una scusa ragionevole per non farlo? Però se non mi aiuti non ce la faccio. Com’è che sei finito coinvolto in un lavoro così schifoso? Uno stupro di gruppo su una donna bendata e immobilizzata? Aspettai che lui digerisse la domanda, e lo fece. Alla fine disse: — Potrei sostenere che ormai c’ero talmente dentro che se mi fossi opposto allo stupro sarei finito ammazzato io stesso, in un amen. — È vero? — chiesi, provando disprezzo per lui. — Abbastanza vero, ma irrilevante. Signorina Friday, l’ho fatto perché l’ho voluto. Perché siete così sexy che potreste corrompere uno stilita. O spingere Venere a passare a Lesbo. Ho cercato di dirmi che non potevo evitarlo. Ma sapevo la verità. Okay, volete che vi dia una mano per farlo sembrare un suicidio? — Non è necessario. — (Così sexy da poter corrompere uno stilita. Che diàvolo è uno stilita? Devo scoprirlo. Detto così, sembrava un superlativo.) Lui insistette: — Su una nave non si scappa. Un cadavere può essere imbarazzante. — Oh, penso di no. Tu sei stato assunto per sorvegliarmi; credi che farebbero qualcosa a me? Ma sai già che ho intenzione di lasciartela passare liscia. Comunque, prima di mollarti voglio delle spiegazioni. Come sei sfuggito all’incendio? Quando ti ho fiutato sono rimasta di sasso. Ero convinta che fossi morto. — Non c’ero quando è scoppiato l’incendio. Ero già fuggito. — Davvero? Perché? — Per due motivi. Avevo intenzione di andarmene non appena avessi saputo quello che mi interessava. Ma soprattutto per voi. — Mac, non aspettarti che creda a troppe cose improbabili. Cosa dovevi scoprire lì? — Non l’ho mai scoperto. Cercavo la stessa cosa che interessava a loro. Il perché del vostro viaggio a Elle-Cinque. Li ho sentiti interrogarvi e ho capito che non sapevate niente. Così ho tagliato la corda. Al volo. — Vero. Io ero un piccione viaggiatore… E quand’è che un piccione viaggiatore sa perché scoppia una guerra? Hanno perso il loro tempo, a torturarmi. Dio mi aiuti, parve scioccato. — Vi hanno torturata? Ribattei, secca: — Vuoi recitare la parte dell’innocente? — Eh? No, no. Sono colpevole e lo so. Di stupro. Però non avevo idea che vi avessero torturata. È stupido, è una cosa di secoli fa. Quello che ho sentito io era un interrogatorio puro e semplice, poi vi hanno iniettato il siero della verità, e avete raccontato la stessa storia. Così ho capito che dicevate la verità e me ne sono andato. In fretta. — Più mi spieghi, più interrogativi sollevi. Per chi lavoravi, perché lo facevi, perché sei scappato, perché ti hanno lasciato scappare, chi era la voce che ti dava ordini, quello che chiamate il Maggiore, perché tutti erano tanto ansiosi di sapere cosa trasportassi, talmente ansiosi da organizzare un attacco militare e perdere un sacco di uomini e finire col torturarmi e tagliarmi la tetta destra? Perché? — Vi hanno fatto questo? — (Dio m’aiuti, il viso di Mac era rimasto del tutto inespressivo finché non accennai ai danni fatti alla mia ghiandola mammaria di dritta. Qualcuno vuole spiegarmi i maschi? Con diagrammi e paroline brevi?) — Oh! Rigenerazione completa, sia funzionale che cosmetica. Ti farò vedere, più tardi. Se risponderai fino in fondo alle mie domande. Puoi controllare, se ricordi com’era prima. Adesso torniamo agli affari. Parla. Mac sostenne di aver fatto il doppio gioco. Disse di essere stato all’epoca un agente di controspionaggio di una compagnia paramilitare assoldata dai Laboratori Muriel Shipstone. Come tale, e lavorando da solo, si era infiltrato nell’organizzazione del Maggiore… — Aspetta un minuto! — ordinai. — Lui è morto nell’incendio? Quello che chiamavate Maggiore. — Sono certo di sì. Anche se forse Mosby è l’unico che lo sa. — Mosby? Franklin Mosby? Finders Incorporated? — Spero non abbia fratelli. Lui è già troppo. Sì. Ma la Finders Inc. è solo una facciata. Mosby è un tirapiedi della Shipstone Unlimited. — Ma hai detto che anche tu lavoravi per la Shipstone. Per i laboratori. Mac restò sorpreso. — Ma tutto il casino del Giovedì Rosso è stato una lotta interna fra i ragazzi più in alto. Lo sanno tutti. Sospirai. — Devo aver vissuto nella bambagia. Va bene, tu lavori per la Shipstone, per una parte della Shipstone, e come doppio agente lavoravi per l’altra parte sempre della Shipstone. Ma perché ero io l’osso che interessava a tutti? — Signorina Friday, non lo so. Era quello che dovevo scoprire. Però si riteneva che voi foste un’agente di Marmittone Bal… — Fermo lì. Se devi parlare del defunto dottor Baldwin, non usare quel soprannome orribile. — Chiedo scusa. Si riteneva foste un’agente della System Enterprises, cioè del dottor Baldwin, e lo avete confermato presentandovi al suo quartier generale… — Fermo di nuovo. Tu eri nel gruppo che mi ha assalita lì? — Sono lieto di rispondere di no. Ne avete uccisi due e un altro è morto poco dopo, e nessuno ne è uscito intatto. Signorina Friday, siete una tigre. — Continua. — Mar… Il dottor Baldwin era un indipendente, un isolato, non faceva parte del sistema. Coi preparativi del Giovedì Rosso… — Cosa c’entra il Giovedì Rosso? — Ma è l’epicentro. Quello che portavate voi doveva influenzare la scelta dei tempi, come minimo. Credo che il Consiglio per la Sopravvivenza, il gruppo che usava i gorilla di Mosby, abbia fiutato il vento e si sia mosso prima di essere pronto. Forse è per questo che in definitiva non ne è uscito molto. Hanno sanato le divergenze nei consigli di amministrazione. Però non ho mai visto un’analisi dei fatti. (Nemmeno io, e adesso probabilmente non l’avrei più vista. Cosa non avrei dato per qualche ora al terminale a prestazioni illimitate che avevo a Pajaro Sands. Quali direttori erano finiti ammazzati nel Giovedì Rosso e nei suoi seguiti, ammesso che ne fosse morto qualcuno? Cosa aveva fatto il mercato azionario? Sospetto che tutte le risposte veramente importanti non entrino mai nei libri di storia. Boss mi aveva chiesto di imparare le cose che mi avrebbero portata alle risposte, ma era morto e la mia acculturazione si era interrotta di colpo. Per il momento. Però sarei tornata a nutrire il Figlio dell’Elefante! Un giorno o l’altro.) — Mac, ti ha assunto Mosby per questo lavoro? Per farmi da angelo custode sulla nave? — Eh? No, ho avuto quell’unico contatto con Mosby, e sotto mentite spoglie. Per questo incarico sono stato assunto da un reclutatore che lavora per l’attaché culturale dell’ambasciatore del Regno, a Ginevra. Ed è un incarico di cui non devo vergognarmi, sul serio. Ci stiamo prendendo cura di voi. La massima cura. — Sarà noioso, senza stupri. — Ahi! — Che istruzioni hai su di me? E in quanti siete? Il capo sei tu, giusto? Lui esitò. — Signorina Friday, mi state chiedendo di svelare i segreti del mio datore di lavoro. Nella nostra professione, non lo facciamo… Come senz’altro sapete. — Balle. Da che sei entrato da quella porta sai che la tua vita dipende dal fatto di rispondere alle mie domande. Ripensa ai tizi che mi sono saltati addosso alla fattoria del dottor Baldwin. Pensa a quello che gli è successo. Poi parla. — Ci ho pensato, molte volte. Sì, sono io il capo. A parte Tilly, forse. — Chi è Tilly? — Scusate. Shizuko. Un nome di battaglia. All’Ucla era Matilda Jackson. Abbiamo aspettato tutti allo Sky High Hotel quasi due mesi… — Stai parlando al plurale. Nomi. I nomi che risultano dall’elenco passeggeri. E non cercare di fermarmi con le tue baggianate sul codice dei mercenari. Shizuko tornerà fra pochi minuti. Mi diede i nomi. Nessuna sorpresa; li avevo individuati tutti. Inetti. Boss non lo avrebbe mai tollerato. — Avanti. — Abbiamo aspettato e la Dirac è partita senza di noi e solo ventiquattro ore prima della partenza della Forward siamo stati messi in allarme. Poi ci hanno dato dei vostri olo a colori da studiare… E quando ho visto la vostra faccia, signorina Friday, per poco non svenivo. — Gli olo erano così brutti? Andiamo. — Eh? No, erano ottimi. Ma avete presente doye vi ho vista l’ultima volta? Credevo foste morta nell’incendio. Io, be’, si potrebbe dire che ho sofferto per voi. Almeno un po’. — Grazie. Credo. Okay, sette, e tu sei il capo. Questo viaggio non costa due soldi, Mac. Perché mi occorrono sette custodi? — Pensavo che voi poteste dirlo a me. Non che i motivi del vostro viaggio siano affari miei. Io posso dirvi solo le mie istruzioni. Dovete essere consegnata al Regno in condizioni perfette. Non un’unghia rotta, non una contusione, non un raffreddore. Quando arriviamo, un ufficiale della guardia di palazzo sale a bordo e voi diventate un problema suo. Ma non ci viene pagato il premio finché non vi avranno fatto un esame clinico. Dopo di che ci pagano e torniamo a casa. Ci pensai. Collimava con le preoccupazioni del signor Sikmaa per «l’oggetto di maggior valore che sia mai stato affidato a un corriere», però c’era qualcosa che puzzava. Il vecchio principio delle precauzioni abbondanti, della cintura più le bretelle, era comprensibile… ma sette persone a tempo pieno solo per assicurarsi che io non cadessi e non mi rompessi l’osso del collo? Non mi quadrava. — Mac, non mi ricordo altro da chiederti, e Shizuko, voglio dire Tilly, sta per tornare. Parleremo più avanti. — Molto bene. Signorina Friday, perché mi chiamate Mac? — È l’unico nome con cui ti abbia mai sentito chiamare. In società, intendo. A uno stupro di gruppo cui abbiamo partecipato tutti e due. Sono ragionevolmente certa che tu non sia Howard J. Bullfinch. Che nome preferisci? — Oh. Sì, in quella missione ero Mac. Ma di solito mi chiamano Pete. — Il tuo nome è Pete? — Be’, non esattamente. È… Percival. Ma non lo usa nessuno. Frenai il riso. — Non vedo perché, Pete. Uomini coraggiosi e degni d’onore hanno portato il nome Percival. Credo che alla porta ci sia Tilly, ansiosa di farmi il bagno e vestirmi. Un’ultima cosa. Lo sai perché respiri ancora? Perché non sei morto? — No. — Perché mi hai lasciato fare la pipì. Grazie di avermela lasciata fare prima di ammanettarmi a quel letto. Lui fece una smorfia. — Per quello mi sono preso una lavata di testa. — Sul serio? Perché? — Il Maggiore voleva costringervi a bagnare il letto. Pensava che sarebbe servito a farvi crollare. — Sì? Stupido dilettante. Pete, è stato a quel punto che ho deciso che tu non eri del tutto irrecuperabile. 30 Avamposto non è un granché. Il sole è una stella G8, il che le dà un posto piuttosto basso nella lista delle stelle simili a Sole, perché Sole è una G2. È notevolmente più fredda della stella del nostro sistema. Ma la stella in sé non importa, purché sia del tipo simile a Sole (tipo G). (Forse un giorno o l’altro sarà possibile colonizzare i pianeti di stelle d’altro tipo, ma per ora è ragionevole limitarsi a stelle con una dimensione spettrale adatta all’occhio umano e che non trasmettano troppe radiazioni letali; sto citando Jerry. In ogni caso, esistono oltre quattrocento stelle di tipo G non più lontane dalla Terra di quanto lo sia il Regno, o così dice Jaime Lopez, e quindi potremmo avere da fare per qualche anno.) Ma prendiamo una stella di tipo G: c’è bisogno di un pianeta che si trovi alla distanza giusta dal sole; deve essere caldo, ma non troppo. Poi la gravità di superficie deve essere tanto forte da tenere al suo posto l’atmosfera. L’atmosfera deve aver avuto il tempo di cuocersi, parallelamente allo sviluppo della vita, per offrire un’aria adatta ai tipi di vita che conosciamo. (I tipi di vita che non conosciamo sono un argomento affascinante, ma non hanno nulla a che vedere con la colonizzazione terrestre. Non questa settimana. E non stiamo nemmeno parlando di colonie di creature artificiali o cyborg. Stiamo parlando di coloni che vengono da Dallas o Tashkent.) Avamposto ha appena i requisiti minimi. È un posto da poveracci. La presenza d’ossigeno a livello del mare è così scarsa che bisogna camminare lentamente, come sulla vetta di una montagna. È talmente lontano dalla sua stella che ha solo due tipi di clima, freddo e gelo. Il suo asse è quasi privo d’inclinazione; le stagioni derivano da un’orbita eccentrica, per cui quando arriva l’inverno non trasferitevi a sud, perché l’inverno vi raggiungerà comunque. Esiste, più o meno, una bella stagione, nell’area di una ventina di gradi dall’equatore, ma l’inverno è molto più lungo dell’estate, ovviamente. Quell’«ovviamente» si riferisce alla legge di Keplero, quella che parla di raggi vettori e aree equivalenti. (Ho preso quasi tutta questa roba dal Forward Daily.) Quando il buon Dio ha distribuito i doni, Avamposto è rimasto dietro la porta. Però io avevo una voglia frenetica di vederlo. Perché? Perché, allontanandomi da casa, al massimo sono arrivata alla Luna; e la Luna è praticamente in casa. Avamposto dista più di quaranta anni luce dalla Terra. Lo sapete quanti chilometri sono? (Non lo sapevo nemmeno io.) Ecco qui: 300.000x40,7x31.557.600=385.318.296.000.000 di chilometri. Arrotondiamo. Quattrocento milioni di milioni di chilometri. I tempi della nave prevedevano il raggiungimento dell’orbita stazionaria (22,1 ore di periodo orbitale, perché è quella la lunghezza di un giorno di Avamposto) alle zero due e quarantasette; la scialuppa di dritta sarebbe partita alle prime ore del mattino (il «mattino» della nave), alle tre e zero zero in punto. Non molti chiesero di partecipare al volo (niente di più, perché nessun passeggero avrebbe messo piede a terra): il secondo turno di guardia non è un orario troppo popolare fra la maggioranza dei passeggeri. Ma io mi sarei persa più volentieri Armageddon. Lasciai un bel party e andai a letto alle ventidue, per farmi diverse ore di sonno prima di alzarmi e ripulirmi. Mi svegliai alle due e scivolai in bagno, chiudendo a chiave la porta. Se non la chiudo, Shizuko entra subito dopo di me; l’ho scoperto il primo giorno sulla nave. Quando mi svegliai, lei era già in piedi e vestita.Chiusi la porta alle mie spalle e immediatamente vomitai. Questo mi sorprese. Non ero immune a mal d’aria e simili, ma in quel viaggio non avevo avuto problemi. Prendere la Piantadifagiolo mi fa a pezzi lo stomaco, per ore e ore. Ma sulla Forward avevo avvertito una sola spinta d’accelerazione, quando eravamo entrati nell’iperspazio; e la sera precedente, appena prima di cena, avevo sentito un tremito analogo quando eravamo tornati nello spazio normale, ma il ponte ci aveva avvertiti di aspettarcelo.Adesso la gravità (artificiale) era a posto? Non ne ero sicura. Mi girava la testa, ma poteva essere un effetto collaterale della vomitata; perché avevo rimesso tutto, proprio come se mi fossi trovata sulla maledetta Piantadifagiolo. Mi ripulii la bocca, mi lavai i denti senza dentifricio, pulii un’altra volta la bocca, e mi dissi: — Friday, ti aspetta il piatto del giorno. Non permetterai che una crisi imprevista di stomaco in subbuglio ti impedisca di vedere Avamposto. E poi hai messo su due chili, è ora di dare un taglio alle calorie. Fatto il discorsetto allo stomaco e trasmesso il tutto alla disciplina di controllo mentale, uscii, lasciai che Tilly-Shizuko mi aiutasse a indossare una pesante tuta, poi mi diressi al boccaporto d’imbarco della scialuppa di dritta. Shizuko mi seguiva a ruota, con coperte pesanti per tutte e due. All’inizio ero stata tentata di fare amicizia con Shizuko, ma dopo aver intuito (e aver sentito confermare) il suo vero ruolo, provavo del risentimento per lei. Meschino da parte mia, senza dubbio. Ma una spia non ha diritto ai rapporti amichevoli che una cameriera merita sempre. Non ero sgarbata con lei; mi limitavo a ignorarla la maggior parte del tempo. Quel mattino non mi sentivo al massimo della socievolezza. Il signor Woo, vice commissario di bordo addetto alle escursioni, era al boccaporto con una cartelletta. — Signorina Friday, sul mio elenco non c’è il vostro nome. — Be’, io mi sono prenotata. Aggiungetelo, oppure chiamate il capitano. — Non posso. — E allora? Io mi siedo qui e non mi muovo più. Questa cosa non mi piace, signor Woo. Se avete intenzione di suggerire che non dovrei essere qui per l’errore di qualche impiegato del vostro ufficio, mi piacerà ancora meno. — Mmm, probabilmente è un errore. Non c’è molto tempo. Perché non salite, vi fate dare un posto, e io risolverò la cosa dopo aver controllato tutti gli altri? Non obiettò al fatto che Shizuko mi seguisse. Procedemmo in un passaggio lunghissimo (anche le scialuppe della Forward sono enormi), seguendo frecce che dicevano DA QUESTA PARTE PER IL PONTE, e arrivammo in una sala abbastanza grande, qualcosa come l’interno di un Vma omnibus: doppi comandi sul davanti, sedili per i passeggeri dietro, un grande parabrezza; e per la prima volta da che avevamo lasciato la Terra, rividi la «luce del sole». La luce del sole di Avamposto che delineava la curva bianca, bianchissima, di un pianeta, e dietro il cielo nero. La stella non si vedeva. Shizuko e io trovammo due sedili e allacciammo le cinture, del tipo quintuplo usato sugli Sb. Sapendo che avremmo volato con l’antiG, pensavo di limitarmi alla cintura che gira attorno alla vita; ma la mia piccola custode mi armeggiò attorno e allacciò tutto.Dopo un po’ il signor Woo venne a cercarmi, e alla fine mi trovò. Si chinò sull’uomo fra me e il corridoio centrale e disse: — Signorina Friday, mi spiace ma continuate a non essere sull’elenco. — Davvero? Cosa ha detto il capitano? — Non sono riuscito a trovarlo. — Allora decidete voi. Io resto qui. — Mi spiace. No. — Sul serio? Da che parte mi prendete? E chi vi aiuterà a portarmi via? Perché dovrete trascinarmi a forza mentre scalcerò e strillerò, e vi assicuro che in fatto di calci e strilli non scherzo. — Signorina Friday, non è possibile. Il passeggero al mio fianco disse: — Giovanotto, non state facendo la figura del cretino? La signorina è una passeggera di prima classe. L’ho notata nel salone da pranzo, al tavolo del capitano. Adesso toglietemi quella stupida cartella dalla faccia e trovatevi qualcosa di meglio da fare. Preoccupato (i giovani vice commissari di bordo sono sempre preoccupati) il signor Woo se ne andò. Dopo un po’ si accese la spia rossa, la sirena ululò, e una voce forte disse: — Lasciamo l’orbita! Preparatevi a un aumento di peso. Fu una giornata infame. Tre ore di discesa fino alla superficie, due ore a terra, tre ore per tornare all’orbita stazionaria. All’andata, musica interrotta da un discorsetto sorprendentemente noioso su Avamposto; al ritorno, solo musica, e fu un po’ meglio. Le due ore a terra potevano anche essere okay, se ci avessero permesso di scendere dalla scialuppa. Ma dovemmo restare a bordo. Ci concessero di slacciare le cinture e passare a prua, in quello che veniva definito salone ma era solo uno spazio con un bar che serviva caffè e panini a un lato e portelli trasparenti sul lato opposto. Dai portelli si vedevano gli emigranti salire sul ponte sotto, e lo scarico delle merci. Colline basse coperte di neve… una vegetazione rachitica a poca distanza da noi… vicino alla nave, edifici bassi collegati fra loro da tettoie di neve. I coloni erano imbottiti come panini giganti, ma non perdevano tempo nel correre verso gli edifici. Le merci finivano su una serie di camion a rimorchio, con motori che erano strane macchine che sbuffavano fuori nubi di fumo nero: esattamente il tipo di cose che si trovano disegnate sui libri di storia per bambini! Però quello non era un disegno. Sentii una donna dire al suo compagno: — Ma perché qualcuno decide di vivere qui? Il compagno uscì in una pia risposta, qualcosa sulla «volontà del Signore», e io mi allontanai. Come si può arrivare a settant’anni (tanti ne doveva avere la signora) senza sapere che nessuno «decide» di stabilirsi su Avamposto… se non nel limitatissimo senso che si «decide» di accettare l’emigrazione lì per sfuggire alla morte o al carcere a vita? Il mio stomaco era ancora sottosopra, per cui non rischiai i panini; ma pensai che una tazza di caffè potesse farmi bene, finché non ne sentii l’odore. Dopo di che corsi ai bagni, a dritta del salone, e lì vinsi il titolo di «Friday MascellediFerro». Lo vinsi a pieno diritto, anche se io fui l’unica a saperlo: trovai i cubicoli tutti occupati e dovetti aspettare; e aspettai, a mascelle irrigidite. Dopo un secolo o due, un cubicolo si liberò e io schizzai dentro e vomitai di nuovo. Acidi e succhi gastrici, più che altro. Non avrei dovuto sentire l’odore del caffè. Il viaggio di ritorno fu interminabile. Sulla Forward chiamai il mio amico Jerry Madsen, l’ufficiale medico giovane, e chiesi una visita professionale. In base al regolamento, l’ambulatorio di bordo apre alle nove e zero zero ogni giorno, e dopo la chiusura accetta solo casi d’emergenza. Ma sapevo che Jerry era pronto a vedermi con qualunque scusa. Gli dissi che non era niente di serio; volevo solo un po’ delle pillole che prescriveva alle care vecchie signore con lo stomaco delicato, le pillole per il mal d’aria. Lui mi rispose di presentarmi al suo studio. Invece di farmi trovare le pillole pronte, mi guidò in una stanza interna e chiuse la porta. — Signorina Friday, devo chiamare un’infermiera? O preferite un medico di sesso femminile? Potrei chiamare la dottorerssa Garcia, ma mi spiacerebbe disturbarla. È rimasta in piedi tutta la notte. Io dissi: — Jerry, cosa c’è? Quand’è che ho smesso di essere Marj per te? E perché questa etichetta inutile? Voglio solo una manciata di pillole. Quelle rosa. — Siediti, per favore. Signorina Friday… okay, Marj… non prescriviamo quel medicinale o i suoi derivati alle giovani signore… per essere più precisi, alle giovani signore in età fertile… senza accertarci che non siano gravide. Può provocare danni al bambino. — Oh. Calmati pure, dolcezza. Nessuno mi ha combinato lo scherzo. — Siamo qui per scoprirlo, Marj. Se tu fossi incinta o lo diventassi, abbiamo altri medicinali adatti al tuo caso. Ah! Il caro tesoro stava solo cercando di prendersi cura di me. — Boss, e se io ti dicessi, sul mio onore di scout, che non ho fatto niente di sconcio nei miei due ultimi periodi? Anche se ci hanno provato in parecchi. Te compreso. — Be’, direi: «Prendi questo boccettino e portami un campione d’orina», poi prenderei un campione del sangue e della saliva. Ho già avuto a che fare con donne che non avevano combinato niente. — Sei un cinico, Jerry. — Sto cercando di pensare a te, cara. — Lo so, dolcezza. Va bene, mi adatterò a questa cretineria. Se il topolino strilla… — È una cavia. — Se la cavia dice di sì, puoi informare quel povero esule del papa che è successo un’altra volta, e io ti offrirò una bottiglia di champagne. Questo è stato il periodo di astinenza più lungo della mia vita. Jerry prese i campioni e fece altre diciannove cose, e mi diede una pastiglia blu da prendere prima di cena e una pastiglia gialla per dormire e un’altra pastiglia blu da prendere prima di colazione. — Non hanno la stessa potenza della roba che mi avevi chiesto ma andranno bene, e se dovesse nascere un bambino non avrà i piedi messi alla rovescia o cose del genere. Ti chiamo domani mattina appena ho finito il mio turno. — Credevo che al giorno d’oggi i test di gravidanza fossero questione di pochi minuti. — Ma figurati. La tua bisnonna se ne accorgeva se la cintura diventava troppo stretta. Sei perfida. Spera solo che non debba ripetere tutto. Così lo ringraziai e lo baciai, e lui fece finta di schermirsi ma non troppo. Jerry è un agnellino. Le pillole blu mi lasciarono mangiare cena e colazione. Dopo colazione restai in cabina. Jerry chiamò quasi in orario. — Tieniti forte, Marj. Mi devi una bottiglia di champagne. — Cosa? — Poi mi calmai, a beneficio di Tilly. — Jerry, sei pazzo da legare. Fuori di testa. — Sicuro — convenne lui. — Ma nel mio mestiere non è un handicap. Passa di qui e discuteremo una dieta per te. Diciamo alle quattordici. — Diciamo subito. Voglio parlare con quella cavia. Jerry mi convinse. Illustrò tutto nei particolari, mi mostrò come veniva condotto ogni test. I miracoli succedono, e io ero incinta in modo più che dimostrabile… Allora era per quello che ultimamente sentivo i seni un po’ troppo morbidi. Jerry aveva un opuscolo per me; c’era scritto cosa fare, cosa mangiare, come lavarmi, cosa evitare, cosa aspettarmi, eccetera eccetera. Lo ringraziai e presi il libretto e me ne andai. Nessuno dei due accennò alla possibilità di un aborto, e lui non uscì in battutacce sulle «donne che non avevano combinato niente». Solo che nel mio caso era vero. Burt era stato l’ultimo, due periodi addietro, e comunque mi avevano operata per rendermi sterile all’età del menarca e non avevo mai usato contraccettivi di alcun tipo per tutta la mia frenetica vita sociale. Tutte quelle centinaia e centinaia di volte, e adesso mi dice che sono incinta! Non sono completamente stupida. Accettato il fatto, la vecchia regola di Sherlock Holmes mi disse quando e dove e come era successo. Rientrata nella cabina Bb, andai in bagno, chiusi a chiave la porta, mi spogliai, mi sdraiai a terra; circondai l’ombelico con le mani, tesi i muscoli, e spinsi. Uscì fuori una sferetta di nylon che afferrai al volo. La esaminai con cura. Nessun dubbio: era la sferetta che tenevo lì dentro da che avevo la sacca artificiale, la sferetta che toglievo solo per lasciare posto a un messaggio. Non un contenitore per un ovulo in stasi; un contenitore per niente: soltanto una pallina anonima, trasparente. La guardai un’ultima volta e la rimisi dentro. Così mi avevano mentito. Avevo avuto qualche perplessità sulla «stasi» a temperatura corporea, perché l’unica stasi per tessuti viventi che conoscessi significava temperature criogeniche, a livello di azoto liquido o ancora più basse. Ma era un problema del signor Sikmaa, e io non pretendo di essere un biofisico: se lui si fidava dei suoi scienziati, non stava a me discutere. Io ero un corriere; la mia unica responsabilità consisteva nel consegnare la merce. Quale merce? Friday, lo sai bene quale merce. Non quella dell’ombelico; l’altra, una decina di centimetri più all’interno. Quella che ti hanno infilato in corpo una notte in Florida, quando ti hanno fatto dormire come mai in vita tua. Una merce che si consegna dopo nove mesi. Il che rimanda i tuoi piani per il Grande Giro Turistico, no? Se questo feto è ciò che deve essere, non ti permetteranno di lasciare il Regno finché non te ne sarai liberata. Aspetta un momento! È la delfina che deve partorire questo bambino. Il succo della faccenda è tutto qui: un erede al trono, esente da difetti congeniti, scodellato dalla delfina; indiscutibilmente dalla delfina, partorito in presenza di almeno quattro dottori di corte, e tre infermiere e una dozzina di membri di corte. Non da te, non da un mostro di Pa con un certificato di nascita falso! Il che mi riportava alla sceneggiatura originale, con una minima variazione: la signorina Marjorie Friday, ricca turista, arriva al Regno per godersi le glorie della capitale imperiale… e si prende un brutto raffreddore e deve andare in ospedale. E la delfina finisce nello stesso ospedale e… no, ferma! La delfina si abbasserebbe a un gesto tanto plebeo come il farsi ricoverare in un ospedale aperto ai turisti? Okay, proviamo così: tu entri in ospedale con un brutto raffreddore, come da istruzioni. Verso le tre del mattino esci dalla porta di servizio, ti sbattono su un furgone e ti coprono con una coperta. Finisci a palazzo. Quanto tempo? Quanto occorrerà perché i medici di corte modifichino la chimica del reale corpo, rendendolo adatto a ospitare il feto? Lascia perdere, Friday; non lo sai e non devi saperlo. Quando lei è pronta, vi piazzano tutte e due sui tavoli operatori e ti aprono le gambe e tirano fuori il feto da te e lo infilano dentro di lei, intanto che è ancora piccolo e non dà problemi. Dopo di che ti pagano un premio da favola e tu te ne vai. Il Primo Cittadino ti ringrazia? Probabilmente non di persona. Ma forse in incognito, se… Piantala Friday! Non sognare a occhi aperti. Conosci la verità. A una lezione dell’addestramento di base, una delle lezioni di orientamento di Boss… Il guaio di questo tipo di missioni è che una volta che un agente le ha portate a termine, gli succede qualcosa di definitivo, qualcosa che gli impedisce di parlare, al momento o in seguito. Quindi, per quanto il compenso possa essere stuzzicante, è bene evitare missioni di questo genere. 31 Durante il tragitto fino a Botany Bay rimuginai di continuo sull’idea, cercando di trovarci qualche pecca. Mi tornò in mente il caso classico di J.F. Kennedy. Il suo presunto assassino era stato ucciso (ammazzato) troppo in fretta anche solo per un’udienza preliminare. Poi c’era il dentista che aveva sparato a Huey Long, e pochi secondi dopo si era suicidato. E un’infinità di agenti, ai tempi della lunga Guerra Fredda, erano sopravvissuti quanto bastava per completare la missione, dopo di che erano finiti, «per caso», sotto veicoli in movimento. Ma l’immagine che si ripresentava in continuazione al mio cervello era così antica da essere quasi mitica: una spiaggia deserta, e il capo dei pirati che dirige la sepoltura del tesoro. Il buco viene scavato, ci entrano gli scrigni colmi di bottino; e gli uomini che hanno scavato vengono uccisi; e i loro corpi danno una mano a riempire il buco.Sì, sono melodrammatica. Ma stiamo parlando del mio utero, non del vostro. Nell’universo conosciuto, tutti sanno che il padre dell’attuale Primo Cittadino è salito al trono seminando una quantità innumerevole di cadaveri e che suo figlio resta sul trono perché è ancora più spietato del padre. Mi ringrazierà per aver migliorato la sua linea di discendenza? Oppure seppellirà le mie ossa nella segreta più profonda? Non prenderti in giro, Friday; sapere troppo è un delitto capitale. In politica lo è sempre stato. Se avessero avuto intenzione di trattarti come si deve, non saresti incinta. Quindi sei costretta a presumere che non ti tratteranno come si deve dopo che ti avranno tolto questo feto reale. Era ovvio cosa dovessi fare. Quello che non era ovvio era come farlo. Il fatto che il mio nome non si trovasse sull’elenco dei passeggeri che scendevano ad Avamposto non mi pareva più l’errore di un impiegato. La sera dopo, all’ora del cocktail, rintracciai Jerry e gli chiesi di ballare con me. Era un valzer classico, il che portò il mio viso abbastanza vicino al suo da poter conversare in privato. — Come va lo stomaco? — mi chiese lui. — Le pillole blu funzionano — gli assicurai. — Jerry, chi lo sa, a parte te e me? — Guarda, è strano. Sono stato talmente occupato che non ho trovato il tempo di annotare niente sulla tua cartella clinica. Gli appunti sono nella mia cassaforte. — Sì? E il tecnico di laboratorio? — Era pieno di lavoro. I test li ho fatti io. — Perbacco. Secondo te è possibile che quegli appunti vadano persi? Che si brucino, magari? — Sulla nave non bruciamo mai niente. Dà fastidio all’addetto agli impianti d’aerazione. Facciamo a pezzettini e ricicliamo. Non temere, ragazza mia. Con me il tuo piccolo segreto è al sicuro. — Jerry, sei un vero amico. Tesoro, non fosse stato per la mia cameriera, forse avrei attribuito a te questa paternità. La mia prima sera sulla nave… ricordi? — Impossibile che dimentichi. Ho avuto un attacco acuto di frustrazione. — Avere una cameriera alle calcagna non è un’idea mia. Me l’ha affibbiata la mia famiglia, e mi sta attaccata come una sanguisuga. Si direbbe che i miei non si fidino di me semplicemente perché sanno di non potersi fidare… come tu sai benissimo. Sapresti trovare il modo di sfuggire alla sua tutela? Mi sento molto arrendevole. Con te. Con un uomo di cui mi fido, un uomo che conosce i miei segreti. — Uhm. Devo rifletterci. Il mio alloggio, no. Per arrivarci bisogna attraversare il quadrato ufficiali e un’altra ventina di cabine. Occhio, arriva Jìmmy. Sì, ovviamente cercavo di corromperlo per assicurarmi il suo silenzio. Ma a parte quello gli ero riconoscente e sentivo di dovergli qualcosa. Se quello che lui voleva era (e lo era) un congresso carnale con la mia carcassa non più vergine, ero pronta a concederglielo; e pronta anche di mia spontanea volontà: ultimamente ero rimasta a stecchetto, e Jerry è attraente. Essere incinta non mi imbarazzava, anche se per me era un’idea del tutto nuova, ma volevo tenere segreto il mio stato (se era possibile; se sulla nave non c’era già un plotone di persone che sapevano); tenerlo segreto, se lo era ancora, finché non avessi stabilito cosa fare. Il quadro totale della mia situazione potrebbe non esservi chiaro; forse è meglio che illustri. Se fossi arrivata al Regno, mi aspettavo di essere uccisa in una sala operatoria, in modo tranquillo e legale e pulito. Se non credete che cose simili possano accadere, non viviamo nello stesso mondo ed è inutile che continuiate a leggere questi ricordi. Nel corso dell’intera storia, il metodo più comune per sistemare un testimone scomodo è sempre stato fare in modo che smetta di respirare. Poteva anche non accadermi. Ma tutto lasciava sospettare che sarebbe accaduto… se avessi raggiunto il Regno. Restare semplicemente a bordo? Ci pensai, ma mi risuonarono alle orecchie le parole di Pete-Mac: — Quando arriviamo, un ufficiale della guardia di palazzo sale a bordo e voi diventate un problema suo. — A quanto sembrava, non avrebbero nemmeno aspettato che mettessi piede a terra e fingessi di ammalarmi. Ergo, dovevo lasciare la nave prima di arrivare al Regno; cioè a Botany Bay. Non avevo scelta. Semplice: basta scendere dalla nave. Sicuro! Scendere dalla passerella e fare ciao-ciao con la mano. Questa non è una nave oceanica. Il punto massimo di vicinanza tra la Forward e un pianeta è l’orbita stazionaria; nel caso di Botany Bay, sono trentacinquemila chilometri circa. L’unico modo possibile per raggiungere la superficie di Botany Bay era una delle scialuppe della nave, come era successo con Avamposto. Friday, non ti lasceranno salire su quella scialuppa. Ad Avamposto ci sei riuscita a viva forza. Adesso sono in allarme; non ce la farai una seconda volta. Cosa accadrà? Il signor Woo o qualcun altro ti intercetterà al portello d’imbarco con un elenco, e di nuovo il tuo nome non comparirà. Però questa volta avrà con sé un addetto alla sicurezza armato. Cosa farai? Logico, lo disarmo, sbatto la sua testa contro quella dell’altro, scavalco i due corpi riversi e mi siedo. Friday, sei stata addestrata per cose del genere, per non parlare della tua progettazione genetica. E poi cosa succede? La scialuppa non parte in orario. Aspetta chiusa nell’intelaiatura di decollo, e intanto arriva una squadra di otto uomini, e con la forza bruta e una spruzzata di anestetico quelli ti trascinano fuori dalla scialuppa e ti chiudono a chiave nella cabina Bb; dove resterai finché quell’ufficiale della guardia di palazzo non assumerà la custodia della tua carcassa. Non è un problema che si possa risolvere con la forza. Restano i discorsini dolci, il sex appeal, e la corruzione. Aspetta! E l’onestà? Eh? Sicuro. Vai diritta dal capitano. Raccontagli cosa ti ha promesso il signor Sikmaa, raccontagli che ti hanno imbrogliata, chiedi a Jerry di mostrargli i risultati dei test, digli che hai paura e hai deciso di aspettare a Botany Bay la prima nave che torna alla Terra senza passare per il Regno. E un brav’uomo, dolce e paterno; hai visto le foto delle sue figlie. Si prenderà cura di te! Quale sarebbe stata l’opinione di Boss in merito? Avrebbe notato che siedi a destra del capitano. Perché? Ti hanno dato una delle cabine più lussuose della nave all’ultimo minuto. Perché? È stato trovato lo spazio per altre sette persone, gente che passa tutto il tempo a tenerti d’occhio. Credi che il capitano non lo sappia? Qualcuno ha tolto il tuo nome dall’elenco dei passeggeri che scendevano su Avamposto. Chi? Chi possiede le Linee IperSpazio? Il trenta per cento è di proprietà della Interworld, che a sua volta è di proprietà o è controllata da svariate parti del gruppo Shipstone. E tu hai notato che l’undici per cento appartiene a tre banche del Regno; lo hai notato perché altri bocconi di aziende Shipstone sono di proprietà del Regno. Quindi non aspettarti troppo dal caro vecchio capitano van Kooten. Puoi già sentirlo: «Oh, io non kredo. Il signor Sikmaa è un mio karo amiko; lo konosko da anni. Sì, gli ho promesso ke non afremmo korso riski per fostra sikurezza. Ekko perké non posso permetterfi di scendere su pianeti selvatichi e inchivili. Ma al ritorno, fi facchio difertire sul serio su Alcione, giuro. Adesso fate la brava rakazza e non mi date più problemi, eh?» E magari ci crederebbe anche. Quasi certamente sa che non sei «Miss Dollaro Facile» e probabilmente sa che hai accettato di fare da madre ospite (probabilmente non gli hanno detto che si tratta della famiglia reale, ma potrebbe averlo immaginato); forse penserebbe che vuoi solo sottratti a un impegno legale ed equo. Friday, non hai una sola parola scritta che tenda a indicare che ti hanno imbrogliata. Non aspettarti aiuto dal capitano. Friday, sei abbandonata a te stessa. Fu solo tre giorni prima del previsto arrivo a Botany Bay che si verificò qualche cambiamento. Io pensai parecchio, ma per la maggior parte si trattò di elucubrazioni superflue; persi inutilmente tempo a immaginare cosa avrei fatto se non fossi riuscita a fuggire a Botany Bay. Per esempio: «Mi avete sentita, capitano! Resterò chiusa in cabina finché non lasceremo il Regno. Se farete abbattere la porta per consegnarmi a quell’ufficiale della guardia di palazzo, non posso fermarvi; ma troverete solo un corpo morto!» (Ridicolo. Sarebbe bastato un po’ di gas soporifero dai condotti dell’aria per mettermi fuori gioco.) Oppure: «Capitano, avete mai visto un aborto fatto coi ferri da maglia? Siete invitato a vedere. A quanto ne so, può essere uno spettacolo piuttosto sanguinoso». (Ancora più ridicolo. Posso parlare di aborto; non posso farlo. Anche se la creatura che ho dentro non è carne della mia carne, è pur sempre il mio innocente ospite.) Cercai di non sprecare tempo in queste riflessioni inutili e di concentrarmi invece su un piano di rivolta, pur continuando a comportarmi normalmente. Quando l’ufficio del commissario di bordo annunciò che era ora di iscriversi per le escursioni a Botany Bay, fui tra i primi ad arrivare. Feci domande, mi portai opuscoli in cabina, e firmai e pagai in contanti per tutti i percorsi migliori e più costosi. Quella sera, a cena, chiacchierai col capitano delle escursioni che avevo scelto, chiesi la sua opinione su tutte, e mi lamentai di nuovo perché il mio nome era sparito dall’elenco di Avamposto e lo pregai, questa volta, di controllare personalmente; come se il capitano di un incrociatore gigante non avesse niente di meglio da fare che eseguire commissioni per Miss Dollaro Facile. Da quanto vidi, lui non batté ciglio; di certo non mi disse che non potevo scendere a terra. Ma forse era un bugiardo matricolato come me; e io ho imparato a mentire con la faccia più onesta del mondo fin da quando ero piccola così. Quella sera (tempo della nave) mi trovai al Buco Nero coi miei tre primi corteggiatori: il dottor Jerry Madsen, Jaime «Jimmy» Lopez, e Tom Udell. Tom è primo vice supercargo, e io non avevo mai capito di cosa si trattasse. Sapevo sólo che aveva una spallina in più degli altri due. La prima sera a bordo, Jimmy mi aveva detto in tono solenne che Tom era portinaio capo. Tom non lo aveva negato. Si era limitato ad aggiungere: «Hai dimenticato che sono anche facchino capo». Quella sera, a meno di settantadue ore da Botany Bay, scoprii in parte cosa faceva Tom. La scialuppa di dritta era in fase di carico per Botany Bay. — La scialuppa di babordo l’abbiamo caricata alla Piantadifagiolo — mi disse: — Quella di dritta invece è stata riempita per Avamposto. Adesso per Botany Bay ci servono tutte e due, quindi c’è da spostare un po’ di roba. — Sorrise. — Molto lavoro, molto sudore. — Ti farà bene, Tommy. Stai ingrassando. — Parla per te, Jaime. Chiesi in che modo caricassero la scialuppa. — Il portello mi sembra piuttosto piccolo. — Non facciamo passare le merci da lì. Vuoi vedere come ce la caviamo? Così presi appuntamento con lui per il mattino dopo. E scoprii diverse cose. Le stive della Forward sono talmente enormi che ispirano più agorafobia che claustrofobia. Ma anche le stive delle scialuppe sono grandi. E anche una parte delle merci è gigantesca, in particolare le macchine. Botany Bay aspettava un turbogeneratore Westinghouse, grosso come una casa. Chiesi a Tom come diavolo avrebbe fatto a spostare quello. Lui sorrise. — Magia nera. — Quattro dei suoi operai chiusero il turbogeneratore in una rete metallica e vi attaccarono una scatola di metallo grande quanto una valigetta. Tom andò a ispezionare, poi disse: — Okay, fuoco. Il caposquadra fece fuoco, e quel mostro di metallo tremò e si sollevò di un soffio: un’unità antiG portatile, non diversa da quella di un Vma, però esposta all’aria aperta anziché chiusa nel suo guscio. Con estrema attenzione, a mano, usando funi e pali, gli uomini fecero passare la macchina in una porta enorme, fino alla stiva della scialuppa. Tom mi fece notare che anche se il mostro galleggiava per aria, libero dalla gravità artificiale della nave, era enormemente poderoso come sempre, e avrebbe potuto schiacciare un uomo come un uomo schiaccia un insetto. — Dipendono l’uno dall’altro e devono fidarsi a vicenda. La responsabilità è mia, ma a un morto non interesserebbe niente se la colpa ricadesse su di me. Devono badare l’uno all’altro. La sua vera responsabilità, mi spiegò, era assicurarsi che ogni cosa fosse sistemata nel punto previsto e fosse saldamente legata contro le accelerazioni, e anche accertarsi nel modo più assoluto che le grandi porte per le merci, sui due lati, fossero a perfetta tenuta stagna ogni volta che venivano chiuse dopo essere state aperte. Tom mi mostrò gli spazi della scialuppa riservata agli emigranti. — Abbiamo più nuovi coloni per Botany Bay che per tutti gli altri posti. Quando ripartiremo, la terza classe sarà quasi deserta. — Sono tutti australiani? — chiesi. — Oh, no. La maggioranza sì, però quasi un terzo non lo sono. Comunque hanno una cosa in comune. Tutti quanti conoscono bene l’inglese. È l’unica colonia che chieda la conoscenza di una lingua. Stanno cercando di fare in modo che l’intero pianeta abbia una sola lingua. — Ne ho sentito parlare. Perché? — Pensano che ci saranno minori probabilità di guerre. Può darsi… Ma le guerre più sanguinose della storia sono state guerre fratricide. Senza problemi di lingua. Non avevo opinioni, quindi non commentai. Lasciammo la scialuppa dal portello passeggeri, e Tom lo chiuse dietro di noi. Poi mi ricordai di aver lasciato dentro una sciarpa. — Tom, l’hai vista? Sono certa che l’avevo nella stiva emigranti. — No, ma la troveremo. — Si girò e aprì il portello. La sciarpa era dove l’avevo lasciata cadere, fra due panche nella zona per i coloni. La feci passare al collo di Tom e abbassai il suo viso a livello del mio e lo ringraziai, e lasciai che la mia gratitudine arrivasse fino al punto che lui preferiva: abbastanza lontano, ma non troppo, perché lui era ancora in servizio. Meritava i migliori ringraziamenti. Il portello aveva una serratura a combinazione. Adesso potevo aprirlo. Quando tornai dall’ispezione alle stive e alla scialuppa, era quasi l’ora di pranzo. Shizuko, come sempre, stava facendo un lavoro o l’altro (non è necessario tutto il tempo di una donna per fare in modo che un’altra sia ben vestita e truccata.) Le dissi: — Non voglio andare in salone. Voglio fare una doccia veloce, mettere un accappatoio e mangiare qui. — Cosa desidera la signorina? Ordino. — Ordina per tutte e due. — Per me? — Per te. Non voglio mangiare da sola. È semplicemente che non mi va di vestirmi per il salone. Non discutere. Chiedi il menù. — Mi avviai al bagno. La sentii cominciare a ordinare, ma quando chiusi l’acqua lei era pronta con un salviettone morbido e gigantesco, e ne aveva uno più piccolo allacciato alla vita: la perfetta ragazza del bagno pubblico. Dopo che mi ebbe asciugata e aiutata a mettere l’accappatoio, il montacarichi squillò. Mentre lei tirava fuori la roba, io portai un tavolino nell’angolo dove avevo parlato con Pete-Mac. Shizuko corrugò la fronte ma non discusse; cominciò ad apparecchiare. Io chiesi musica al terminale e di nuovo scelsi brani ad alto volume, di rock classico. Shizuko aveva messo in tavola un solo piatto. Girandomi verso di lei, così che le mie parole le arrivassero nonostante la musica, dissi: — Tilly, metti qui anche il tuo piatto. — Cosa, signorina? — Piantala, Matilda. La farsa è finita. Con questa sistemazione possiamo parlare. Lei esitò un solo attimo. — Okay, signorina Friday. — Meglio che mi chiami Marj, così io non dovrò chiamarti signorina Jackson. Oppure chiamami Friday, è il mio vero nome. Tu e io dobbiamo mettere le carte in tavola. Fra parentesi, la tua recitazione da cameriera è perfetta, ma non c’è più bisogno di preoccupartene quando saremo in privato. Dopo il bagno posso asciugarmi da sola. Lei quasi sorrise: — Mi piace occuparmi di te, signorina Friday. Marj. Friday. — Oh, grazie. Mangiamo. — Le misi il sukiyaki nel piatto. Dopo qualche boccone (la conversazione procede meglio col cibo) dissi: — Tu cosa ci guadagni? — Da cosa, Marj? — Dal sorvegliarmi. Dal consegnarmi alla guardia di palazzo del Regno. — Le tariffe sindacali. Pagate al mio boss. Dovrebbe esserci un premio per me, ma io nei premi ci credo solo quando li spendo. — Vedo. Matilda, io taglio la corda a Botany Bay. Tu mi aiuterai. — Chiamami Tilly. Davvero? — Davvero. Perché io ti pagherò di più. — Credi sul serio di potermi convincere tanto facilmente? — Sì. Perché hai soltanto due scelte. — In mezzo a noi c’era un grosso cucchiaio da portata in acciaio. Lo presi, chiusi le mani sull’incavo, lo stritolai. — Puoi aiutarmi. O puoi morire. Di corsa. Cosa decidi? Lei raccolse il cucchiaio mutilato. — Marj, non c’è bisogno di essere così melodrammatica. Escogiteremo qualcosa. — Col pollice raddrizzò l’acciaio contorto. — Qual è il problema? Io restai a fissare il cucchiaio. — Tua madre era una provetta… — E mio padre un bisturi. Come nel tuo caso. È per questo che mi hanno assunta. Parliamo. Perché lasci la nave? Se lo fai io passerò l’inferno. — Se non lo faccio, sarò morta. — Senza cercare di barare, le raccontai dell’accordo che avevo concluso, di come mi fossi trovata incinta, e delle ipotesi sulle mie scarse possibilità di sopravvivenza se fossi arrivata al Regno. — Allora, cosa ci vuole per convincerti a guardare dall’altra parte? Credo di potermi permettere il tuo prezzo. — Non sono l’unica che ti sorveglia. — Pete? Mi occuperò io di Pete. Credo possiamo ignorare gli altri tre uomini e le altre due donne. Se avrò il vostro aiuto attivo. Voi due, tu e Pete, siete gli unici professionisti. Chi ha assunto gli altri? Gentaglia. — Non lo so. Non so nemmeno chi abbia assunto me, per questo. L’affare è stato concluso col mio boss. Forse possiamo lasciare perdere gli altri. Dipende dal tuo piano. — Parliamo di soldi. — Prima parliamo del piano. — Uh… Pensi di poter imitare la mia voce? Tilly rispose: — Uh… Pensi di poter imitare la mia voce? — Rifallo! — Rifallo! Sospirai. — Okay, Tilly, puoi farlo. Il Daily Forward dice che emergeremo domani nei paraggi di Botany Bay, e se i calcoli sono precisi come lo sono stati per Avamposto, saremo in orbita stazionaria e faremo scendere le scialuppe verso mezzogiorno di domani l’altro. Meno di quarantotto ore da adesso. Quindi domani io mi ammalo. Un peccato. Perché non vedevo l’ora di atterrare sulla superficie per tutte quelle meravigliose escursioni. I tempi esatti del mio piano dipendono dagli orari di partenza delle scialuppe, e se ho capito bene per saperli dovrò aspettare che rientriamo nello spazio normale e che predicano al millimetro quando raggiungeremo l’orbita stazionaria. A prescindere dagli orari, la sera prima della partenza delle scialuppe, verso le nove quando i corridoi sono deserti, io me ne vado. Da allora in poi tu diventi tutte e due. Non lasci entrare nessuno, sono troppo malata. «Se qualcuno mi chiama al terminale, stai bene attenta a non accendere il video. Io non lo uso mai. Sarai tutte e due nelle questioni che riesci ad affrontare, e se non ci riesci, io dormo. Se cominci a impersonarmi e le cose si fanno troppo complicate, be’, sarai talmente imbottita di febbre e medicinali da essere incoerente. «Ordinerai la colazione per tutte e due. La solita colazione per te, e tè e latte e succhi di frutta per l’invalida.» — Friday, vedo che hai intenzione di nasconderti in una scialuppa. Ma le porte d’accesso delle scialuppe sono sempre chiuse, se a bordo non c’è nessuno. Lo so. — Infatti. Non preoccuparti, Til. — Va bene. Non sta a me preoccuparmi. Okay, posso coprirti dopo che te ne sarai andata. Cosa dico al capitano? — Allora il capitano c’è di mezzo. Lo sospettavo. — È al corrente. Però noi prendiamo ordini dal commissario di bordo. — Sensato. Se facessi in modo che ti ritrovino legata e imbavagliata? Ovviamente la colpa sarà tutta mia. È chiaro che non posso legarti io, perché tu dovrai essere tutte e due dalle prime ore del mattino alla partenza delle scialuppe. Però posso trovare qualcuno che ci pensi per me. Credo. — Il mio alibi farebbe un salto di qualità! Ma chi è il filantropo? — Ricordi la prima sera sulla nave? Sono rientrata tardi, con un uomo. Ci hai servito tè e dolci alle mandorle. — Il dottor Madsen. Conti su di lui? — Credo di sì. Col tuo aiuto. Quella sera era piuttosto eccitato. Lei sbuffò. — La lingua gli arrivava al tappeto. — Sì. È ancora lì. Domani io mi ammalo. Lui viene a visitarmi. Tu sei qui, come al solito. Teniamo le luci spente nella zona letto. Se il dottor Jerry ha i nervi saldi come penso, prenderà quello che gli offro. Dopo di che, collaborerà. — La guardai. — Okay? Il mattino dopo viene a darmi un’occhiata, e ti lega. Semplice. Tilly restò pensosa per lunghi attimi. — No. — No? — Facciamo le cose veramente semplici. Non coinvolgere nessun altro. Nessuno. Non c’è bisogno di legarmi. Servirebbe solo a destare sospetti. Senti la mia storia. A un certo punto, poco prima che le scialuppe partano, tu decidi che stai bene. Ti alzi, ti vesti, e lasci la cabina. Non mi spieghi i tuoi piani; io sono solo la povera cameriera scema. Non mi dici mai cose del genere. O magari hai cambiato idea e vuoi partecipare lo stesso alle escursioni. In ogni caso, non importa. Io non ho l’incarico di tenerti a bordo della nave. La mia unica responsabilità è sorvegliarti qui in cabina. Non credo che nemmeno Pete abbia la responsabilità di tenerti a bordo. Se riesci a tagliare la corda, probabilmente l’unico che resterà bruciato sarà il capitano. E non verserò lacrime su di lui. — Tilly, credo che tu abbia ragione, su tutti i punti. Presumevo che tu volessi un alibi. Ma te la caverai meglio senza. Lei mi guardò e sorrise. — Però questo non dovrà impedirti di portare a letto il dottor Madsen. Divertiti. Uno dei miei compiti era tenere gli uomini lontano dal tuo letto, come probabilmente saprai… — Lo avevo immaginato — ammisi secca. — Però adesso cambio rotta, per cui la cosa finisce qui — Di colpo le spuntarono le fossette. — Forse dovrei offrire un premio al dottor Madsen. Quando verrà a trovare la sua paziente il mattino dopo e gli dirò che sei andata alla sauna o da qualche altra parte. — Non offrirgli un premio di quel tipo se non fai sul serio. Perché so che lui fa sul serio. — Rabbrividii. — Ne sono certa. — Se offro, do. Siamo d’accordo? — Si alzò; la imitai. — Resta il particolare di cosa ti devo. — Ci ho pensato, Marj, tu conosci le tue possibilità meglio di me. Lascio decidere a te. — Non mi hai nemmeno detto cosa ti pagano. — Non lo so. Il mio padrone non me l’ha detto. — Sei una schiava? — Provai una desolazione improvvisa. Sarebbe successo a qualunque Pa. — Non più. O non del tutto. Sono stata venduta per ventun anni. Me ne mancano ancora tredici. Poi sarò libera. — Ma… Dio, Tilly, lascia anche tu questa nave! Lei mi mise una mano sul braccio. — Calma. Mi ci hai fatto pensare proprio tu. È il motivo principale per cui non voglio essere legata. Marj, dai documenti che sono stati consegnati per il mio imbarco non risulta che non sono una Persona Libera. Di conseguenza, posso partecipare a un’escursione a terra se ho i soldi per pagare e li ho. Forse ci rivedremo laggiù. — Sì! — la baciai. Lei mi attirò a sé forte, e il bacio guadagnò ritmo. Tilly mugolava contro la mia lingua, e una delle sue mani scivolò sotto il mio accappatoio. Alla fine riuscii a interrompere il bacio, a guardarla negli occhi. — È questo che provi, Tilly? — Al diavolo, sì! Dalla prima volta che ti ho fatto il bagno. Quella sera, gli emigranti che lasciavano la nave a Botany Bay allestirono uno show per i passeggeri della prima classe. Il capitano mi disse che quegli spettacoli erano tradizionali e che in genere i passeggeri di prima classe offrivano qualcosa per i coloni, ma l’offerta non era obbligatoria. Lui stesso si presentò in salone la sera (un’altra tradizione), e io mi trovai seduta al suo fianco. Sfruttai l’occasione per accennargli che non mi sentivo troppo bene. Aggiunsi che forse avrei dovuto annullare le prenotazioni per le escursioni, e mi lamentai come si conviene. Lui mi disse che se non mi sentivo in perfetta forma, non dovevo rischiare di espormi alla superficie di un pianeta alieno; ma non mi preoccupassi troppo di perdere Botany Bay, che non era poi quella gran cosa. Il resto del viaggio era la parte più fantastica. Kosì fai la brava rakazza, o defo kiuderti in kabina? Gli risposi che se il mio stomaco non la smetteva di fare i capricci, non sarebbe stato necessario mettermi sotto chiave. Il viaggio ad Avamposto era stato orribile, nausee continue, e non avrei rischiato niente del genere un’altra volta. Avevo predisposto la messinscena a cena, limitandomi a mangiare come un uccellino. Lo spettacolo fu una cosa da dilettanti, però divertente. Qualche scenetta, ma soprattutto canzoni di gruppo: Tie Me Kangaroo Down, Waltzing Matilda, Botany Bay, e, per il bis, The Walloping Window Blind. Me lo godetti, ma non mi sarebbe sembrato niente di speciale non fosse stato per un uomo nella seconda fila del coro, un uomo che mi era familiare. Lo guardai e mi chiesi: Friday, sei diventata il tipo di vacca distratta e indifferente che non ricorda nemmeno se ha dormito o no con un uomo? Mi ricordava il professor Federico Farnese. Però costui aveva una barba imponente, mentre Freddie era del tutto glabro; il che non dimostrava nulla, visto che c’era stato tutto il tempo perché lui si facesse crescere la barba, e prima o poi quasi tutti i maschi si lasciano prendere dalla mania della barba. Comunque, i peli mi rendevano impossibile ogni certezza. E l’uomo non si esibì mai in un assolo, per cui non potei identificare nemmeno la voce. L’odore del corpo: impossibile, a una trentina di metri di distanza, isolarlo fra dozzine di altri odori. Provavo la forte tentazione di non fare la signora: alzarmi, traversare la pista da ballo, e affrontarlo di petto. — Sei Freddie? Non mi hai portata a letto ad Auckland il maggio scorso? E se avesse risposto di no? Sono una vigliacca. Quello che feci fu dire al capitano che mi sembrava di aver riconosciuto una vecchia conoscenza di Sydney fra gli emigranti, e come potevo accertarmi? Andò a finire che scrissi «Federico Farnese» su un programma e il capitano lo passò al commissario di bordo, che lo passò a uno dei suoi assistenti, il quale sparì e tornò poco dopo riferendo che fra gli emigranti c’erano diversi nomi italiani, però nessuno dei nomi, italiani o meno, somigliava vagamente a «Farnese». Lo ringraziai e ringraziai il commissario di bordo e ringraziai il capitano; poi pensai di chiedere lo stesso controllo per «Tormey» e «Perreault», ma decisi che era una mossa idiota: non avevo visto né Betty né Janet, e loro non potevano farsi crescere la barba. Avevo solo visto una faccia dietro un barbone enorme, cioè avevo visto niente. Mettete la barba a un uomo, e vedrete solo brandelli incomprensibili di carne. Decisi che tutte le sciocchezze da vecchie comari sulle donne incinte erano probabilmente vere. 32 Erano le due dopo mezzanotte, ora della nave. L’emersione nello spazio normale si era verificata in orario, verso le undici del mattino, e i calcoli erano stati talmente precisi che la Forward doveva entrare in orbita stazionaria attorno a Botany Bay alle zero sette e quarantadue, con diverse ore di anticipo rispetto alle previsioni fatte nell’iperspazio. La cosa non mi fece piacere, perché la partenza delle scialuppe al mattino presto aumentava il rischio (pensavo) che la gente continuasse ad aggirarsi per i corridoi alle ore piccole della notte. Be’, non avevo scelta. Non disponevo di una seconda chance. Terminai i preparativi dell’ultimo minuto, diedi a Tilly il bacio d’addio, le feci cenno con l’indice di stare zitta, e uscii dalla porta della cabina Bb. Dovetti avventurarmi verso poppa e scendere di tre ponti. Rallentai un paio di volte, per evitare gli uomini del turno di guardia notturno. Una volte mi infilai in un passaggio laterale per schivare un passeggero, proseguii verso poppa fino al corridoio successivo, poi deviai a tribordo. Alla fine raggiunsi il piccolo corridoio (un vicolo cieco) che portava al boccaporto d’imbarco della scialuppa. Mac-Pete-Percival stava aspettando lì. Mi avvicinai in fretta, sorridente; portai un dito alle labbra per chiedere silenzio, e lo colpii dietro l’orecchio. Lo coricai sul ponte, me lo tolsi dai piedi, e cominciai a lavorare sulla serratura a combinazione e scoprii che era quasi impossibile leggere le cifre sul quadrante, anche con la mia vista notturna super. Nei corridoi erano accese solo le luci notturne, e in quel vicolo cieco regnava il buio più assoluto. Sbagliai due volte la combinazione. Mi fermai a riflettere. Tornare alla cabina Bb in cerca di una torcia elettrica. Io non ne avevo, ma forse Tilly ne aveva una. Se non era così, dovevo aspettare il mattino, quando si sarebbero riaccese le luci? Il margine di sicurezza sarebbe stato troppo scarso; la gente avrebbe cominciato a circolare. Ma avevo una scelta? Diedi un’occhiata a Pete. Ancora svenuto, ma il suo cuore era forte… E buon per te, Pete; fossi stata in overdrive totale, saresti morto. Lo perquisii. Gli trovai addosso, e non mi stupì, una torcia micro: nel suo lavoro (farmi la guardia) poteva aver bisogno di una torcia elettrica, mentre Miss Dollaro Facile non pensava certo a cose del genere. Pochi secondi dopo avevo aperto lo sportello. Trascinai dentro Pete, chiusi il portello e lo bloccai, girando il comando a ruota in senso orario e poi antiorario. Mi voltai, vidi le ciglia di Pete che si muovevano leggermente, e gli assestai un altro colpo. Seguì un lavoro maledettamente complicato. Pete ha una massa di ottantacirrque chili circa, non molto per un uomo. Però sono venti chili più di me, e lui è parecchio più grosso. Da Tom sapevo che per adeguarsi a Botany Bay, i tecnici tenevano la gravità della nave a 0,97 g. Al momento avrei preferito la caduta libera o un apparecchio antiG, perché non potevo lasciare Pete dietro di me, vivo o morto che fosse. Riuscii a sistemarmelo sulla schiena in quella che qualcuno chiama «presa del pompiere», poi scoprii che il modo migliore per vedere davanti a me e avere una mano libera in caso fossi assalita da cani o affini era stringere in bocca la piccola torcia di Pete, a mo’ di sigaro. Avevo bisogno disperato della luce; ma se avessi potuto scegliere, se non avessi avuto quel peso morto, sarei avanzata al buio a tentoni. Sbagliando strada una sola volta arrivai finalmente a quell’enorme stiva, che sembrava ancora più grande fra le tenebre perforate solo da un raggio di luce piccolo piccolo. Non avevo previsto l’oscurità totale, pensavo che anche sulla scialuppa fossero accese le luci notturne che rischiaravano la nave da mezzanotte alle sei. Alla fine raggiunsi il nascondiglio che avevo scelto il giorno prima: il gigantesco turbogeneratore Westinghouse. Quella macchina enorme probabilmente veniva alimentata a gas, o magari a vapore; di certo non era stata costruita per gli Shipstone. Esistono parecchie attrezzature obsolete che sono ancora utili alle colonie ma non vengono più usate ovunque siano disponibili gli Shipstone. Non ne so nulla, comunque il funzionamento di quella cosa non m’interessava; a me importava solo il fatto che metà del turbogeneratore era una specie di tronco di cono gigante disposto in orizzontale. Al centro del turbogeneratore, sotto l’estremità più stretta del tronco, si formava uno spazio vuoto, uno spazio alto più di un metro. Quanto bastava per un corpo. Il mio. Anche per due, con un po’ di fortuna, visto che avevo questo ospite indesiderato che non potevo né uccidere né abbandonare sulla nave. Lo spazio era un posticino molto intimo perché gli uomini di Tom, prima di legare saldamente quel mostro, lo avevano ricoperto con un telone incerato. Dovetti strisciare dentro fra un cavo e l’altro, poi dovetti compiere sforzi diabolici per far entrare anche Pete. Ci riuscii. Dopo aver detto addio a qualche brandello di carne. Controllai di nuovo il mio ospite, poi lo sbucciai. Se non ero del tutto scalognata, avrei potuto dormire un po’ il che sarebbe stato impossibile, se mi fossi lasciata dietro una delle mie guardie. Pete portava calzoni, cintura, camicia, mutande, calzini, scarpe da ginnastica e un maglione. Gli tolsi tutto, poi gli legai i polsi dietro la schiena con la camicia, le caviglie con le gambe dei pantaloni, e infine con la cintura gli incatenai le caviglie ai polsi, sempre dietro la schiena: una posizione maledettamente scomoda, che mi hanno insegnato all’addestramento di base come tattica per scoraggiare i tentativi di fuga. Poi cominciai a imbavagliarlo, usando mutande e maglione. Lui disse piano: — Non ce n’è bisogno, signorina Friday. Sono sveglio da un po’. Parliamo. Mi fermai. — Mi sembrava che avessi ripreso conoscenza. Ma avrei continuato a fingere di non saperlo, se fingevi anche tu. Ho pensato che non mi avresti dato guai. Devi esserti reso conto che sono pronta a tagliarti le gonadi e infilartele giù per la gola. — Avevo immaginato qualcosa del genere. Ma non credevo poteste essere tanto drastica. — Perché no? Ho già incontrato le tue gonadi in passato. E non nel migliore dei modi. Se ne ho voglia, ho il diritto di tagliarle. Obiezioni? — Signorina Friday, mi lasciate parlare? — Sicuro, perché no? Ma un solo strillo più forte di un sospiro, e ti strappo quei giocattolini. — Feci in modo che capisse bene a cosa alludevo. — Ahi! Piano, per favore. Stanotte il commissario di bordo ha fatto raddoppiare la sorveglianza. Io… — Raddoppiare? In che senso? — Di solito è Tilly, Shizuko, l’unica di turno da quando vi ritirate in cabina a quando vi alzate. Quando voi vi svegliate, lei preme un pulsante e io so che devo montare la guardia. Ma il commissario di bordo, o forse il capitano, è molto in ansia per voi. È preoccupato che possiate tagliare la corda a Botany Bay… Sgranai gli occhi. — Numi santissimi! Chi può nutrire pensieri tanto maligni sulla povera vecchia Friday? — Non so immaginarlo — rispose solennemente lui. — Ma perché siamo su questa scialuppa? — Io voglio farmi un giretto turistico. E tu? — Anch’io. Spero. Signorina Friday, ho capito che se avevate intenzione di fuggire a Botany Bay, era probabile che tentaste qualcosa stanotte. Non sapevo come pensaste di salire sulla scialuppa, ma avevo fiducia in voi… E vedo che la mia fiducia era giustificata. — Grazie. Almeno un pochettino. Chi sta di guardia alla scialuppa di babordo? O non c’è nessuno? — Graham. Il tipo biondo. Forse lo avrete notato. — Troppo spesso. — Io ho scelto questa scialuppa perché ieri avete fatto un giro qui col signor Udell. Oppure ieri l’altro, dipende da come tenete i conti del tempo. — Non me ne frega niente dei conti del tempo. Pete, cosa succede quando si accorgono che sei scomparso? — Potrebbero anche non accorgersene. Joe Stupid… chiedo scusa, Jospeh Steuben… l’altro è il nome che gli ho affibbiato io… ha istruzioni di darmi il cambio dopo colazione. Se conosco Joe, non se la prenderà se non mi trova al portello. Si metterà a sedere sul ponte con la schiena contro il portello e dormirà finché non arriverà qualcuno ad aprire. Poi resterà lì finché la scialuppa non sarà partita, dopo di che tornerà in cabina e si metterà a letto, aspettando che io vada a cercarlo. Joe è fedele come un cane ma non è furbo. È su questo che ho fatto affidamento. — Pete, da come lo dici sembra che avessi previsto tutto. — Non avevo previsto di rimediarci un collo indolenzito e un’emicrania. Se mi aveste dato il tempo di parlare, non sareste stata costretta a trascinarmi. — Pete, se stai cercando di convincermi a slegarti con le tue chiacchiere dolci, hai sbagliato uomo. — Non sarebbe meglio dire che ho sbagliato donna? — Be’, comunque hai sbagliato, e non migliorerai la tua situazione mettendoti a criticare quello che dico. Sei in brutti guai, Pete. Dammi un solo buon motivo per non ucciderti e piantarti qui. Perché il capitano ha ragione; io taglio la corda. E non posso accollarmi anche te. — Be’… Un motivo è che troveranno il mio corpo in mattinata, quando scaricheranno. A quel punto si metteranno a cercarvi. — Io sarò a molti chilometri dall’altra parte dell’orizzonte. Ma perché dovrebbero cercare me? Non ti lascerò addosso le impronte digitali. Solo qualche striatura viola sul collo. — Movente e occasione. Botany Bay è una comunità piuttosto ligia alle leggi, signorina Friday. Se vi limitate a lasciare la nave, è probabile che ve la possiate cavare. Lo hanno già fatto altri. Ma se siete ricercata per un omicidio commesso sulla nave, gli indigeni collaboreranno. — Invocherò l’autodifesa. Sei un noto stupratore. Per amor del cielo, Pete, cosa devo farne di te? Sei un peso morto. Lo sai che non ti ucciderò. Non so uccidere a sangue freddo. Devo esserci costretta. Ma se ti lascio legato… Vediamo… Cinque più tre fa otto, poi aggiungi come minimo altre due ore prima che comincino a scaricare… Sono almeno dieci ore… E dovrò imbavagliarti, e comincia a fare freddo… — Potete scommetterci che fa freddo! Non potreste coprirmi col mio maglione? — Va bene, però dovrò usarlo quando ti imbavaglio. — E a parte il freddo, mi si stanno addormentando mani e piedi. Signorina Friday, se mi lasciate legato qui per dieci ore, mani e piedi mi andranno in cancrena, e li perderò. Niente rigenerazione, sulle colonie. Quando tornerò a un posto dove possano curarmi, sarò un relitto umano. È più misericordioso uccidermi. — Accidentaccio, stai cercando di lavorarti la mia compassione! — Non sono certo che ne abbiate. — Senti — gli dissi — se ti slego e ti lascio rivestire per non congelare, ti lascerai legare e imbavagliare più tardi senza resistere? Oppure devo colpirti più forte di quanto abbia fatto prima e metterti del tutto fuori combattimento? Col rischio di romperti il collo? Mi hai vista combattere… — Non ho visto. Ho semplicemente avuto sotto gli occhi i risultati. Ne ho sentito parlare. — Fa lo stesso. Sai. E devi sapere perché sono in grado di fare cose simili. Mia madre era una provetta… — …E mio padre, un bisturi — mi interruppe lui. — Signorina Friday, non ero obbligato a lasciarmi colpire. Siete veloce, ma io lo sono quanto voi, e ho braccia più lunghe. Sapevo che avete doti super, mentre voi non sapevate che le ho anch’io. Quindi ero in vantaggio. Ero seduta nella posizione del loto, e lo guardavo, quando lui uscì in questo sorprendente annuncio. Mi girò la testa e mi chiesi se avrei vomitato un’altra volta. — Pete — chiesi, quasi implorante — tu non mi mentiresti? — Ho dovuto mentire tutta la vita — rispose lui. — Come voi. Comunque… — S’interruppe, contorse i polsi; si liberò. Lo sapete che forza occorre per spezzare nodi fatti con le maniche di una buona camicia? Sono più robuste di una corda di canapa dello stesso spessore. Provateci. — Non mi importa rovinare la camicia — disse lui, in tono di conversazione. — Basterà il maglione a coprirmi. Però preferirei non rovinare i calzoni. Spero di poterli indossare in pubblico prima di essermene procurato un altro paio. Per voi è più facile arrivare ai nodi. Volete slegarmi, signorina Friday? — Smettila di chiamarmi signorina Friday, Pete. Siamo solo due Pa nella stessa barca. — Cominciai a lavorare sui nodi. — Perché non me lo hai detto prima? — Avrei dovuto dirvelo. È successo dell’altro. — Fatto. Dio, che piedi freddi! Adesso te li sfrego. Faccio ripartire la circolazione. Dormimmo un po’, o almeno dormii io. Pete mi scrollava la spalla e diceva piano: — Svegliati. Dobbiamo essere quasi arrivati. Si sono accese le luci. Un bagliore fioco penetrava sopra, sotto e attraverso il telone che copriva il dinosauro che ci era servito da letto. Sbadigliai. — Ho freddo. — Lamentati. Ti ho tenuta abbracciata stretta. Il mio corpo era esposto all’aperto. Sto gelando. — Hai quello che ti meriti. Stupratore. Sei troppo magro. Come coperta non vali due soldi. Pete, dobbiamo farti ingrassare. A proposito, non abbiamo fatto colazione. E se penso al cibo… Credo che vomiterò. — Uh… Scavalcami e cerca di scaricarti lì nell’angolo. Non qui, se no ci finiamo dentro. E fai il meno rumore possibile. Qui attorno potrebbe già esserci qualcuno. — Bruto. Bruto senza cuore. Mi fai talmente schifo che non vomiterò. Nell’insieme, mi sentivo abbastanza bene. Avevo preso una delle pastigliette blu appena prima di lasciare la cabina Bb, e pareva che funzionasse. Avevo una farfalla o due nello stomaco, ma non dovevano essere troppo muscolose; non erano di quelle che urlano: «Fammi uscire!» E avevo con me il resto della scorta che il dottor Jerry mi aveva dato. — Pete, qual è il piano? — Lo chiedi a me? Questa evasione l’hai preparata tu, non io. — Sì, però tu sei un uomo, grosso e forte e virile, e russi. Pensavo che prendessi tu il comando e studiassi i particolari mentre io dormivo. Mi sono sbagliata? — Be’… Friday, qual è il tuo piano? Il piano che hai preparato quando non ti aspettavi di avere anche me al seguito. — Non era un grande piano. Dopo che atterriamo, dovranno aprire una porta, un portello per i passeggeri o una delle grosse porte per le merci. Una o l’altra non fa differenza, perché appena aprono io scappo fuori di qui come un gatto spaventato, pronta a calpestare tutto quello e tutti quelli che mi sbarrano la strada… e non mi fermo finché non sono molto lontana dalla nave. Non voglio fare del male a nessuno, ma spero che nessuno si sforzi di fermarmi, perché non mi lascerò fermare. — Un buon piano. — Dici? In effetti non è un piano. Solo una decisione. Si apre una porta e io balzo fuori. — È un buon piano perché non ha parti complicate che possano andare storte. E tu avrai un grosso vantaggio. Non oseranno farti niente. — Vorrei poterne essere sicura. — Se ti succede qualcosa, sarà per un incidente, e il responsabile verrà appeso per i pollici. Come minimo. Adesso che ho sentito il resto della tua storia, so perché mi hanno dato istruzioni così enfatiche. Friday, non ti vogliono viva o morta; ti vogliono in perfetta salute. Ti lasceranno scappare prima di farti qualcosa. — Allora sarà facile. — Non contarci troppo. Okay, sei una tigre, però è già stato dimostrato che un numero sufficiente di uomini può placcarti e tenerti ferma. Lo sappiamo tutti e due. Se sanno che sei scomparsa… E penso che lo sappiano. La scialuppa ha lasciato l’orbita con oltre un’ora di ritardo. — Oh! — Gettai un’occhiata all’indice. — Sì, ormai dovremmo essere a terra. Pete, mi stanno cercando! — Credo di sì. Ma era inutile svegliarti prima che si accendessero le luci. A questo punto hanno avuto quattro ore per accertarsi che non sei sul ponte superiore, con gli escursionisti di prima classe. Avranno controllato anche gli emigranti. Quindi, se sei qui, se non te ne stai nascosta sulla nave, devi essere nella stiva. Guarda che sto semplificando, perché in uno spazio enorme come questa scialuppa ci sono centinaia di modi per giocare a nascondino. Ma terranno d’occhio i due passaggi obbligati, la porta per le merci a questo livello e il portello passeggeri qui sopra. Friday, se usano gente a sufficienza, e la useranno, e se quei bastardi hanno reti e cavi e corde moschicide, e le avranno, ti prenderanno senza torcerti un capello appena scendi dalla scialuppa. — Oh. — Ci pensai su. — Pete, se arriviamo a questo ci saranno morti e feriti. Potrei crepare io stessa, ma pagheranno un prezzo elevato per la mia carcassa. Grazie di avermi avvertita. — Potrebbero anche non farlo. Potrebbero sorvegliare le uscite in modo molto evidente, per costringerti a restare qui. Quindi gli emigranti scendono… Lo sai che escono dalla porta per le merci, no? — Non lo sapevo. — Be’, è così. Quelli scendono, vengono controllati, dopo di che i porci chiudono la grande porta e riempiono la stiva di gas soporifero. Oppure di gas lacrimogeno, e ti costringono a uscire con gli occhi gonfi e la testa sottosopra. — Brr! Pete, su questa nave, sono davvero attrezzati con quei gas? Me lo sono chiesto. — Hanno anche di peggio. Senti, il comandante della nave lavora ad anni luce di distanza dalla legge e dall’ordine, e in caso di emergenza può contare solo su una manciata di uomini. In quarta classe, quasi a ogni viaggio, questa nave trasporta una gang di criminali disposti a tutto. È logico che esistano le attrezzature per riempire di gas ogni scompartimento a piacere. Però, Friday, tu non sarai qui quando useranno i gas. — Eh? Vai avanti. — Gli emigranti passano nel corridoio centrale della stiva. Questa volta ce ne sono quasi trecento. Nella loro zona saranno più stretti di sardine in scatola. Sono talmente tanti che presumo non siano riusciti a conoscersi tutti quanti fra loro, nel poco tempo che hanno avuto. Sfrutteremo questo vantaggio. Più un vecchio, vecchissimo metodo, Friday. Quello che Ulisse ha usato con Polifemo… Pete e io ce ne stavamo acquattati in un angolo quasi buio, fra la parte più alta del generatore e qualcosa chiuso in una grossa cassa. Le luci cambiarono, e udimmo il mormorio di molte voci. — Arrivano — sussurrò Pete. — Ricorda, scegli qualcuno che sia impacciato da troppa roba. Ce ne saranno parecchi. I nostri vestiti vanno bene. Non sembriamo di prima classe. Però dobbiamo avere qualcosa in mano. Gli emigranti sono sempre carichi. Mi è stato assicurato. — Cercherò di prendere il figlio a qualche donna — dissi io. — Perfetto, se ce la fai. Zitta, eccoli qui. Erano davvero carichi di roba, per colpa di quella che mi sembra una politica pidocchiosa delle compagnie di linea. Un emigrante può portare con sé tutto quello che riesce a infilare nei ripostigli per scope che in terza classe chiamano cabine, purché riesca a portarlo giù dalla nave senza essere aiutato da qualcuno; è questa la definizione di «bagaglio a mano». Ma se deve mettere qualcosa nella stiva, paga la tariffa merci. So che la compagnia deve avere il suo guadagno, ma non è detto che politiche del genere debbano piacermi. In ogni caso, quel giorno avremmo cercato di volgere a nostro vantaggio la pidocchieria. Quando ci passarono davanti, quasi nessuno guardò dalla nostra parte, e i pochi non dimostrarono alcun interesse. Apparivano stanchi e preoccupati, e probabilmente lo erano. C’erano un sacco di bambini, e quasi tutti piangevano. Le prime venti o trenta persone della colonna ci superarono in fretta. Poi la fila rallentò (più bambini, più bagagli) e i ranghi si serrarono. Era arrivata l’ora di fingere di essere una delle «pecore». Poi, di colpo, in quel caos di odori umani, di sudore e sporcizia e preoccupazioni e paura e muschio e pannolini bagnati, un odore si stagliò chiaro come il tema del Galletto d’Oro nell’Inno al sole di Rimsky-Korsakov, o come un leitmotif wagneriano nel Ciclo dell’Anello; e io strillai: — Janet! Una donna pesante, sul lato opposto della fila, si girò a guardarmi, e lasciò cadere due valigie e mi strinse. — Marjie! — E un uomo con la barba stava dicendo: — Ve lo avevo detto che era a bordo! Ve lo avevo detto! — E Ian accusava: — Sei morta! — e io staccai la bocca da quella di Janet il tempo sufficiente per dire: — No, non sono morta. Il secondo pilota Pamela Heresford ti invia i suoi più calorosi saluti. Janet disse: — Quella puttana! — Ian disse: — Su, Jan — e Betty mi scrutò con cura e disse: — È lei. Ciao, amore! Che bella sorpresa! Parola mia! — e in sottofondo Georges balbettava frasi incoerenti in francese e intanto cercava di staccarmi da Janet. Ovviamente avevamo interrotto l’avanzata della coda. Altre persone, cariche di roba, lamentandosi, ci superarono, ci attraversarono, ci aggirarono. — Rimettiamoci in marcia. Parleremo dopo. — Mi voltai a guardare nel punto dove ci eravamo acquattati Pete e io, e lui era svanito. Non mi diedi altre preoccupazioni: Pete è in gamba. Janet non era realmente pesante o corpulenta; era soltanto incinta di parecchi mesi. Cercai di prenderle una valigia; non me lo permise. — È meglio portarne due. Si equilibra il peso. Così finii col reggere una cesta da viaggio per gatti che conteneva mamma gatta. E un grosso pacco avvolto in carta marrone che Ian teneva sotto il braccio. — Janet, cosa ne hai fatto dei micini? — Grazie alla mia influenza — rispose per lei Freddie — hanno ottenuto un’eccellente posizione, con buone possibilità di carriera, come addetti al controllo dei roditori in un grosso allevamento ovino del Queensland. E ora, Helen, ti prego di informarmi come sia accaduto che tu, tu che solo ieri sei stata vista seduta alla destra del signore e padrone di un enorme incrociatore di linea, oggi ti ritrovi unita ai bifolchi nelle viscere di questa fogna. — Più tardi, Freddie. Quando saremo usciti. Lui lanciò un’occhiata alla porta. — Ah, sì! Più tardi, con libagioni fra amici e tanti racconti. Per adesso dobbiamo ancora superare Cerbero. Due mastini, armati, erano al portello, uno su ciascun lato. Cominciai a recitare mentalmente mantra, mentre scambiavo discorsi idioti con Freddie. I due cani da guardia mi guardarono, e tutti e due parvero trovare il mio aspetto in perfetta regola. Forse mi diedero una mano la faccia sporca e i capelli arruffati che mi ero procurata nel corso della notte, perché sino ad allora non avevo mai lasciato la cabina Bb senza che Shizuko lavorasse come una matta per permettermi di vendermi al prezzo migliore. Superammo il portello, scendemmo una rampa, e ci fecero mettere in fila davanti a un tavolo. Dietro erano seduti due impiegati con un quintale di carte. Uno urlò: — Frances, Frederick J.! Fatti avanti! — Qui! — rispose Federico, e mi girò attorno per presentarsi al tavolo. Una voce alle mie spalle gridò: — Eccola lì! — e io lasciai andare di colpo mamma gatta e balzai verso l’orizzonte. Intuii vagamente un’attività frenetica dietro di me, ma non vi prestai attenzione. Volevo solo uscire il più in fretta possibile dal raggio di tiro di uno storditore o di un lanciacordamoschicida o da un mortaio per lacrimogeni. Non avrei mai potuto distanziare una pistola-radar o un fucile normale, ma di quelli non dovevo preoccuparmi, se Pete aveva ragione. Continuai semplicemente a mettere un piede davanti all’altro. Alla mia destra c’era un villaggio, e avanti diritto degli alberi. Per il momento gli alberi mi parevano una scelta migliore. Continuai a correre. Un’occhiata alle spalle mi disse che il grosso del branco era rimasto indietro. Normale; posso fare mille metri in due minuti secchi. Però due tizi mi tallonavano e forse stavano guadagnando terreno. Così rallentai, con l’intenzione di prenderli per la testa e farli esibire in una bella capocciata, o qualcosa del genere. — Non fermarti! — rantolò Pete. — Noi dovremmo inseguirti. Non mi fermai. L’altro tipo con le gambe veloci era Shizuko. La mia amica Tilly. Dopo essermi addentrata fra gli alberi, fuori portata visiva dalla nave, mi fermai a vomitare. Mi raggiunsero. Tilly mi tenne ferma la testa, poi mi pulì la bocca e cercò di baciarmi. Io girai la faccia. — No. Devo avere un sapore orribile. Sei scesi dalla nave vestita a quel modo? — Indossava un body da ginnastica che la faceva apparire più alta, più snella, più occidentale e molto più femminile di quanto fosse mai stata la mia «cameriera personale». — No. Kimono e obi. Li ho lasciati da qualche parte. Impossibile correre con quella roba addosso. Pete intervenne, irritato. — Basta con le chiacchiere. Dobbiamo portarti via da qui. — Mi afferrò per i capelli, mi baciò. — Chi se ne frega del sapore che hai? Muoviamoci! Ci muovemmo, restando fra gli alberi e allontanandoci sempre più dalla nave. Però molto presto, fu chiaro che Tilly aveva una caviglia slogata e che la situazione peggiorava a ogni passo. Pete mugugnò di nuovo. — Quando tu sei partita a razzo, Til era solo a metà della scaletta del ponte di prima classe. È saltata giù e ha atterrato male. — Sono quei maledetti sandali giapponesi. Non sostengono. Pete, prendi la piccola e scappa. A me non faranno niente. — Un accidenti — ribatté secco Pete. — Ci siamo in mezzo tutti e tre, fino alla fine. Giusto, signo… Giusto, Friday? — Perbacco, sì! Uno per tutti, tutti per uno. Prendila sulla destra, Pete. Io la prendo a sinistra. Nella corsa a cinque gambe ce la cavammo abbastanza bene, senza battere record di velocità ma continuando a mettere sterpaglie fra noi e gli inseguitori. Un po’ più tardi, Pete disse che voleva caricarsela sulla schiena. Io diedi l’ordine di fermarci. — Ascoltiamo. Nessun rumore d’inseguimento. Soltanto i suoni strani di una foresta strana. Richiami d’uccelli? Non ne ero certa. Il posto era un curioso insieme di noto e bizzarro: erba che non era esattamente erba, alberi che sembravano rimasti lì da un’altra era geologica, clorofilla abbondantemente striata di rosso; o magari era autunno? Come sarebbe stata la notte? Considerati i tempi della nave, non mi pareva una buona idea andare in cerca di gente nei tre giorni successivi. Per settantadue ore potevamo resistere senza cibo o acqua; ma se di notte lì gelava? — Va bene — dissi. — A cavalcioni. Però facciamo a turno. — Friday! Non puoi portarmi. — Stanotte ho portato Pete. Diglielo, Pete. Credi che non me la sappia cavare con una bambolina giapponese come te. — Bambolina giapponese un corno. Sono americana quanto te. — Anche di più, probabilmente. Perché io non lo sono molto. Ti spiegherò dopo. Salta su. La trasportai per una cinquantina di metri, poi Pete la trasportò per altri duecento circa, e così via; quella era l’idea di Pete, di fare a metà. Dopo un’ora di questa trafila arrivammo a una strada: solo un sentiero scavato fra gli arbusti, ma si vedevano tracce di ruote e zoccoli. Sulla sinistra la strada si allontanava dalla scialuppa e dalla città, per cui prendemmo a sinistra. Shizuko riusciva a camminare, ma si appoggiava pesantemente a Pete. Arrivammo a una fattoria. Forse avremmo dovuto aggirarla, ma a quel punto desideravo un bicchiere d’acqua più della sicurezza assoluta, e volevo fasciare la caviglia a Tilly prima che le diventasse più grande della testa. Sulla veranda, su una sedia a dondolo, era seduta una donna anziana, coi capelli grigi, molto in ordine e compassata. Faceva la maglia. Al nostro arrivo alzò la testa, ci fece cenno di avvicinarci alla casa. — Sono la signora Dundas — disse. — Siete scesi dalla nave? — Sì — ammisi. — Io sono Friday Jones e questa è Matilda Jackson e questo è il nostro amico Pete. — Pete Roberts, signora. — Venite a sedervi, tutti quanti. Mi scuserete se non mi alzo. La mia schiena non è più quella di una volta. Siete scappati, vero? Dalla nave? (Incassa il colpo. Ma stai pronta a schivare.) — Sì. È vero. — Logico. La metà di quelli che scappano finiscono qui da noi. Be’, stando a quello che ha detto la radio stamattina dovrete nascondervi almeno tre giorni. Siete i benvenuti, e a noi gli ospiti fanno piacere. Naturalmente potete filare diritti agli alloggi per profughi; lì le autorità della nave non possono toccarvi. Però possono rendervi difficile la vita con le loro interminabili discussioni legali. Potrete decidere dopo pranzo. Per adesso vi va una bella tazza di tè? — Sì! — accettai. — Bene, Malcolm! Ehi, Malcolm! — Cosa c’è, mamma? — Metti il pentolino sul fuoco! — Come? — Il pentolino. — Rivolta a Tilly, la signora Dundas aggiunse: — Bambina, cosa ti sei fatta al piede? — Credo di essermi slogata la caviglia, signora. — Puoi scommetterci! Tu… Friday, giusto? Vai a cercare Malcolm e digli che voglio il catino più grosso pieno di ghiaccio tritato. Poi, se vuoi, puoi preparare tu il tè intanto che Malcolm trita il ghiaccio. — E tu, signor Roberts, puoi aiutarmi a uscire da questa sedia? Ci sarà bisogno di altre cose per il piede di questa povera bambina. Bisognerà fasciarlo dopo che lo avremo sgonfiato. E tu, Matilda, sei allergica all’aspirina? — No, sinora. — Mamma! L’acqua bolle! — Vai tu, Friday, cara. Andai a preparare il tè, col cuore che intonava una canzone. 33 Sono passati vent’anni. Vent’anni di Botany Bay, ma la differenza non è molta. Venti buoni anni. Queste mie memorie si basano su nastri che registrai a Pajaro Sands prima della morte di Boss, poi su appunti che presi subito dopo essere arrivata qui, appunti che costituissero una «prova» quando ancora credevo di dover combattere l’estradizione. Ma quando si trovarono nell’impossibilità di portare a compimento il loro piano, servendosi di me, smisero di interessarsi a me; logico, dal momento che per loro non sono mai stata niente di più di un’incubatrice vivente. Poi la questione divenne accademica quando il Primo Cittadino e la delfina vennero assassinati assieme da quella bomba piazzata nella loro carrozza. A dire il vero, le mie memorie dovrebbero fermarsi con l’arrivo a Botany Bay, perché a quel punto la mia vita smise di avere apici drammatici. Dopo tutto, di cosa può parlare una donna di campagna che scriva le sue memorie? Di quante uova abbiamo avuto la stagione scorsa? Vi interessa? A me sì, ma a voi no. Chi è felice e contento non scrive diari; è troppo occupato a vivere. Ma risentendo i nastri e rileggendo gli appunti (e tagliando il sessanta per cento delle parole) ho scoperto cose che devo chiarire, visto che ne ho parlato. La carta di credito Visa di Janet annullata: io ero «morta» nell’esplosione che aveva affondato la Skip to M’Lou. Georges fece controlli accurati a Vicksburg bassa e gli assicurarono che non c’erano stati superstiti. Dopo di che chiamò Janet e lan mentre loro, avvertiti dall’agente di Winnipeg di Boss, stavano per partire per l’Australia; quindi, ovviamente, Janet fece annullare la carta di credito. La cosa più strana è stata ritrovare la mia «famiglia». Ma Georges dice che lo strano non è che loro siano qui, bensì che ci sia io. Erano tutti schifati e disgustati della Terra; dove potevano andare? Botany Bay non è una scelta obbligata, ma per loro è senz’altro la scelta più logica. È un buon pianeta, parecchio simile alla Terra di secoli fa, ma con conoscenze e tecnologie moderne. Non è primitivo come Foresta, né oltraggiosamente costoso come Alcione o Paese di Cuccagna. Nella liquidazione forzata presero molto, ma restarono con quanto bastava per raggiungere Botany Bay in terza classe, pagare i contributi alla compagnia e alla colonia, e avere ancora un capitale iniziale. (Lo sapevate che qui su Botany Bay nessuno chiude a chiave la porta? Che tante porte non hanno nemmeno la serratura? Mirabile visu!) Georges dice che l’unica vera grossa coincidenza sta nel fatto che io mi trovassi sulla loro stessa nave, e questo accadde per un soffio. Persero la Dirac e forse avrebbero perso anche la Forward se Janet, testarda, non avesse preteso di fare il viaggio con un bambino in pancia e non fra le braccia. Ma, naturalmente, se fossero partiti prima o dopo, li avrei comunque ritrovati qui. Il nostro pianeta ha più o meno le dimensioni della Terra, ma la colonia è ancora piccola ed è quasi tutta concentrata in un’unica area, e a tutti quanti interessa sempre fare nuovi amici. Ci saremmo incontrati senz’altro. E se non mi avessero mai offerto quel lavoro con l’imbroglio? Si può sempre giocare ai «se»; però penso che con cinquanta probabilità su cento, dopo aver preso le informazioni che mi interessavano, avrei lo stesso scelto Botany Bay. «C’è un destino che forgia le nostre parabole», e io non ho lamentele da sporgere. Mi piace fare la donna coloniale in un gruppo-8. Qui non è formalmente un gruppo-S, perché non abbiamo troppe leggi sul sesso e il matrimonio. Noi otto e i nostri figli viviamo tutti in una casa gigantesca che Janet ha progettato e noi abbiamo costruito. (Non sono un ebanista, ma come falegname d’assalto sono decisamente wow!) I vicini non hanno mai fatto domande impertinenti sui rapporti di parentela, e Janet li stritolerebbe se le facessero. Qui se ne fregano tutti; su Botany Bay i bambini sono benvenuti. Passeranno ancora parecchi secoli prima che qualcuno parli di sovrappopolazione o crescita zero. I vicini non vedranno questo resoconto, perché l’unica cosa che intendo pubblicare qui è un’edizione rivista del mio ricettario: è un buon libro di cucina perché io sono lo scrittore fantasma di due grandi cuochi, Janet e Georges; in più ho alcuni consigli pratici per le giovani donne di casa che devo a Blondie. Quindi qui posso discutere liberamente della paternità. Georges ha sposato Matilda quando Percival ha sposato me; credo che abbiano tirato le paglie. Naturalmente, mia figlia ricade nella vecchia categoria provetta-e-bisturi; però quella frase, su Botany Bay, non l’ho sentita una sola volta. Forse gli antenati di Wendy derivano in parte, o in maggioranza, da un’ex casa regnante nel Regno. Io non gliel’ho mai lasciato sospettare, e ufficialmente Percival è suo padre. Quello che so è che Wendy non ha difetti congeniti di nascita, e Freddie e Georges dicono che non ha nemmeno alcun tratto recessivo. Da piccola non è stata più terribile di altri bambini, e la solita, moderata razione di sculacciate è sempre bastata a calmarla. Credo sia una persona a posto, il che mi fa piacere perché è la mia unica figlia, anche se non ha alcun vero rapporto con me. L’unica… Dopo averla scodellata, ho chiesto a Georges di annullare la mia sterilità. Lui e Freddie mi hanno esaminata e mi hanno detto che si poteva fare… sulla Terra. Non a New Brisbane. Non per anni e anni. Così abbiamo tagliato la testa al toro, e io ho scoperto di essere abbastanza sollevata. L’ho fatto una volta, non ho bisogno di ripeterlo. Sotto i piedi abbiamo bambini e cani e mici; non è necessario che i bambini escano dal mio corpo più di quanto lo sia per i gatti. Un bambino è un bambino, e Tilly ne fa di perfetti, e anche Janet e Betty. E anche Wendy. Non fosse impossibile, direi che le propensioni sessuali le vengano dalla madre; da me, intendo. Non aveva ancora compiuto quattordici anni la prima volta che è tornata a casa e mi ha detto: «Mamma, credo di essere incinta.» Io le ho risposto: «In queste cose è meglio essere sicure, cara. Vai dallo zio Freddie e fatti fare il test del topolino.» Annunciò il risultato a cena, il che trasformò la cena in un party, perché, per lunga tradizione della nostra famiglia, ogni volta che una donna resta incinta si celebra e si brinda. Così Wendy ebbe il suo primo party di gravidanza a quattordici anni, e il secondo a sedici, e il terzo a diciotto, e l’ultimo appena la settimana scorsa. Sono lieta che abbia intervallato le nascite, perché i figli li ho allevati tutti io; tutti, tranne l’ultimo. Per quello si è sposata. Quindi non sono mai stata a corto di piccoli da coccolare, anche se abbiamo quattro… adesso cinque… no, sei madri in casa. Il primo figlio di Matilda ha un padre di alto rango. Eccellente materiale: il dottor Jerry Madsen. Così mi dice lei, e io le credo. È andata così: il suo ex padrone l’aveva appena fatta togliere dalla condizione di sterilità, perché voleva fecondarla, quando gli si presentò l’occasione di vendere i suoi servigi per quattro mesi a ottimo prezzo. Così lei diventò Shizuko, col sorriso timido e l’inchino modesto, e cominciò a farmi la guardia; ma contemporaneamente, senza volerlo, anch’io cominciai a fare la guardia a lei. Oh, avesse tentato, avrebbe potuto trovare di giorno un po’ di vita notturna; ma il fatto è che trascorreva quasi ventiquattro ore su ventiquattro nella cabina Bb, per essere certa di trovarsi lì quando io tornavo. Allora, quando? Nell’unico momento possibile. Mentre io mi nascondevo sotto quel turbogeneratore, semicongelata, con Percival, la mia «cameriera» andava a letto col mio dottore. Così il giovanotto ha genitori perfetti! Scherzi del destino: oggi Jerry vive a New Brisbane con la sua dolce moglie, Dian, ma Tilly non gli ha lasciato sospettare che in casa nostra c’è un figlio suo. Un’altra coincidenza incredibile? Penso di no: quella di dottore in medicina è una delle professioni che qui garantiscono l’esenzione dal contributo d’emigrazione. Jerry voleva sposarsi e smettere di vagare nello spazio; e perché qualcuno dovrebbe decidere di stabilirsi sulla Terra se ha avuto ampie opportunità di studiarsi le colonie? Quasi tutta la nostra famiglia va da Jerry; è un buon dottore. Sì, abbiamo due medici in famiglia, ma non hanno mai praticato; erano chirurghi genetici, biologi sperimentali, ingegneri genetici, e adesso sono agricoltori. Anche Janet sa chi sono i padri del suo primo figlio; tutti e due i suoi mariti dell’epoca, Ian e Georges. Perché tutti e due? Perché Janet ha voluto così, e ha una volontà d’acciaio. Ho sentito diverse versioni, ma è mia opinione che per il primo figlio non volesse scegliere fra i due. Il primo rampollo di Betty non è, quasi certamente, opera del bisturi e potrebbe essere legittimo. Ma Betty ha talmente lo spirito del fuorilegge che preferirebbe farlo credere frutto di uno stupro di gruppo a un ballo in maschera. New Brisbane è un posto molto tranquillo, ma nessuna casa che ospiti Betty Frances potrà mai essere noiosa. Forse voi ne sapete più di me sul ritorno della Morte Nera. Gloria dice che è merito dei miei avvertimenti se Luna City si è salvata, ma sarebbe più esatto attribuire il merito a Boss. La mia breve carriera di indovina è stata solo una Trilby, a paragone del suo Svengali. La peste non è uscita dalla Terra, e questa è senz’altro opera di Boss… Anche se una volta, nella fase più critica, New Brisbane comunicò a una scialuppa che non poteva atterrare se prima non veniva esposta al vuoto e poi ripressurizzata. In effetti, il trattamento uccise topolini e topacci; e pulci. Il capitano smise con la minaccia di addebitare le spese dell’operazione alla colonia, dopo questi risultati. Contributi: la corrispondenza impiega fra Botany Bay e Terra/Luna da quattro a otto mesi tra andata e ritorno; non male per centoquaranta anni luce. (Una volta ho sentito una turista chiedere perché non usiamo la radioposta!) Gloria ha pagato il mio contributo alla colonia con tutta la velocità possibile, ed è stata generosa nel concedermi il capitale iniziale. Il testamento di Boss le dava carta bianca. Non ha inviato qui oro; ha accreditato i soldi sul conto corrente nella colonia a Luna City, il conto corrente che ci permette di ricevere attrezzature agricole o tutto il necessario. Però Pete aveva ben poco sulla Terra e Tilly, una quasi-schiava, aveva nulla. A me restava ancora una fetta di quel primo premio alla lotteria, e tutto il mio assegno di liquidazione, e anche qualche azione. Ho potuto tirare fuori dai guai i miei compagni di fuga. La nostra colonia non respinge mai un profugo, ma al profugo potrebbero occorrere anni per pagare alla colonia ciò che le deve. Hanno mugugnato tutti e due. Io ho risposto con mugugni ancora più robusti. Non solo resta tutto in famiglia, ma senza l’aiuto di Percival e Matilda è quasi certo che mi avrebbero presa e sarei finita al Regno, morta. Comunque, insistevano a volermi ripagare. Siamo arrivati a un compromesso. I loro pagamenti, più un po’ dei nostri soldi, hanno dato vita al Fondo Asa Hunter Pane Sparso Sull’Acqua, che serve per aiutare profughi e nuovi amici. Non penso più alla mia strana e talora vituperata origine. «Per fare un bambino umano ci vuole una madre umana.» Me lo ha detto Georges tanto tempo fa. È vero, e io ho Wendy per dimostrarlo. Sono umana e appartengo a questo posto! Credo che tutti desiderino solo questo. Appartenere a un luogo. Essere «persone». Io appartengo, parola mia! La settimana scorsa ho cercato di capire perché sono sempre così a corto di tempo. Sono segretaria del consiglio comunale. Sono capopianificazione dell’associazione genitori-insegnanti. Sono capo-plotone delle scout New Toowoomba. Sono stata presidentessa del Garden Club, e faccio parte del comitato che sta preparando i piani per la nostra nuova università. Sì, appartengo a questo posto. È una sensazione calda e piacevolissima. FINE